Screening, diagnosi e terapie: quando è troppo?

Silvia Minozzi1, Paola Mosconi2 per l’Associazione Alessandro Liberati - Network Italiano Cochrane

1Dipartimento Epidemiologia del SSR del Lazio, Roma; 2Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, Milano.

Pervenuto su invito il 22 febbraio 2020.

Quando è troppo? E come si affronta il troppo – e/o l’incertezza su quando è troppo e cosa è meglio – nella relazione medico-paziente, nella comunicazione con i cittadini ma, anche, nella valutazione dei casi all’interno di un team clinico? È un tema molto ampio e complesso nel quale si sfidano in un confronto mai alla pari le prove disponibili, le attese e le preferenze di singoli, gli interessi di categorie professionali e anche quelle del mercato. Molte revisioni della letteratura concludono che le prove non sono sufficienti e la qualità della ricerca scientifica spesso tradisce problemi metodologi che molto inficiano la validità e riproducibilità dei risultati. L’informazione che viene fornita ai cittadini è spesso troppo enfatica sui benefici e mette poco in guardia su possibili danni e, non certo da ultimo, le persone con una malattia hanno da risolvere un problema che riguarda strettamente la loro qualità della vita1,2.

La complessità è troppa, troppo nel troppo.

Per ragionare su questi temi, imparare dalle esperienze e cercare di trovare modalità possibili per migliorare i percorsi prescrittivi e comunicativi, esperti e non esperti si sono confrontati nell’ultima Riunione Annuale dell’Associazione Alessandro Liberati - Network Italiano Cochrane. Tra i temi discussi: lo screening mammografico, l’uso della medicina nucleare, la prescrizione di vitamina D e i check-up. Ambiti volutamente diversi tra loro: interventi di salute pubblica dalla notevole complessità organizzativa, uso di diagnostiche complesse che richiedono grandi competenze nella comunicazione e discussione dei risultati, disponibilità di farmaci dal potenziale ampio utilizzo il cui marketing indiretto e l’informazione raggiungono ampie fasce di popolazione e, infine, i check-up, cartina di tornasole di un concetto molto ambizioso di medicina preventiva. Tutti e quattro gli esempi annoverano ancora molte incertezze, la gestione e la corretta comunicazione delle quali è un aspetto cardine e complementare dell’approccio evidence-based. Infatti non è possibile per il medico applicare i principi della medicina basata sulle prove, se questi principi, inclusa la consapevolezza dei limiti della ricerca scientifica e della incertezza che ne deriva, non vengono compresi dai pazienti, condivisi con la comunità medico-scientifica di riferimento nonché fatti propri anche dalla società.

Si è ragionato poi sui diversi aspetti e punti di vista correlati a questo tema – la ragionevole paura e ansia del paziente, la sempre più diffusa fede nella scienza come lo strumento onnipotente che può dare all’uomo moderno il potere di controllare ogni situazione, o, dall’altra parte, la negazione del valore scientifico delle prove, soprattutto quando difficili da maneggiare – e di come tutti questi aspetti facciano sì che spesso il paziente rifiuti la possibilità che possa esserci incertezza sul risultato di un esame, o sulla terapia migliore, o sulla prognosi o non accetti l’evidenza che un determinato esame o trattamento siano inefficaci o inutili. La parola chiave per orientarsi in tutto ciò potrebbe essere la condivisione di dati, di certezze, incertezze e possibilità con tutte le difficoltà che questo operativamente comporta, compresa l’ignoranza di chi sa o dovrebbe sapere e l’ansia e le aspettative del paziente.

Ma non c’è solo l’ansia del paziente: tra gli argomenti discussi alla riunione annuale è stato affrontato anche il tema dell’ansia del medico quando deve innanzitutto riconoscere, e quindi gestire e comunicare, la propria incertezza. Tra le possibili soluzioni è stata indicata la formazione al lavoro di squadra, per il miglioramento della comunicazione fra colleghi, nonché la condivisione e la gestione degli errori come risorsa e non come limite da punire o nascondere.

Per restituire in parte la discussione che ha animato la giornata, abbiamo raccolto le sintesi di alcuni degli interventi che si sono susseguiti nel corso della giornata.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Marshall M, Cornwell J, Collins A; Rethinking Medicine Working Group. Rethinking medicine. BMJ 2018; 363: k4987.

2. Hasanpoor E, Janati A, Arab-Zozani M, Haghgoshayie E. Using the evidence-based medicine and evidence-based management to minimise overuse and maximise quality in healthcare: a hybrid perspective. BMJ Evid Based Med 2020; 25: 3-5.

Sovradiagnosi:
il caso esemplare
dello screening mammografico

Silvia Deandrea1

1Agenzia di Tutela della Salute, Pavia.

Pervenuto su invito il 20 febbraio 2020.

Nello screening mammografico la sovradiagnosi consiste nella diagnosi di cancri che non si sarebbero mai manifestati nel corso della vita se non fossero stati trovati dallo screening. Ciò si verifica perché non tutti i tumori maligni della mammella sono progressivi e determinerebbero evoluzione clinica: la diagnosi di forme precoci intercetta anche cancri a lenta crescita, indolenti o regressivi.

La sovradiagnosi e la sua quantificazione in rapporto agli altri limiti dello screening mammografico rispetto ai benefici attesi (riduzione della mortalità e della diagnosi di stadi avanzati) ha alimentato la nota “controversia”, che ha visto contrapporsi sostenitori e detrattori dello screening per più di 20 anni1.

Se l’esistenza in sé di una quota di sovradiagnosi non è messa in dubbio, la complessità in termini definitori e computazionali determina la presenza di almeno 20 diverse stime2 che contribuiscono a generare diverse valutazioni del bilancio rischi/benefici dello screening. In tabella 1 sono citate quelle che hanno avuto maggiore visibilità e impatto nelle scelte dei decisori. Le differenze sono principalmente dovute alla scelta dei denominatori (tutti i cancri o i soli cancri individuati allo screening), dalla durata del periodo di osservazione e dagli studi su cui si basa la stima (trial e/o osservazionali). A fronte della valutazione condotta da un panel indipendente nel 2013, il Regno Unito2 ha confermato la propria politica di screening mammografico di popolazione; anche le più recenti linee guida europee, sviluppate con GRADE-Evidence to Decision3 e fonte ufficiale per le politiche degli Stati membri, hanno dato una raccomandazione a favore per la fascia 45-74 anni (forte per la fascia 50-69 anni).

Quindi, se i maggiori decisori pubblici hanno confermato le proprie politiche di screening organizzato sulla scorta delle evidenze disponibili, rimane aperto il fronte della comunicazione alle donne ai fini di una loro scelta informata. La letteratura indica che spesso l’informazione, anche quando fornita, non viene compresa in modo soddisfacente4. Una risposta italiana a questo problema è stata proposta dallo studio Donna Informata, che ha prodotto un Decision Aid5 di cui si auspica l’adozione da parte di tutti i programmi di screening del nostro Paese.

Sebbene il tema della sovradiagnosi sia salito alla ribalta delle cronache per lo screening mammografico in particolare, va tenuto conto che il fenomeno esiste anche in patologie non cancerose (per es., osteoporosi) e, all’interno dell’area oncologica, esempi sono anche la prostata e la tiroide, con effetti di ordine di grandezza superiore alla mammella. A maggior ragione, la sovradiagnosi si verifica anche nelle popolazioni che si sottopongono a test (mammografia, ecografia, autopalpazione del seno o visita senologica) al di fuori dei programmi con tempi e modalità non appropriati; infine, anche casi sintomatici possono essere regressivi6.

In conclusione, accettando l’inevitabilità della sovradiagnosi, anche in presenza di screening appropriato e di qualità, è importante che la sua interpretazione sia contestualizzata all’interno del più ampio bilancio rischi-benefici dell’intervento e che i valori individuali delle donne siano tenuti in conto. Strategie di mitigazione di sovradiagnosi e sovratrattamento devono avere un posto importante nell’agenda di ricerca nel campo della diagnosi precoce dei tumori.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Paci E. Mammografia. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2017.

2. Independent UK Panel on Breast Cancer Screening. The benefits and harms of breast cancer screening: an independent review. Lancet 2012; 38: 1778-86.




3. Schünemann HJ, Lerda D, Quinn C, et al.; European Commission Initiative on Breast Cancer. Breast cancer screening and diagnosis: a synopsis of the European Breast Guidelines. Ann Intern Med 2019; Nov 26. Raccomandazioni integrali disponibili su: https://healthcare-quality.jrc.ec.europa.eu/european-breast-cancer-guidelines (ultimo accesso 20 febbraio 2020).

4. Mathioudakis AG, Salakari M, Pylkkanen L, et al. Systematic review on women’s values and preferences concerning breast cancer screening and diagnostic services. Psychooncology 2019; 28: 939-47.

5. Strumento decisionale per migliorare la scelta informata sullo screening mammografico organizzato. https://www.donnainformata-mammografia.it/ (ultimo accesso 20 febbraio 2020).

6. Segnan N, Minozzi S, Armaroli P, et al. Epidemiologic evidence of slow growing, nonprogressive or regressive breast cancer: a systematic review. Int J Cancer 2016; 139: 554-7.

7. Gøtzsche PC, Jørgensen KJ. Screening for breast cancer with mammography. Cochrane Database Syst Rev 2013; (6): CD001877.

8. Paci E, Euroscreen Working Group. Summary of the evidence of breast cancer service screening outcomes in Europe and first estimate of the benefit and harm balance sheet. J Med Screen 2012; 19 (suppl 1): 5-13.

Trattamenti inutili?
Vitamina D: tra prove di efficacia e pratica clinica

Rita Banzi1, Alexan Alexanian2

1Centro Politiche Regolatorie in Sanità, Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, Milano; 2Medico di Medicina Generale, ATS Città di Milano.

Pervenuto su invito il 18 febbraio 2020.

L’interesse per l’uso degli integratori a base di vitamina D è cresciuto esponenzialmente nel mondo e in Italia negli ultimi vent’anni. Parallelamente, abbiamo assistito a un aumento vertiginoso degli studi scientifici mirati a valutare la relazione di bassi livelli di vitamina D (più correttamente di 25-idrossi-vitamina D) e l’insorgenza di malattie o loro fattori di rischio. Dai tumori alle malattie cardiovascolari, passando per i disordini neurologici, le malattie respiratorie e legate al sistema immunitario, non c’è area della medicina in cui non sia stato ipotizzato l’effetto benefico dell’integrazione con vitamina D. Sebbene livelli bassi di vitamina D siano frequenti in numerose condizioni patologiche, le prove dell’efficacia di tale integrazione sono limitate a poche malattie legate a un prolungato stato carenziale1. L’uso a scopo preventivo di malattie oncologiche e cardiovascolari è del tutto privo di fondamento. Anche il beneficio per prevenire disturbi in ambito muscoloscheletrico sembra essere poco rilevante dal punto di vista clinico. Recenti revisioni sistematiche, che hanno raccolto dati su oltre 50.000 partecipanti, hanno concluso che la vitamina D non ha effetti clinicamente significativi su fratture, cadute o aumento della densità ossea nei soggetti sani, anche se anziani, che vivono in comunità2.

Tra i motivi addotti per il fallimento degli studi clinici sull’integrazione di vitamina D c’è l’inclusione di popolazioni non carenti. Ma quando si è davvero carenti? Sebbene livelli di 25-idrossi-vitamina D sotto i 30 ng/mL vengano spesso considerati indice di insufficienza, esiste una sostanziale mancanza di standardizzazione circa i range di normalità e quindi la necessità di integrazione3. La tabella 1 riporta le soglie di carenza secondo il National Institute of Health4.

Uno stile di vita corretto, cioè un’adeguata esposizione alla luce del sole e una dieta bilanciata, sono spesso sufficienti a prevenire stati di carenza di vitamina D.

L’entusiasmo nei confronti dei dosaggi della vitamina D per stabilire eventuale carenze ha portato a una vera e propria “epidemia di ipovitaminosi”, che ha spinto un’incessante prescrizione di integratori. Il consumo di vitamina D e analoghi in Italia nel 2018 è stato infatti di 19,3 DDD/1000 al giorno, con un costante aumento dei consumi dal 2013 (12,3 DDD/1000 al giorno). Soltanto tra il 2017 e il 2018 i consumi a carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) sono aumentati del 10%. Ciò ha rappresentato nel 2018 una spesa di circa 273 milioni di euro (spesa convenzionata); nel 2006 ne venivano spesi 245. L’apparente “epidemia di ipovitaminosi D” che ha colpito il pianeta negli ultimi anni dovrebbe quindi essere stata debellata da questa esplosione di prescrizioni.




L’uso crescente dei supplementi di vitamina D ha attratto l’attenzione degli economisti sanitari – in Paesi come gli Stati Uniti dove vige un sistema sanitario largamente “privato” – a seguito di audit delle assicurazioni, della Kaiser Foundation6 e di alcune Health Maintenance Organization (HMO, gruppi assicurativi con premi più bassi) che generalmente regolamentano, attraverso il passaggio da un medico gatekeeper, l’accesso a liste predefinite di specialisti che operano sulla base di linee guida concordate. Anche in Italia, dove il farmaco è stato a lungo interamente a carico del SSN, si è corso ai ripari. L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha recentemente regolamentato le prescrizioni dei medicinali con indicazione “prevenzione e trattamento della carenza di Vitamina D” (colecalciferolo, colecalciferolo/sali di calcio, calcifediolo), restringendone le prescrizioni a carico del SSN alle persone istituzionalizzate, alle donne in gravidanza o che allattano, e alle persone affette da osteoporosi da qualsiasi causa o osteopatie accertate non candidate a terapia remineralizzante. Negli altri casi la prescrizione a carico dell’SSN è possibile nei soggetti con livelli di 25-idrossi-vitamina D al di sotto dei 20 ng/mL e altri fattori di rischio7.

Dall’osservatorio del medico di medicina generale (MMG) il caso della vitamina D ha presentato diverse caratteristiche che autorizzano a definirlo paradigmatico. Da una parte l’enfasi su esiti di laboratorio (dosaggi di vitamina D) o su indicatori di esito intermedio come il risultato della densimetria ossea invece dell’effettiva riduzione del rischio di fratture e il ruolo degli specialisti (ginecologi in primis) come induttori di prescrizioni e quindi di spesa. Dall’altra, una formazione medica spesso delegata a corsi di aggiornamento dai contenuti divergenti quando organizzati da attori indipendenti o sponsorizzati da case farmaceutiche. Infine, il ruolo della stampa generalista non specializzata che enfaticamente considera la menopausa una malattia inducendo bisogni a diffusione epidemica presso i cittadini (“per ogni malattia vi è una soluzione chimica”). La vitamina D rappresenta un paradosso in questo paradosso perché viene spesso preferita, in quanto non percepita come farmaco, in luogo di trattamenti di provata efficacia. In questo contesto la nota AIFA che limita la prescrivibilità della vitamina D a carico del SSN viene da molti vissuta come regresso e perdita di un giusto diritto.

Il MMG deve confrontarsi con l’opinione di numerosi attori interessati e il singolo maggior provvedimento che potrebbe aiutarlo consiste in un’aumentata educazione sanitaria dei cittadini, da parte di scuola e istituzioni indipendenti.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Banzi R, Garattini S. Il mito della vitamina D sotto il sole. Ricerca&Pratica 2019; 35: 108-14.

2. D’Alò, Ciabattini M, Da Cas R,et al. Somministrazione di vitamina D per la prevenzione dell’osteoporosi: una scelta basata sull’evidenza? Disponibile al sito www.epicentro.iss.it/ben/2018/giugno/2.asp (ultimo accesso gennaio 2020).

3. Bolland MJ, Grey A, Avenell A. Effects of vitamin D supplementation on musculoskeletal health: a systematic review, meta-analysis, and trial sequential analysis. Lancet Diabetes Endocrinol 2018; 6: 847-58.

5. Osservatorio Nazionale sull’impiego dei Medicinali. L’uso dei farmaci in Italia. Rapporto Nazionale Anno 2018. Disponibile al sito https://www.aifa.gov.it/osservatorioimpiego-medicinali-osmed (ultimo accesso gennaio 2020).

7. Nota AIFA 96, relativa alla prescrizione, a carico del SSN, dei farmaci per la prevenzione e trattamento carenza di vitamina D nell’adulto (>18 anni). (Determina n. 1533/ 2019). Disponibile al sito https://www.aifa.gov.it/-/vitamina-d-aifa-istituisce-lanota-aifa-96 (ultimo accesso gennaio 2020).

Le diagnosi inutili:
contro i check-up

Alberto Donzelli1

1Fondazione Allineare Sanità e Salute (www.fondazioneallinearesanitaesalute.org).

Pervenuto su invito l’8 gennaio 2020.

La medicina ha di certo fatto “miracoli” e migliorato cure e qualità di vita per milioni di persone. Da anni, però, anche nei pochi Paesi come l’Italia con un sistema sanitario nazionale, i sistemi sanitari vivono una crisi di senso e sostenibilità che ne minaccia la sopravvivenza.

Il disease mongering (commercio di malattie) medicalizza la vita, trasformando disturbi e fattori di rischio in business. Un tempo le persone andavano dal medico perché si sentivano male, oggi ci vanno sempre più per timore (indotto) di malattie asintomatiche o di potersi ammalare. Il mercato spinge a diagnosi sempre più precoci e predittive, a modificare i confini tra normalità e patologia, a inventare malattie, trasformando persone in buona salute in malati cui vendere cure preventive e in consumatori di sanità.

Ciò spreca risorse e tempo di vita e causa seri danni, come “epidemie” di malattie con poche probabilità di manifestarsi clinicamente durante la vita, con sovradiagnosi, sovratrattamenti e gravi perdite di costo-opportunità.

Purtroppo sanità pubblica e istituzioni mostrano scarsa consapevolezza e fanno spesso oggettiva cassa di risonanza al commercio delle malattie, o finiscono per incentivarlo con misure di effetto netto controproducente1.




I check sanitari hanno un posto di rilievo nelle strategie di mercato. L’aggiornamento di una revisione Cochrane2 (i cui principali risultati sono riportati nella tabella 1) conclude per la scarsa probabilità che comportino qualsivoglia beneficio per la salute. Sarebbero dunque da scoraggiare, anche per le ricadute in cascate diagnostiche e iatrogenesi e in costi sanitari ingenti quanto ingiustificati.

Purtroppo invece i check sanitari sono sempre più diffusi, promossi mediaticamente da produttori di tecnologie sanitarie e da erogatori incentivati a praticarle dall’attuale sistema di remunerazione (che “paga” la malattia)3, e sempre più spesso anche dalla cosiddetta “sanità integrativa”, attraverso fondi sanitari formalmente no-profit e assicurazioni sanitarie commerciali.

Per un’ampia trattazione di questo argomento si rimanda al saggio4 che contiene anche esempi di induzione di consumismo sanitario da parte della Sanità integrativa.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Donzelli A, Battaggia A, Cattaneo A, et al. Diagnostica di primo livello per la medicina generale: i pro e i contro. Quotidiano Sanità 27 novembre 2019.

2. Krogsbøll LT, Jørgensen KJ, Gøtzsche PC. General health checks in adults for reducing morbidity and mortality from disease. Cochrane Database Syst Rev 2019; (1): CD009009.

3. Donzelli A. Una riforma strutturale per la sanità: pagare la salute, non la malattia. Allineare le convenienze dei diversi attori all’etica e alla salute della comunità dei cittadini. In: Aillon J, Bessone M, Bodini C (a cura di). Un nuovo mo(n)do per fare salute. Le proposte della Rete Sostenibilità e Salute. Torino: Celid, 2019.

4. Donzelli A. Chi si iscrive alla Sanità integrativa (con le norme attuali) danneggia anche gli altri. Sistema Salute 2020; 63: 540-55.

Incertezza, sovradiagnosi, sovratrattamento:
il punto di vista del medico

Giorgio Costantino1, Gian Marco Podda2, Giovanni Talerico3

1IRCCS Fondazione Ca’ Granda, Pronto Soccorso e Medicina d’Urgenza, Ospedale Maggiore Policlinico, Milano; 2Medicina Terza ASST Santi Paolo e Carlo, Università di Milano; 3Dipartimento di Medicina Interna e Specialità Mediche, Sapienza Università di Roma.

Pervenuto su invito il 19 febbraio 2020.

Ahmed, ventiduenne turco, viene in Italia per le vacanze. Ha un’obesità di tipo I (BMI 31), ma non ha altri problemi di salute. Dopo tre giorni dall’arrivo in Italia si sente agitato, si sente mancare il fiato. Decide di andare in Pronto Soccorso. In effetti è un po’ agitato, la saturazione periferica di ossigeno è buona (98%), la frequenza cardiaca è ١٠٠ bpm. L’elettrocardiogramma mostra un blocco di branca destro, ma non si sa se fosse già presente. Nel sospetto di un’embolia polmonare si esegue il D-dimero, che risulta leggermente al di sopra dei limiti di normalità (578 ng/ml, vn <500), un’ecografia compressiva degli arti inferiori, per escludere una trombosi venosa profonda, che risulta negativa e un’angio-TC torace che evidenzia la presenza di embolia polmonare segmentaria. Ahmed viene ricoverato con la diagnosi di embolia polmonare e inizia una terapia anticoagulante. In reparto, rilevando una discrepanza tra il riscontro TC e il quadro clinico, viene richiesta una nuova lettura in cieco della TC da parte di un secondo radiologo che esclude la presenza di embolia polmonare e interpreta il precedente risultato come un falso positivo.

La nostra pratica clinica è incentrata sull’incertezza. La raccolta dell’anamnesi da parte di medici differenti è variabile. L’esame obiettivo non è concorde. Perfino la misurazione della pressione arteriosa o della temperatura corporea non è scevra dalla variabilità tra operatori e tra device1. Per quanto riguarda la lettura delle TC per la diagnosi di embolia polmonare molti studi riportano un’ottima concordanza per le forme anatomicamente massive di embolia ma la concordanza tra operatori è decisamente più bassa nelle forme segmentarie e subsegmentarie (k 0,47, range 0,16-0,68)2. Nell’ultimo decennio stiamo assistendo a un incremento quasi esponenziale nell’incidenza di nuove diagnosi di embolia polmonare acuta con una riduzione progressiva dei tassi di mortalità. Le motivazioni possono essere diverse, tuttavia è altamente probabile che molte diagnosi di embolia polmonare non identifichino vere embolie polmonari ma siano semplicemente dei falsi positivi3.

Siamo propensi a somministrare un farmaco sulla base dei risultati di ampi trial clinici randomizzati e controllati, ma in realtà la maggior parte dei pazienti che curiamo nei nostri ambulatori non sarebbe inclusa nei trial clinici randomizzati. Non sappiamo, quindi, quanto sarà reale l’effetto del farmaco nel nostro paziente, che ha caratteristiche completamente diverse da quello arruolato nei trial4. Senza contare che, una volta prescritto un farmaco, la compliance del paziente è una variabile importante, considerando che più del 30% dei pazienti non assume regolarmente la terapia cronica prescritta.

Come reagire a questa incertezza? Spesso siamo alla ricerca di certezze, di numeri che sostengano le nostre scelte. È questo il caso dei diversi score presenti in letteratura, numerosissimi, ma pochi validati esternamente e di provata efficacia. Avere dei numeri ci dona certezze… che la maggior parte delle volte sono false! Spesso ci affidiamo a linee guida. Anche in questo contesto, sono state sollevate diverse perplessità sulla reale affidabilità di queste raccomandazioni. Legami economici con industrie farmaceutiche, pressioni esterne sugli autori ma soprattutto la carenza di adeguati livelli di evidenza, per mancanza di prove scientifiche forti, lasciano spazio, troppo spesso, al parere “soggettivo” degli esperti.

Da uno studio di confronto fra 3 recenti linee guida di importanti società scientifiche, si evince che su 21 quesiti riguardanti la gestione in Pronto Soccorso del paziente con fibrillazione atriale, in 5 di essi non era presente alcuna concordanza tra le tre linee guida, in 3 la concordanza era parziale, in 10 la concordanza era totale e in 3 casi almeno una linea guida non affrontava l’argomento. Per di più, su un quesito ben preciso quale il ruolo dell’amiodarone nel paziente con fibrillazione atriale e sindrome di Wolf-Parkinson-White, una linea guida suggeriva cautela, una ne consigliava l’utilizzo e l’altra lo sconsigliava5.

Nella medicina moderna, l’ampia disponibilità di dati e una letteratura scientifica in perenne espansione dovrebbero semplificare il difficile lavoro del medico. È quasi paradossale parlare di incertezza. Eppure, è sorprendente percepire una distanza così profonda tra l’infinità di dati a nostra disposizione e ciò che è realmente utile per il singolo individuo. Senza contare che i valori di ogni singolo paziente possono essere diversi. Come sopportare questo peso? Cercare finte certezze forse non è la strada giusta, così come rifiutare qualsiasi studio perché troppo lontano dalla nostra pratica clinica. A nostro parere in medicina il bianco e il nero non esistono. La realtà è rappresentata da un’infinita scala di grigi, ognuno dei quali rappresenta il nostro paziente nella sua singolarità, al quale ogni medico, a seguito di un ragionamento clinico, basato sulla valutazione critica dei dati presenti in letteratura e sulle preferenze del paziente dovrà dare una risposta che non deve necessariamente essere univoca. Solo accettando l’incertezza e la possibilità di errore potremo mettere in atto una buona medicina per il nostro paziente e vivere più serenamente la nostra professione. Tutto questo vuol dire solo investire nella nostra intelligenza e nel nostro giudizio critico. È questo che rende il lavoro del medico così bello e unico. Cercare finte certezze significa abdicare alla nostra intelligenza.

La rivoluzione sarà tollerare l’incertezza. Rassegniamoci.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. McGee S. Evidence-Based Physical Diagnosis: Fourth Edition. Amsterdam: Elsevier, 2017.

2. Costantino G, Norsa AH, Amadori R, et al. Interobserver agreement in the interpretation of computed tomography in acute pulmonary embolism. Am J Emerg Med 2009; 27: 1109-11.

3. Konstantinides SV, Barco S, Lankeit M, Meyer G. Management of pulmonary embolism: an update. J Am College Cardiol 2016; 67: 976-90.

4. Abbasi J. Older patients (still) left out of cancer clinical trials. JAMA 2019; 322: 1751-3.

5. Costantino G, Podda GM, Falsetti L, et al. Guidelines on the management of atrial fibrillation in the emergency department: a critical appraisal. Intern Emerg Med 2017; 12: 693-703.

Richieste e aspettative
del paziente: l’esperienza
di un medico di base

Ivan Moschetti1

1Agenzie di Tutela della Salute (ATS) Milano Città, Milano.

Pervenuto su invito il 27 febbraio 2020.

Il medico che di seguito riporta la sua esperienza ha 46 anni e da 20 circa riceve pazienti con caratteristiche, interessi e aspettative molto diverse tra loro. Ha fatto il sostituto del medico di base prima, insieme a un po’ di guardia medica, poi, si è occupato dei migranti quando in città c’erano diverse aree dismesse piene di persone che di giorno facevano i muratori o le colf e la sera tornavano a dormire in tali luoghi dimenticati. Ha potuto vivere anche il carcere come medico penitenziario, raccogliendo richieste e aspettative dei pazienti anche lì. Parallelamente all’attività clinica, per cercare di capire se una cura funziona oppure “non ci sono evidenze che…”, ha potuto collaborare con Alessandro Liberati e il Centro Cochrane Italiano. Ambiente quest’ultimo molto stimolante ma estremamente frustrante perché già allora, osservando le proposte terapeutiche disponibili per la maggior parte delle problematiche mediche, risultava che oltre il 50% non era di comprovata efficacia1,2. La maggior parte di quello che quotidianamente si offriva ai pazienti, nei vari ambienti descritti, non aveva dimostrato seriamente di funzionare più del placebo. Anche in ambito diagnostico e di screening non eravamo (e non siamo) messi meglio. Da qui la frustrazione, perché cominciava a strutturarsi il concetto che sia per l’efficacia sia per la diagnosi la scienza medica non offre solo solide certezze.

Tempi difficili perché già allora, nel lontano 2003, la popolazione generale era particolarmente convinta che fare di più era fare meglio, sempre! Anche in assenza di prove. Ha avuto spesso la percezione che la maggior parte di chi si affida alla medicina tradizionale sia convinto che l’insieme delle diagnosi e cure che vengono proposte siano rispettivamente realistiche e utili. Questa percezione è sostenuta in parte anche dalla letteratura. Una revisione sistematica che ha esplorato le aspettative dei pazienti verso i test diagnostici e verso trattamenti medici o chirurgici ha evidenziato un eccesso di ottimismo: fino a 9 pazienti su 10 si aspetta dagli interventi e dagli esami a cui si sottopone benefici maggiori di quanto sia legittimo aspettarsi dalle prove e fino a 9 su 10 sottovalutano i rischi che si possono correre sottoponendosi a test3. Quando gli autori esplorano la categoria dei medici ottengono risultati sovrapponibili4.

In ambito di salute, distinguere le prove dalle opinioni non è facile sia per i medici sia per i pazienti. Alcune problematiche ruotano attorno alla metodologia della ricerca, ma la valutazione critica di quello che viene prodotto in ambito scientifico è poco applicata nella pratica quotidiana. Un altro elemento che si osserva in gran parte dei soggetti coinvolti in un percorso di diagnosi e cura è la diffusa ignoranza rispetto al grado di affidabilità di un risultato, sia esso positivo o negativo. Questo atteggiamento consente di scegliere facilmente un trattamento o un test diagnostico ma spesso trasforma il campo di gioco in un terreno molto scivoloso; nel caso in cui l’intervento sia prescritto da uno specialista, ma in contrasto con le prove, per il medico di medicina generale ricondurre la discussione sulla necessità di fare o meno quel “qualche cosa” diventa lungo e complicato. Il confronto spesso vira su come e dove fare l’esame piuttosto che sul perché serve. La consapevolezza dell’incertezza, ossia il grado di affidabilità di un risultato e la sua probabilità di verificarsi all’interno di un range di possibilità (intervalli di confidenza) non pare ancora una conquista dell’intero corpo medico italiano e di conseguenza anche dei pazienti.

Dall’esperienza con pazienti e medici emerge e va aumentando la necessità di fare di più, soprattutto in termini diagnostici: “dottore voglio sapere se…”. La convinzione che diagnosticare precocemente qualunque malattia anche prima che questa si presenti è pervasiva, anche se alla persona viene ben spiegato che non esistono terapie per alcune diagnosi che si possono ottenere prima del tempo con i moderni test diagnostici.

Il medico di medicina generale si deve spesso confrontare con l’inappropriatezza che spesso origina altrove. Le informazioni attualmente disponibili ci consentirebbero di gestire meglio richieste e aspettative dei pazienti ma servirebbe una vera alleanza attorno alla persona. Per esempio, gli screening in gravidanza o per la prevenzione della neoplasia mammaria, del tumore del colon, la prevenzione per le neoplasie della cervice uterina, oppure le richieste improprie per i marcatori tumorali, l’azotemia o le transaminasi o il colesterolo e i trigliceridi, etc. Qualunque cosa prescritta da uno specialista (soprattutto se a seguito di una visita privata) è per definizione appropriata e necessita da parte del medico di medicina generale moltissimo tempo per spiegare quanto certe richieste non modifichino affatto né la quantità né la qualità della vita. Pensate alle pressioni mediatiche per effettuare controlli e check-up per i quali spesso non esistono prove a favore, anzi. Sono bisogni in larga parte indotti ma essendo legati alla salute ogni volta che vengono messi in discussione generano ansie e conflitti.

Dopo questa carrellata di esperienze concludo con una banalità che tuttavia è forse una possibile risposta all’attuale maldestra gestione delle raccomandazioni che arrivano dal mondo scientifico: insegnare fin dalle scuole primarie il ragionamento scientifico sforzandosi di tutelare i pochi modi esistenti di relazionare una causa a un effetto.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Moschetti I, Moja L, Dri P, et al. La formazione permanente in Italia, il possibile ruolo dell’evidence-based medicine: qualcosa si muove. Clinical Evidence ed ECCE. Ricerca & Pratica 2005; 21: 188-98.

2. Formoso G, Moja L, Nonino F, et al. Clinical Evidence: a useful tool for promoting evidence-based medicine? BMC Health Services Research 2003; 3: 24.

3. Hoffmann TC, Del Mar C. Patients’ expectations of the benefits and harms of treatments, screening, and tests: a systematic review. JAMA Inter Med 2015; 175: 274-86.

4. Hoffmann TC, Del Mar C. Clinicians’ expectations of the benefits and harms of treatments, screening, and tests: a systematic review. JAMA Inter Med 2017; 177: 407-19.

Terapia utile e inutile:
come ragionare di incertezza
con il paziente oncologico

Francesco Perrone1

1Istituto Nazionale Tumori, Napoli.

Pervenuto su invito il 17 febbraio 2020.

La “utilità” di una terapia è necessariamente il risultato di una mediazione tra sapere del medico e valori del paziente. In questo senso essa può prescindere o contrastare con la forza delle evidenze sulla sua efficacia o con la formale appropriatezza prescrittiva. Sicuramente esiste una zona grigia, di confine tra “utilità” e “inutilità” dei trattamenti, ove diventa cruciale la condivisione dell’incertezza tra pazienti e medici, e che è per sua natura dinamica e in costante cambiamento. In oncologia, per esempio, l’incertezza tende a diminuire grazie all’incremento delle conoscenze e della precisione diagnostica, nonché alla diffusione della multidisciplinarietà. Peraltro, l’incertezza tende ad aumentare per la crescente evanescenza delle prove, per il rischio di sovradiagnosi e per l’aumento delle opzioni terapeutiche.

Condividere l’incertezza e ragionarne con i pazienti è un esercizio complesso, in cui i medici dovrebbero sempre essere ispirati, a mio avviso, da tre principi: i) sapere di non sapere; ii) saper comunicare; iii) rispettare.

“Sapere di non sapere” richiede di sapere come interpretare i risultati della ricerca e dare il giusto peso alle evidenze disponibili, resistendo alla disinformazione sistematica proveniente dalle fake news e dalla propaganda, e alla confusione derivante da troppa informazione. Richiede, quindi, una solida cultura metodologica, ma anche di essere umili, riconoscendo che come comunità scientifica il nostro sapere è ancora, nella maggioranza dei casi, limitato.

“Saper comunicare” significa condividere tempo con il paziente, eventualmente attraverso incontri multipli, pur senza generare ritardi o attese troppo lunghe. Significa ascoltare il paziente, cercando di capirne lo stato d’animo, la sua possibilità/capacità di ricevere messaggi complessi, i suoi valori, le sue aspettative. Significa poi parlare, contestualizzando quando possibile il caso particolare all’interno di un fenomeno più ampio pur senza essere superficiali sulla unicità umana della vicenda del singolo paziente. In oncologia, data la complessità di alcune strategie, è opportuno delineare un programma terapeutico, di cui quella che poi si discuterà sarà solo la prima scelta, non l’unica. Significa identificare ed esplicitare i motivi dell’incertezza, quali l’esistenza di trattamenti alternativi (il più delle volte questioni di tattica, di scarso valore), il bilancio tossicità/efficacia, e la natura probabilistica e transitoria del risultato terapeutico. Per fare questo è ovviamente anche necessario affrontare (e si spera superare) i problemi tecnici della comunicazione, quali i) la stima e la comunicazione della prognosi (servendosi se possibile di strumenti di previsione); ii) l’uso di indicatori relativi o assoluti di efficacia e tossicità delle possibili opzioni terapeutiche. È anche utile, a mio avviso, anticipare la possibilità di un secondo parere, che è probabilmente già nella testa del paziente o della famiglia, prevedendo la materia della possibile discordanza, dettata il più delle volte proprio dalle incertezze che vogliamo discutere.

Infine, “rispettare” richiede di ricordare a sé stessi che molto probabilmente il paziente che abbiamo di fronte ha delle priorità e dei valori diversi dai nostri, perché ha (tranne rari casi) un patrimonio di conoscenze diverso dal nostro e tecnicamente minore; ma, soprattutto, ha mediamente (molta) paura. E non dimenticare che il paziente ha dei diritti sacrosanti, incluso quello di non volersi fidare di noi e di quello che gli diciamo.

Conflitto di interessi: l’autore ha collaborato negli ultimi quattro anni, a livello personale, per attività educazionali o in advisory board con aziende farmaceutiche quali: Bayer, Janssen Cilag, Pierre Fabre, AstraZeneca, Celgene, Incyte, Sandoz, Bristol Myers Squibb, Ipsen, Eli Lilly; e istituzioni/società scientifiche quali: Cerismas, SIFO, ALTEMS, Humanitas, SMA, UniMoRe, Bocconi, AIOT, Campus Biomedico. A livello istituzionale ha collaborato per il supporto economico ad attività di ricerca con AstraZeneca, Bayer, Roche, Merck, Pfizer, Incyte, Sanofi, BioClin, Tesaro.

La richiesta
del secondo parere?
L’esperienza del paziente

Paola Emilia Cicerone1

1Giornalista e paziente, Milano.

Pervenuto su invito il 21 gennaio 2020.

Per affrontare questo importante tema sono partita da un’esperienza personale1 da cui emergono vari elementi che possono essere utili in questa riflessione. Dal fatto che di uno stesso disturbo possono essere date diverse interpretazioni – nel mio caso, si trattava di un blefarospasmo, un disturbo neurologico definito “inguaribile” dal primo specialista che mi ha visitato, ma altri hanno proposto diagnosi diverse – alla difficoltà di identificare un interlocutore in grado di presentare diverse opzioni terapeutiche, e al tempo stesso attento al punto di vista e alle esigenze del paziente.

A richiedere una seconda opinione sono soprattutto pazienti oncologici o che soffrono di malattie rare, ma anche persone non convinte della diagnosi ricevuta o della terapia prescritta, o insoddisfatte della relazione col proprio medico. Consultare un altro specialista può aiutare a decidere se sottoporsi a un intervento oppure optare per una terapia medica, a scegliere tra due diverse procedure chirurgiche, a capire se sia meglio sottoporsi immediatamente a un trattamento oppure attendere. E saperlo è un diritto per ogni malato, ma molti medici vivono ancora la richiesta di un secondo parere come una sfida alla propria autorità. E c’è anche chi ne fa un’opportunità di business, offrendo on line “secondi pareri” a pagamento sulle patologie più varie. Quanto alle domande da fare, secondo la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO) questa può essere l’occasione per fare domande precise su vantaggi e controindicazioni dei trattamenti proposti e sulle possibili alternative (tabella 1).




Nella realtà, a chiedere un secondo parere sono in genere i pazienti più informati, che spesso sono anche i meno disposti ad affidarsi ai curanti2. Oppure quelli che hanno trovato on line informazioni che divergono da quanto spiegato dal medico3. E a giudicare dai dati raccolti, sembra che chiedere un secondo parere sia una buona idea. Secondo uno studio realizzato dalla Mayo Clinic4, nella maggior parte dei casi il risultato che emerge dalla seconda opinione è diverso dal precedente, e spesso modifica la terapia5. E secondo uno studio israeliano l’84% dei pazienti è soddisfatto della seconda opinione ottenuta6.

Il nodo centrale resta comunque quello della relazione tra curanti e pazienti, dell’esigenza di chi soffre di essere ascoltato e di chiarire i dubbi che spesso nascono anche dalle informazioni raccolte in rete o attraverso i media: esistono nuove cure? E quali sono le possibilità concrete di ricorrervi, i vantaggi o le controindicazioni? L’ascolto e il dialogo restano gli strumenti migliori per intraprendere un percorso condiviso che può comprendere, quando opportuno, anche un secondo parere che aiuti a prendere più serenamente decisioni importanti. Una medicina, informata dalle prove di efficacia, “sobria rispettosa e giusta”, per usare la definizione di Slow Medicine, non si dovrebbe basare sulla proclamazione di – spesso illusorie – certezze, ma sull’impegno a gestire le incertezze con cui la professione medica deve inevitabilmente fare i conti: proprio qualche mese fa, un editoriale pubblicato sul British Medical Journal si soffermava sull’importanza, nella pratica medica, delle parole “Non lo so”7.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Cicerone PE. Cecità clandestina. Firenze: Maria Margherita Bulgarini Editore, 2017.

2. Groß SE, Hillen MA, Pfaff H, Scholten N. Second opinion in medical encounters. A study among breast cancer patients. Patient Educ Couns 2017; 100: 1990-5.

3. Sood N, Jimenez DE, Pham TB, Cordrey K, Awadalla N, Milanaik R. Paging Dr. Google: the effect of online health information on trust in pediatricians’ diagnoses. Clinical Pediatrics 2019; 58: 889-96.

4. Van Such M, Lohr R, Beckman T, Naessens JM. Extent of diagnostic agreement among medical referrals. J Eval Clin Pract 2017; 23: 870-4.

5. Heeg E, Civil YA, Hillen MA, et al. Impact of second opinions in breast cancer diagnostics and treatment: a retrospective analysis. Ann Surg Oncol 2019; 26: 4355-63.

6. Shmueli L, Davidovitch N, Pliskin JS, Balicer RD, Hekselman I, Greenfield G. Seeking a second medical opinion: composition, reasons and perceived outcomes in Israel. Isr J Health Policy Res 2017; 6: 67.

7. Abbasi K. Foundation of wisdom: “I don’t know”. BMJ 2019; 367: l6053.

Re-imparare a convivere
con l’incertezza:
verso un paradigma
centrato sulla relazione

Elena Vegni1,2, Lidia Borghi1

1Psicologia Clinica, Dipartimento di Scienze della Salute, Università di Milano; 2UOC di Psicologia Clinica, Dipartimento di Salute Mentale e delle Dipendenze, ASST Santi Paolo e Carlo, Milano.

Pervenuto su invito l’11 febbraio 2020

L’incertezza è una dimensione connaturata e costitutiva della medicina1. Nella pratica clinica, l’incertezza sta diventando una sfida critica per la medicina contemporanea, per almeno due ordini di ragioni. Primo, lo sviluppo della evidence-based medicine (EBM) e delle nuove tecnologie produce un sapere che spesso poco si adatta alla complessità specifica e multifattoriale della clinica con il singolo paziente: l’EBM fornisce ai medici sempre nuovi e maggiori informazioni e strumenti, ma li rende anche più consapevoli dei propri limiti di conoscenza rispetto a un tempo2. Secondo, il passaggio a partire dagli anni ’70 dal paradigma di medicina centrato sulla malattia a quello di medicina centrato sul paziente3 ha coinciso con l’emergere di un ruolo nuovo per i pazienti, sempre più consapevoli, informati e coinvolti attivamente nel proprio percorso di cura, riducendo l’asimmetria comunicativa tra medico e paziente e aumentando l’incertezza della e nella relazione4. La sfida dell’incertezza rimane oggi più aperta che mai: non esiste ancora una conoscenza sistematica e coerente sul tema e in particolare su come indirizzare i problemi o le criticità che l’incertezza pone nella relazione clinica. Dal punto di vista psicologico, l’incertezza è considerata una forma di “metacognizione”: è la consapevolezza della conoscenza che abbiamo e delle sue lacune. In altre parole, è ciò che sappiamo di non sapere. Ma come si declina questo “sapere di non sapere” nella pratica medica?

La nostra proposta è quella di sottolineare come l’incertezza assuma all’interno della relazione medico-paziente la forma del dire “non lo so” a un paziente, e in base ai tipi di “non so” che il medico si trova a dire suggeriamo una tassonomia dell’incertezza (tabella 1).

Se accogliamo il “non lo so” – ovvero l’incertezza – come parte integrante o irriducibile della pratica clinica, quali sono le ricadute immediate? Da un lato, si rimarca il focus sulla relazione medico-paziente stessa, con particolare rilievo agli aspetti comunicativi, che diventano il terreno dove si argomenta l’incertezza nella pratica clinica: se le parole sono un atto relazionale, come si co-costruisce il dialogo dell’incertezza nella visita medica? E con quali conseguenze in termini di outcome? Questo è un campo di ricerca tutto da esplorare. Dall’altro, si pone l’accento sul medico professionista necessariamente imperfetto che si confronta con una dimensione di impotenza e di vulnerabilità. L’incertezza chiama potentemente in causa l’umanità del medico ed entrambe devono necessariamente diventare soggetto della formazione professionale5.




Per fronteggiare al meglio le sfide della medicina contemporanea, quali l’incertezza, il dire “non lo so” e le ricadute sulla vita emotiva degli operatori sanitari, è necessario un nuovo cambio di paradigma medico, che allarghi la prospettiva della medicina centrata sul paziente per includere queste dimensioni nel proprio campo d’interesse. Questo modello è la cosiddetta relational centered care (RCC)6, ovvero una «cura centrata sulla relazione in cui tutti i partecipanti valorizzano l’importanza delle loro relazioni reciproche […]. Le relazioni tra pazienti e clinici rimangono centrali, anche se vengono sottolineate le relazioni dei clinici con sé stessi, tra loro e con la comunità»6.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Han P, Klein W, Arora N. Varieties of uncertainty in health care: a conceptual taxonomy. Med Decis Making 2011; 31: 828-38.

2. Han PK, Babrow A, Hillen MA, Gulbrandsen P, Smets EM, Ofstad EH. Uncertainty in health care: towards a more systematic program of research. Patient Educ Couns 2019; 102: 1756-66.

3. Moja EA, Vegni E. La visita medica centrata sul paziente. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2000.

4. Babrow A, Kasch C, Ford L. The many meanings of uncertainty in illness: toward a systematic accounting. Health Commun 1998; 10: 1-23.

5. Oteri R, Borghi L, Leone D, et al. L’esperienza del programma PERCS sulle conversazioni difficili in medicina a dieci anni dall’avvio dell’attività. Recenti Prog Med 2020; 111: 142-8.

6. Beach MC, Inui T; Relationship-Centered Care Research Network. Relationship centered-care: a constructive reframing. J Gen Intern Med 2006; 21 (suppl 1): S3-8.

La gestione partecipata dell’assistenza e il coinvolgimento dei pazienti nel processo decisionale: l’esperienza delle emergenze pediatriche

Luca Tortorolo1

1Terapia Intensiva Pediatrica, Policlinico Universitario Agostino Gemelli, Roma.

Pervenuto su invito il 17 febbraio 2020.

Le emergenze pediatriche sono una importante sfida per qualsiasi operatore sanitario. Dal 2003 lo European Resuscitation Council organizza il corso “European Pediatric Advance Life Support” (EPALS) che fornisce training multidisciplinare per il riconoscimento precoce delle insufficienze respiratorie e circolatorie del bambino e fornisce le conoscenze e le competenze di base per prevenire l’ulteriore deterioramento fino all’arresto cardiocircolatorio1. Mentre le capacità tecniche e i protocolli di assistenza nell’emergenza sono ben delineati nei programmi EPALS, i problemi legati al lavoro in équipe, alle interazioni multidisciplinari e multiprofessionali sono spesso difficili da superare, poiché gli operatori sanitari sono stati prevalentemente formati a pensarsi come singoli individui, anche quando lavorano in un team che si prende cura di bambini in condizioni critiche. Lo stress, la scarsa comunicazione, la mancata individuazione e correzione degli errori, nonché la cultura della colpa conducono non di rado a esiti indesiderati nell’assistenza dei pazienti. La Joint Commission on Accreditation of Health Care Organizations ha identificato il fattore umano, la leadership e la comunicazione come le principali cause degli eventi sentinella2, e propone il training basato sulla simulazione come un percorso efficace per migliorare il lavoro in équipe e un mezzo per migliorare la sicurezza del paziente3.

Il Crew Resource Management (CRM) si occupa delle competenze non tecniche necessarie per un efficace lavoro in équipe per gestire le situazioni di crisi, affrontando la dinamica del processo decisionale, le relazioni interpersonali e le problematiche della gestione del gruppo4. Acquisire le competenze CRM è spesso associato a una modifica delle attitudini e dei comportamenti, all’apprendimento di nuove capacità così come al disapprendimento delle precedenti abitudini (tabella 1). Infatti, l’International Liaison Committee on Resuscitation raccomanda di considerare il CRM come una componente essenziale della formazione alla gestione delle emergenze pediatriche5, con un’attenzione particolare al ruolo del debriefing.




Il debriefing ha un ruolo chiave, poiché rappresenta il momento in cui i membri del team riflettono sulle loro azioni, divengono consapevoli delle loro capacità e migliorano la loro autosufficienza6. Nella letteratura sono descritti diversi approcci al debriefing. Secondo la metodologia condivisa dagli istruttori di EPALS, un buon debriefing idealmente inizia alla fine dello scenario, poiché durante la transizione dallo scenario al debriefing l’istruttore ascolta e osserva le reazioni immediate dei partecipanti7. Quindi, l’istruttore invita i partecipanti a comunicare come si sono sentiti durante la simulazione e a ripercorrere i punti salienti dello scenario, processo che consente ai partecipanti di riflettere e analizzare i loro percorsi decisionali8. Durante il debriefing normalmente si crea una situazione stimolante in cui è favorita la discussione e la formulazione di ragionamenti e ipotesi, elementi questi che normalmente restano latenti durante lo scenario9. È preferibile che ogni errore emerga dal confronto fra i membri del team piuttosto che essere evidenziato dal facilitatore. Le istruzioni dovrebbero essere supportive e focalizzate sul comportamento corretto e su come riprodurlo, evitando di criticare esplicitamente: in questo modo la fiducia nelle capacità di autoapprendimento migliora, poiché i partecipanti comprendono il valore educativo degli errori e divengono più consapevoli delle loro potenzialità10. Alla fine del percorso, vengono forniti dei “take-home messages” allo scopo di raggiungere e mantenere una buona performance.

In conclusione, l’approccio CRM può contribuire a migliorare le capacità tecniche e la performance generale nella gestione delle emergenze pediatriche in quanto la consapevolezza della situazione, la buona comunicazione e il miglior utilizzo delle risorse disponibili rendono il team più forte e coeso. I principi del CRM dovrebbero essere introdotti nel percorso formativo per la gestione delle emergenze pediatriche e soprattutto nelle simulazioni di casi clinici. In particolare, il debriefing rappresenta il momento nel quale si apprendono, si comprendono e si consolidano i concetti del CRM.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Maconochie IK, Bingham R, Eich C, et al. European Resuscitation Council Guidelines for Resuscitation 2015: Section 6. Paediatric life support. Resuscitation 2015; 95: 223-48.

2. Institute of Medicine (US) Committee on Quality of Health Care in America; Kohn LT, Corrigan JM, Donaldson MS (eds). Washington (DC): National Academies Press (US), 2000.

3. Gaba DM. Crisis resource management and teamwork training in anaesthesia. Br J Anaesth 2010; 105: 3-6.

4. Alexander D. The genesis of crew resource management: the NASA experience. In: Gillman LM, Widder S, Blaivas M, Karakitsos D (eds). Trauma team dynamics. New York: Springer International Publishing, 2016.

5. Helmreich RL, Merritt AC, Wilhelm JA. The evolution of Crew Resource Management training in commercial aviation. Int J Aviat Psychol 1999; 9: 19-32.

6. Weinstock PH, Kappus LJ, Kleinman ME, Grenier B, Hickey P, Burns JP. Toward a new paradigm in hospital-based pediatric education: the development of an onsite simulator program. Pediatr Crit Care Med 2005; 6: 635-41.

7. Rall M, Gaba D, Howard S, Dieckmann P. Human performance and patient safety. In: Miller RD (ed). Miller’s anesthesia. 8th edition. Philadelphia: Churchill Livingstone, 2015.

8. Cheng A, Donoghue A, Gilfoyle E, Eppich W. Simulation-based crisis resource management training for paediatric critical care medicine: a review for instructors. Pediatr Crit Care Med 2012; 13: 197-203.

9. Bank I, Snell L, Bhanji F. Pediatric crisis resource management training improves emergency medicine trainees’ perceived ability to manage emergencies and ability to identify teamwork errors. Pediatr Emerg Care 2014; 30: 879-83.

10. Rudolph JW, Simon R, Rivard P, Dufresne RL, Raemer DB. Debriefing with good judgment: combining rigorous feedback with genuine inquiry. Anesthesiol Clin 2007; 25: 361-76.