Dalla letteratura

A scuola dal nonno

“Nonno ha sposato mia nonna quando avevo 4 anni, dopo la morte dei loro primi coniugi. […] La nostra seconda figlia è nata il giorno del suo compleanno, a soli 93 anni da lui. Due anni dopo la morte di mia nonna, il nonno, allora 95enne, andò a vivere con un’adorabile donna di 86 anni che aveva incontrato in occasione di alcune riunioni politiche locali. Hanno trascorso quattro splendidi anni insieme prima che lei morisse di cancro mentre riceveva cure palliative nel loro appartamento. Diventato vedovo per la terza volta nella sua vita, nonno scrisse così in un libro di memorie per la sua famiglia: «Anche la mia vita era finita, restava solo l’esistenza». Da lì è iniziata una discesa. Un attacco di vertigini lo ha portato in una struttura di riabilitazione per acuti. Poi la cecità unilaterale improvvisa ha aggravato i problemi di comunicazione che aveva dovuto affrontare a lungo a causa della sordità che gli derivava dall’essere stato militare nella seconda guerra mondiale. L’ho invitato a trasferirsi da noi, ma non ha voluto: «Devi concentrarti sulla tua famiglia, non su questo vecchio», ci ha detto più di una volta, nonostante insistessimo sul suo ruolo centrale nella nostra famiglia.




Quello di Scott D. Halpern sul New England Journal of Medicine è un racconto straordinario per la normalità descritta, che certamente avrà riportato numerosi lettori a episodi di vita vissuta. Halpern è un grande nome della bioetica statunitense, lavora da anni al Palliative and Advanced Illness Research Center dell’università di Pennsylvania a Filadelfia.

Nonostante l’insistenza, il nonno “si è trasferito in una struttura di residenza assistita nel nord del New Jersey. La posizione ha consentito un flusso costante di visite da parte dei suoi figli, di una figlia della sua compagna recentemente scomparsa e della mia famiglia. Quando nessuno di noi era con lui, si teneva in contatto via e-mail e passava il tempo in modo abbastanza soddisfacente leggendo avidamente, come aveva fatto per tutta la vita. Con il peggioramento della sua artrite, la scrittura di messaggi di posta elettronica più lunghi di poche parole per lui è diventata pesante. «È frustrante quando le dita non riescono a stare al passo con il cervello», si lamentava. E poi le restrizioni alle visite rese necessarie da CoViD-19 lo hanno escluso completamente dal mondo esterno, dal momento che la sua sordità aveva da tempo reso inutili i telefoni. Quando l’ondata al nordest si è attenuata, con il figlio del nonno abbiamo avuto il permesso di fargli visita fuori dalla sua struttura in giorni separati. Lucido come sempre, nonostante si avvicinasse al suo 103esimo compleanno, ha rivolto a ciascuno di noi lo stesso appello. Mentre da tempo desiderava rinunciare a quanto poteva prolungargli la vita, ora cercava qualsiasi opzione plausibile per accelerare la morte”.

Alla fine, il nonno si è deciso di accogliere l’invito a trasferirsi a casa Halpern. Probabilmente convinto dalla “soluzione” proposta: quella di smettere di bere e mangiare, la sola opzione concretamente praticabile per lasciarsi morire. Il racconto descrive con delicatezza, garbo e un sottile umorismo in filigrana la determinazione del nonno, i suoi cedimenti di fronte a una tazza di caffè nero fumante, fino alla fine, dopo gli ultimi dodici interminabili giorni.

“Ho imparato cose vivendo questa storia che nessuna quantità di studio, insegnamento o pratica assistenziale di cure palliative potrebbe mai offrire: il potere dell’isolamento e la forza di contrasto della famiglia, la devastazione della sofferenza esistenziale e la scarsità di opzioni per alleviarla, le ingiustizie in gioco, al punto che smettere di mangiare e bere è spesso impossibile senza dei familiari ben informati e cure ospedaliere dedicate. E ho imparato che, nonostante i problemi a essa collegati, la morte assistita dal medico può fornire il sollievo più olistico possibile per le persone che pur non essendo in punto di morte, hanno smesso di vivere”.

Le priorità della cura
in contesti di risorse limitate

«I governi, le agenzie internazionali e i sistemi sanitari hanno l’obbligo di garantire, al meglio delle loro capacità, un’adeguata fornitura di assistenza sanitaria per tutti. Tuttavia, ciò potrebbe non essere possibile durante una pandemia, quando è probabile che le risorse sanitarie siano limitate. Stabilire priorità e razionare le risorse in questo contesto significa fare scelte tragiche, ma queste scelte tragiche possono essere eticamente giustificate. Questo è il motivo per cui abbiamo l’etica». L’apertura del documento dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS)1 sulla determinazione delle priorità nell’assistenza alle persone contagiate da SARS-CoV-2 è molto chiara. Ciononostante, il dibattito è aperto.

La premessa è che il processo decisionale che rende necessario un’attività rilevante di priority setting è quello in cui le risorse sono limitate. «Nell’applicare le linee guida etiche per l’allocazione delle risorse, dovremmo considerare la misura in cui il sistema sanitario è sotto stress in un contesto specifico. Sarebbe inappropriato, ad esempio, escludere l’assegnazione di una strumentazione (ad esempio, i ventilatori) a gruppi di popolazione all’inizio di una pandemia quando ci fosse disponibilità di apparecchiature. Se le risorse sono scarse, tuttavia – quando l’offerta è insufficiente per soddisfare le esigenze di tutti coloro che potrebbero trarne teoricamente vantaggio – l’allocazione delle risorse dovrebbe essere guidata da principi etici ben stabiliti e ampiamente applicabili, a meno che non specifiche caratteristiche dell’epidemia giustifichino diverse linee di azione».

L’OMS suggerisce che i principi di allocazione possano essere diversi a seconda dei diversi livelli di scarsità di risorse. «In caso di scarsità moderata, può essere giustificata un’allocazione di risorse come i ventilatori ispirata dal principio del “first come, first served” (che promuove il valore dell’uguaglianza). Man mano che le risorse diventano sempre più scarse, la loro allocazione può essere giustificata secondo un principio che dà la priorità a chi ne ha più bisogno. Con una scarsità ancora maggiore, può essere giustificato mirare a massimizzare i benefici dall’uso della risorsa disponibile. In ogni fase, l’allocazione dovrebbe mirare a promuovere l’uguaglianza, ovvero “primo arrivato, primo servito” o allocazione casuale, quando nessun fattore rilevante distingua gli individui all’interno di un particolare schema di allocazione».




Gli interrogativi sulle decisioni assunte dai medici nei reparti CoViD-19 hanno suscitato emozioni, confronto, dissensi. Quasi sempre domande lecite, eppure quando fu riunita dalla rivista Lancet una commissione che aveva l’obiettivo di riflettere sul valore della morte qualcuno pensò che fosse addirittura sbagliato anche solo discutere la questione2. È tornato sull’argomento Richard Smith, presidente di quella commissione, che ha voluto riproporre alcune sue considerazioni nel momento in cui l’argomento è tornato prepotentemente di attualità. «Alcuni decessi si possono prevenire ed evitare – scrive Smith – mentre altri sono inevitabili. La morte di un bambino per diarrea o morbillo, di solito nei paesi a reddito medio e basso, è qualitativamente diversa da quella di un anziano fragile in una casa di cura nei paesi ad alto reddito. Sembra ragionevole e giusto dare la priorità alle risorse per prevenire morti che possono essere prevenute ed evitate».

La Medicina – e in questo caso ha senso mantenere la lettera maiuscola – ha quotidianamente a che fare con decisioni che riguardano la determinazione di una maggiore o minore intensità di cura a seconda della situazione clinica, del contesto organizzativo, dei valori espressi dal malato o dai suoi familiari. Decisioni che non sono ovviamente mai influenzate da considerazioni che riguardano la classe sociale del paziente, la sua etnia, il genere o l’orientamento sessuale. Né, d’altra parte la valutazione clinica può essere condizionata dalla storia del paziente e dallo stile di vita che potrebbe aver favorito la sua condizione di malattia.

Ma l’età dovrebbe sempre essere un fattore rilevante nel decidere le priorità? A questa domanda, Smith risponde citando tre argomenti principali. In primo luogo, è una convinzione ampiamente accettata. Sintetizzata nella famosa frase prima le donne e i bambini. «Secondo, l’argomento del fair innings3 dice che chi ha avuto una vita piena (o almeno la possibilità di averla) dovrebbe cedere il passo a chi non ha avuto la stessa possibilità. In terzo luogo, dare la priorità ai giovani significa che più vite (e certamente più anni di vita) verranno salvate». È evidente che quello dell’età è un criterio scivoloso, perché una persona di 65 anni sofferente di diverse malattie può evidentemente avere un’attesa di vita di un ottantenne in discreta salute. Altrettanto vero, d’altra parte, che la valutazione effettuata da un medico – meglio: da uno staff clinico – considera quasi sempre un insieme di parametri e non solo il dato anagrafico del malato.

«Forse alla fine rispondiamo noi stessi a questa domanda attraverso l’esperienza personale. Mia madre, che si avvicina a 91 anni, è stata da 8 anni in una casa di cura e da 12 anni non ha memoria a breve termine. Quando aveva 60 anni (come me, oggi) scrisse con me una lettera al BMJ chiedendo il diritto alla morte assistita per le persone con demenza imminente. Temeva la demenza perché vedeva sua madre malata. Durante gli anni trascorsi in casa, mia madre è stata allegra e ha portato gioia, ma due settimane fa l’ho vista infelice e mi ha detto che avrebbe preferito essere morta. Semplicemente, non riesco a capire come la sua morte potrebbe essere paragonabile a quella di uno dei miei quattro nipoti».

Bibliografia

1. World Health Organization. Ethics and COVID-19: resource allocation and priority-setting. World Health Organization, 2020. Disponibile su: https://bit.ly/3mdwntA [ultimo accesso 23 ottobre 2020].

2. Smith R; Lancet Commission on the value of death. Lancet Commission on the value of death. Lancet 2018; 392: 1291-3.

3. Farrant A. The fair innings argument and increasing life spans. J Med Ethics 2009; 35: 53-6.