Questo paese è anche per i vecchi
«Ricordate la vostra umanità
e dimenticate il resto.»
Bertrand Russell
Ci sono emozioni e pensieri nobili in questo piccolo capolavoro di Gianni Di Gregorio: Pranzo di ferragosto, coraggiosa produzione Garrone, premiata (troppo parsimoniosamente) all’ultima Mostra veneziana.
C’è il ritratto di un quartiere cittadino fatto metafora del mestiere di vivere, c’è la serena diversità di pochi nel conformismo festaiolo dei più, c’è un pudore laico garbatamente discosto  da rituali extramondani, c’è la leale rappresentazione del denaro – strumento, non traguardo – nella sua assiduità materiale e simbolica, c’è il recupero di una comunione, in carne ed ossa, di corpi poveri e meno poveri, vecchi e meno vecchi: forme vere, non tradite in icone dalla mistificazione mediatica. Ma c’è, soprattutto, il dono – privilegio dei poeti – di una metamorfosi dell’evento biologico in esperienza biografica. Un dono che rende patrizio ogni agire e, coniugando arte e scienza, umanità e perizia, promuove la medical care al rango di condivisione. Sono meriti precipui di un autore (regista, attore e – vale la pena ricordarlo – cosceneggiatore di Gomorra) che, ancora una volta, riesce a non consentire alla lusinga estetica di sostituirsi all’istanza etica; ma sono anche meriti di coprotagoniste che – da lui portate per la prima volta sullo schermo – emanano una stupefacente autenticità comunicativa. Così, smentendo (e con quale eleganza!) il luogo comune della «senectus ipsa morbus», il film proietta nello specchio opaco dei Cohen, in quel loro “paese negato ai vecchi” da intolleranza e irrisione, la luce dell’antitesi: quella del rispetto e della solidarietà, della pazienza che fa del mondo un luogo vivibile anche dai meno giovani. Ha scritto Gian Carlo Calza nel suo Stile Giappone (Einaudi, 2002): «Se la gioventù è bella per l’integrità delle sue forme, la vecchiezza è sublime perché porta su di sé i segni e la dignità della vita vissuta, le rughe e i dolori affrontati e superati, le curve delle gioie pienamente assaporate: appare insomma il distillato dell’incarnazione umana». Ed al proposito, resta da antologia l’incipit del film: l’inquadratura (in primo piano) di quel braccio tanto vissuto e stanco, ma subito rinverdito da un contesto di memore tenerezza. Riecheggia, in tale poetica, la intuizione di Sartre: «…Consunti, cancellati, cacciati in un angolo, tutti i lineamenti del fanciullo sono rimasti nell’ottuagenario. Ilpiù del tempo s’appiattiscono nell’ombra, restano in attesa: ma quando se ne dà loro l’occasione, alzano la testa e penetrano in piena luce...» A questo alternarsi d’ombre e di luci, Giovanni – il protagonista del film – è adusato; da tanto tempo convive con l’anziana madre nell’antica casa oltre Tevere: itinerari, stagioni, confidenze reiterate per anni; bonari bottegai generosi di credito, chiacchere con gli amici di piazza; piccoli, condivisi, peccati di gola: (la pasta al forno, lo Chablis a conforto della quotidiana fatica casalinga), e, sul finire del giorno, la buona notte ­alla sua “accudita”, ninnata da affabulazioni di cappa e spada. E, quando alla vigilia del ferragosto – l’ora dello “svuota-città” – due suoi sodali, creditori di moneta e di affetto cui non può dire di no (uno è l’amministratore del condominio, l’altro il medico di famiglia) gli posteggiano ben tre ospiti e tutte e tre ben stagionate («terranno compagnia alla tua mamma»), Giovanni si schernisce il poco che può, ma poi – come a cogliere un’occasione – accetta e si mette all’opera: organizza alloggio, pranzo, cena e dopocena per tutti; ed in un susseguirsi di sentimento e buon senso, di gioco ed impegno, necessità è caso, familiarità e discrezione, a ciascuno restituisce sorriso, letizia e gusto di esistere («il parmigiano nel brodo»). Geriatra dell’anima, regala, in tre giorni, tanta vita a tanti anni.



Ed allo spettatore offre passi di liricità alta. Si veda, ad esempio, la rabdomantica ricerca del cibo tradizionale per il convivio ferragostano:  quella cavalcata in motorino attraverso la città deserta, una Roma abbacinata dal solleone, nel silenzo stordito di viali, vicoli e piazze, sino al brindisi col pescatore sulla riva del fiume. Al di là del blasone figurativo, la sequenza possiede – insieme – la levità delle estemporanee evasioni morettiane e le inquietanti interpellanze dei grandi vuoti di un Kieslowski («i palcoscenici del mondo»).
Sono questi vuoti e silenzi – di luoghi e di persone, la solitudine degli anziani e dei più deboli – che il film ci esorta a colmare. Una stregante dialettica (tra la commedia ed il dramma) veicola la virtù del messaggio: i guasti che una medicina troppo biologica attribuisce agli anziani non sono il fatale retaggio dell’età; [non per caso, infatti, il titolo del prossimo Congresso della Società Italiana di Gerontologia ripropone criticamente quello coheniano]; possono essere anche scompensi dell’anima e del sentimento. E a lenirne la pena meglio valgono, a volte, i balsami della compassione e del dialogo piuttosto che le protesi e i farmaci. Sono i balsami proprî dell’«Uomo in camicia», come Montaigne definì il laico della benevolenza, il terapeuta emancipato dalla mera dottrina (scientifica e/o teologica). E «Uomo in camicia» è certamente Giovanni, l’autore/protagonista di questo film, scrigno di delicatezze: argute, liberatorie e superbamente malinconiche.

Cecilia Bruno