C’è un medico in sala?
«Una saggia condotta comincia col dubitare
e non finisce mai con l’ostinarsi».
Abate Galiani
Vi sono scrittori-medici e medici-scrittori. Numerosi gli esempi dei primi (coloro che Ségalen ebbe a definire «gli evasi dalla medicina»): da Saint-Beuve a ­Keats fino a Somerset Maugham, passando per i più “dichiarati” Cechov, Conan Doyle, Cronin, Céline, Michael Crichton, Tobino e Carlo Levi. Non pochi, peraltro – e in incremento – i rappresentanti del secondo gruppo: Frank Huyler, Oliver Sacks, Tomatis, Rainero Fassati, Gawande, Venturino, Ala al-Aswani, Andrea Vitali, Nuland. Di quest’ultimo è stata, alla fine dello scorso anno, pubblicata una raccolta di saggi dal titolo e sottotitolo indicativi: Sherwin B. Nuland. The uncertain art: thoughts on a life in medicine. Pag. 224. Random House, New York, 2007. Dollari 25. ISBN 978 140006478-6. Sono in massima parte articoli apparsi su “The American Scholar”, rivista diretta dallo stesso Autore, e spaziano in un’ampia varietà di argomenti. Si va dall’etimo di numerosa terminologia medica ai predatori di tombe per il commercio clandestino nelle sale anatomiche dell’ottocento, dall’elettroshock all’impostura dei falsi guaritori, dai rischi del body-building sino all’undici settembre. Per questo suona appropriato il sottotitolo: per l’intreccio, spesso esperito in prima persona, tra medicina e vita. Al proposito, suggestivo è l’esempio-metafora della non infrequente, ansiosa domanda che viene lanciata come un messaggio nella bottiglia: «C’è un medico in sala?» E’ uno degli interrogativi inquietanti, più temuti dai medici: per l’imperiosa e, insieme ineludibile, verifica dei limiti di una professione drammaticamente sbilanciata tra speranza e efficacia. Un amaro calice di impotenza che il medico “a mani nude” si trova a dover soffrire.



Ma più a monte sta un preliminare condizionamento dell’agire diagnostico e terapeutico, ed è quello costituito dalla incertezza e dal dubbio – non solo tecnici – che da sempre opacizzano le decisioni. Da qui la duplice interpellanza posta dal titolo del libro: la medicina è arte? E se lo fosse, come convive con le tante domande senza risposta?
Nuland ci invita alla perseveranza, insieme ad una continua, paziente curiosità; ci rammenta , ad esempio, che lo studio dell’antica medicina cinese apre, ancor oggi, itinerari per nuove frontiere: si pensi all’impiego dell’agopuntura in luogo dell’anestesia convenzionale nella tiroidectomia, e al mezzo con cui tanti anni or sono, il medico del Dalai Lama fu in grado di diagnosticare il difetto di setto interventricolare: la sola rilevazione del polso. Nuland, tuttavia, ci pone anche in guardia nei confronti dei falsi miti, delle inveterate mistificazioni e ci svela piccoli e gustosi segreti della corporazione: quando apparve la prima edizione di “Gray’s Anatomy” – ricorda – il consenso dei recensori fu unanime, con l’eccezione di una – una sola – voce, quella del “Boston Medical and Surgical Journal” (l’attuale “New England Journal”). La stroncatura era firmata da un misterioso dottor H. Non sufficientemente misterioso, però, per il nostro Autore, che pur non esplicitandone nome e cognome fornisce indizi preziosi al lettore. Chi poteva non apprezzare un’opera tanto valida se non qualcuno che aveva interesse ad una difesa – conservatrice ad oltranza – del testo di anatomia di Sharpey e Quain, al tempo considerato insuperabile Bibbia della materia?
Non pochi protagonisti di questa “arte del dubbio” che è, dunque, la medicina, possiedono un malizioso senso di humour e Sherwin Nuland non fa eccezione. Scherza – ma non tanto – allorché ci intrattiene sull’orchitedectomia: ricollega l’etimo orchis alla preziosità del fiore-eccellenza, quell’orchidea che richiama lobuli, setti e tubuli seminiferi del testicolo, tutti in una rete intercomunicante, ma aggiunge che il paziente in attesa dell’intervento è ben lontano da simili analogie floreali e...preferirebbe, piuttosto, «perdere l’anima piuttosto che i testicoli». Così, a proposito del vibratore; fu inventato, egli nota, alla fine del XIX secolo allo scopo di curare l’isteria mediante l’induzione di orgasmo senza la “partecipazione” del medico, ed anche qui insinua una ammiccante postilla:« fu una innovazione opportuna – scrive – però non del tutto gradita a qualche collega nostalgico del “tocco magico”...»
L’unico capitolo inedito è, a mio parere, il più bello; riproduce numerosi passaggi delle lettere indirizzate a Nuland da un candidato a trapianto di cuore. Ove s’avverte, reale, – e sono brividi sulla pelle – la precarietà: non solo della medicina, ma della vita. E si invera la notazione di Osler: «Quante cose ci insegnano i nostri malati!».

Gaia de Bouvigny
L’ospedale, una vita
«Solo chi conosce che cosa è la nostalgia
sa che cosa io soffro. »
Robert Bazlen: Note senza testo.
Di trapianti e di rapporti con i malati è nutrito il romanzo (il settimo, salvo errori) di Luigi Rainero Fassati: A cuore aperto. 254 pagine. Longanesi, Milano, 2008. Euro 16,60. ISBN 978-88-304-2563-7. Il titolo sottolinea più una valenza metaforica che un’area di tematica clinica (l’Autore essendo celebre epato- e nefro-trapiantologo): non cuore-organo, dunque, bensì cuore come radice di emozioni e sentimenti, sede di quell’empatia, di quella apertura al dialogo col paziente che è il presupposto per comprenderne e rispettarne ansie e sofferenze, speranze e delusioni: persona da prendere in cura, globalmente, non soltanto un corpo da curare.
Chi, – infatti – non desidererebbe ascoltare dal chirurgo queste parole?: «...Le assicuro che la capisco sino in fondo e che il suo dolore fa male anche a me...Faccia conto su di me in ogni momento e per qualsiasi necessità...Si ricordi che io ho scelto di fare il medico per dedicarmi ai malati. E questo è quello che ho sempre fatto e che continuerò a fare» (pag. 91).
Il protagonista della storia – o meglio, delle storie, perché nelle quasi trecento pagine del libro è un susseguirsi di avventure umane drammatiche e toccanti – il dottore (poi professore) Ranieri (un elegante escamotage per aggirare l’autobiografismo?) fa suo questo imperativo sin dalla prima sala operatoria, vi rimane fedele durante decenni di servizio e successi ed esorta i colleghi-lettori a fare lo stesso, nonostante i dubbi e le difficoltà. Esse non mancano, perché fuori dall’ospedale, e a volte anche al suo interno, gelosie e invidie, amori e passioni, iniquità ed arroganza fanno da cornice a quotidiani esempi di altruismo, generosità, razionalità e coraggio non di rado al limite della temerarietà: come lo xenotrapianto tra uomo e babbuino, l’operazione di un bimbo in circolazione crociata interumana e la storia di un giovane che vivrà 42 ore in anepatismo e che al risveglio sembrerà avere assorbito difetti e vizi del donatore (suggestione, quest’ultima, che aveva “tentato” l’Autore anche in un suo precedente romanzo). Sullo sfondo, assistiamo ad episodi all’apparenza “di colore” ma che, invece, contribuiscono alla identità dei tempi e del costume che la cinquantennale esperienza dell’Autore ha attraversato (ed ha condotto il lettore ad attraversare): ecografisti che rinviano l’esame sol perché la paziente è non proprio fresca di doccia, amori proibiti con suore infermiere e con aristocratiche crocerossine, maiali trapiantati in fuga dallo stabulario che scompigliano i riti della corsia, protezioni “baronali” per scambio di favori non disinteressati, privilegi estorti da laconici ma eloquenti “pezzi da novanta”. A pag. 153: «Ci sono degli orari stabiliti per la visita e voi, come tutti gli altri, dovrete attenervi a quelli.» «Dottore, Assuntina minorenne è ed io senza sua mamma qui non la lascio. Mi faccia la cortesia di riferire al professore che se madre e figlia non possono stare insieme, Calogero Lo Presti lascerà il vostro ospedale. Il suo direttore è uomo assai intelligente e vedrà che si renderà conto che questa non è una buona soluzione né per noi, né per voi.» Negli anni ottanta, il protagonista vive la pionieristica avventura americana nella prestigiosa Università di Pittsburg: e l’Autore ci racconta un aneddoto divertente. Edward Collins è al tavolo operatorio per un difficile trapianto che durerà non poche ore. Ranieri, giovane “visitor” italiano, manovra gli uncini del divaricatore. Nel mezzo dell’intervento, a Collins viene in mente che c’è la finale dei mondiali di calcio tra Italia e Germania. E subito: «Mary – disse rivolto all’infermiera – manda qualcuno a prendere la televisione che sta nel mio studio e falla portare qui in sala operatoria, così il nostro tifoso italiano potrà seguire la finale senza però distrarsi troppo dal suo lavoro.»
Raccontando tanti episodi e disegnando tanti ritratti, Fassati delinea – nel romanzo –, insieme alla storia di un Ospedale (“il Monteverdi”), quella del trapianto di fegato e di rene. E la racconta senza alcun intento bozzettistico o di compiacimento autocelebrativo; anzi, vi fa scorrere, sotterraneo, un rivolo di malinconia, patrizia e discreta insieme; come un sospiro di nostalgia per una medicina che ormai a lui appare perduta: nostalgia per una dottrina che egli ha sentito, lungo una vita intera, come più felicemente libera, e per una pratica che non avrebbe voluto vedere così fortemente politicizzata.
C’è, nel romanzo, una sorgente concreta di pena, un luogo del dolore, per l’ormai anziano professor Ranieri: la scomparsa della sua seconda casa, del suo topos di servizio e potere, la demolizione del suo ospedale. Per lui, le macerie degli ormai vetusti padiglioni del “Monteverdi” sono il segno di una separazione e di un lutto senza ritorno. Di fronte ad esse, dunque, scrive il suo congedo: «...Non ho più paura della vita che mi aspetta fuori dell’ospedale e non ho rimpianti. Mi sentivo come il “Monteverdi”, tutti e due troppo vecchi. E così ce ne andiamo insieme».
Sono le ultime tre righe del romanzo.

Caterina Roghi
Per una chirurgia a minor rischio
«Se potessi rifare la mia vita,
potrei togliere qualche errore.
Ma il carattere?
Non mi permetterebbe di fare altri errori
– di presunzione – come questo:
di pensare di poter correggere una vita?»
Ennio Flaiano: Diario degli errori
Secondo l’Associazione nazionale delle imprese assicurative, del Tribunale per la difesa dei diritti del malato e dell’Ordine professionale, gli errori medici, in Italia, o – meglio – le denunce per presunti errori costituiscono un fenomeno ingravescente, così da sollecitare,  ai primi di quest’anno, un intervento legislativo: il disegno di legge Marino che prevede, tra altri provvedimenti, anche un maggior controllo in sala operatoria e un organismo terzo come supervisore, organismo che avrà il compito di vigilare pure sugli errori medici e sui casi di malpractice. Recentemente, inoltre, il Parlamento sta discutendo una riforma intesa a depenalizzarne l’esito nei casi in cui non venga provata palese imperizia o negligenza.
Si tratta, peraltro, di un problema planetario. Nello scorso giugno, l’OMS ha accertato in più di 200 milioni gli interventi chirurgici che ogni anno si effettuano nel mondo: uno ogni 25 abitanti del pianeta. Le morti ammontano ad un milione e le complicanze a sette milioni. «Ciò accade perché i requisiti di qualità e sicurezza chirurgica sono estremamente differenziati nei vari paesi», ha scritto Atul Gawande, docente di Chirurgia ad Harvard, che è stato chiamato a dirigere una nuova iniziativa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “Safe Surgery Saves Lives” (www.who.int/patient-safety/safesurgery/en). Da qui la necessità di un progetto globale condiviso, basato sull’impiego di una checklist obbligatoriamente univoca; essa è stata recentemente sperimentata e si attendono a breve i risultati (vedi al tabella a pag. seguente). Peccato che l’iniziativa non sia stata assunta ancor prima. Essa avrebbe, forse, evitato la duplice tragedia immaginata e descritta in un romanzo, quasi un medical thriller, pubblicato nelle ultime settimane: Si è fatto tutto il possibile, di Marco Venturino. Pagine 242. Mondadori, Milano, 2008. Euro 18. ISBN 978-88-04-57803-2. La duplice tragedia ha origine dalla morte di un malato sul tavolo operatorio a causa di una iniezione di adrenalina al posto di una fiala di atropina. L’errore è del Primario Anestesista, affermato docente e professionista, il quale, accortosi dello scambio, decide di non autodenunciarsi e viene così travolto dalle conseguenze. Esse, tuttavia, non sono medico-legali e giudiziarie; sono di natura etica: uno sconvolgente rimorso, un processo spietato di autocoscienza, una progressiva, devastante, perdita di autostima, la disgregazione familiare, la diaspora degli amici. Sino alla autodistruzione. Da qui la duplice tragedia.
A ben ricordare, le premesse erano già nel primo romanzo dell’Autore: “Cosa pensano i pesci rossi”, apparso nel 2005. In esso, una delle due voci narranti – la voce del terapeuta – confessa a se stesso ed al lettore un esordio categorico: «...se fai il rianimatore sei quello che salva le vite. In realtà, di vita non riesco a salvare neppure la mia» (pagina 15). E a pagina 59: «“Abbiamo fatto tutto quello che si poteva”. Una frase che dice tutto senza dire nulla. Infatti, chi stabilisce quello che si può, che si deve o non si deve fare?»

Nella sua seconda prova di narratore, Venturino sembra, dunque, ampliare drammaticamente il corollario ad una interpellanza più radicale: “chi di noi è senza peccato? Chi mi dà il diritto di lapidare il collega che sbaglia?” E ci propone la provocazione (pagina 204) per bocca di un frettoloso, insincero sodale: «Hai fatto un errore, un grave errore. E allora? Chi non ne fa? Chi di noi non ha la sua personale dotazione di sbagli con annessi cadaveri al seguito? Si sbaglia, tutti sbagliano. Quando sbagliamo noi, può essere che qualcuno ci rimetta la vita. Fa parte del gioco, succede, è successo a tutti...Devi pagare per gli errori di tutta la categoria? Mica l’hai fatto apposta...La vita continua.»
No, per alcuni la vita non continua. L’ipocrisia consolatoria di un’assoluzione ex officio suona come una sentenza capitale. Quella che ripropone alle coscienze l’interrogativo di fondo dettato dall’etica della responsabilità, rinnovando, tragicamente, la dialettica tra la presunzione dell’onnipotenza tecnica e la finitudine dell’uomo. Ed è in questa tenaglia dell’anima che il professor Mario Valenti, il protagonista del romanzo, l’artefice di tante vittorie sul male di corpi e di organi, un uomo che aveva progressivamente spostato in avanti il proprio limite del giusto, del lecito, del possibile, in nome della carriera, del potere, della soddisfazione personale, finisce col trovarsi smarrito e solo in un labirinto di passioni contrastanti: rimorsi e paura di affrontare le conseguenze del proprio agire, sensi di colpa, recriminazioni e desiderio di rivalsa. Ma il peso di quell’interrogativo ultimo lo obbliga ad una scelta. Ed egli, infine, la compie. Tra la consapevolezza della espiazione e l’ignoto di una anestesia senza ritorno, lui che a tanti ha ridato spesso la vita, decide di sottrarla a se stesso.




Venturino ha scritto una storia che irretisce, un intreccio duro e angosciante di fatti e di sentimenti. Il cui progressivo precipitare assume man mano (anche nella forma, che – a volte – non riesce ad eludere qualche rischio di ridondanza) il passo rapinoso e piombigno di un incubo ad occhi aperti. Ci si avverte un qualcosa di penosamente chiuso, quasi che l’emozione stenti a superarsi nella possibilità dell’arte, e – paga di una sua antropologia negativa – non voglia rischiare nulla oltre i margini (per esempio: un finale “aperto”). E’ un romanzo dal sapore amaro, che induce a riflettere: non solo sul potere ed i limiti di una medicina sempre più pervasiva nella vita quotidiana di ciascuno ma -–più in generale – sul rapporto tra l’uomo, la scienza e l’etica.


Benedetta Marra