Un marcatore di danno renale acuto
L’insufficienza renale acuta (IRA) è una complicazione che ha raggiunto negli ultimi anni una notevole frequenza specialmente in condizioni di danno multiorgano e postoperatoria. L’IRA deve essere distinta dall’insufficienza pre-renale (IPR) che consiste nella risposta del rene a varie noxae, come deplezione di volume, eccessivo uso di diuretici, blocco del sistema renina-angiotensina, e che può essere controllata con la somministrazione di liquidi o con la modificazione della terapia. È anche importante distinguere l’IRA dall’insufficienza renale cronica (IRC) che si presenta con un diverso decorso clinico.
È noto che la misura della creatininemia, che è il marcatore della funzione renale più adoperato, non consente di distinguere l’IRA da l’IPR o l’IRC per vari motivi; 1) non sempre riflette precocemente l’intensità del danno in quanto il suo aumento si manifesta dopo il danno acuto (Lemeire N, Hoste E. Reflections on the definition, classification and diagnostic evaluation of acute renal failure. Curr Opin Crit Care 2004; 10: 468), 2) il suo livello può variare in rapporto all’età, all’etnia, al sesso, alla massa muscolare, alle condizioni metaboliche, nutrizionali e di idratazione e ai farmaci assunti. Per conseguenza la creatininemia non aumenta in proporzione alla gravità del danno. Pertanto si è accresciuto l’interesse verso altre proteine renali che vengono espresse in occasione di danno renale e che sono più specifiche e più sensibili.



Recentemente ha attratto l’attenzione quale marcatore di danno renale acuto la lipocalina dei neutrofili associata alla gelatinasi (NGAL: “neutrophil gelatinase-associated lipocalin”), che è secreta nell’urina dal tratto spesso dell’ansa di Henle e dai tubuli collettori del rene (Schmidt-Otto KM, Mori K, Li JV, et al. Dual action of neutrophil gelatinase-associated lipocalin. J Am Soc Nephrol 2007; 18: 407). È stato osservato che NGAL esplica un ruolo importante nella difesa dell’organismo chelando i complessi ferro-sideroforo che promuovono lo sviluppo dei microrganismi e che mediano il danno ossidativo. La concentrazione urinaria di NGAL è proporzionale all’entità del danno renale, mentre nelle nefropatie croniche viene espressa soltanto nelle forme progressive ma non in quelle stabili. Inoltre la deplezione di volume e i diuretici non influenzano il livello urinario di NGAL.
Recentemente la specificità e la sensibilità della concentrazione urinaria di NGAL, valutata in una unica misurazione, sono state studiate in 63 pazienti ricoverati in ospedale con IRA, IPR, IRC e con funzione renale normale (Nickolas TL, O’Rourke MJ, Yang J, et al. Sensitivity and specificity on a single Emergency Department of urinary neutrophil gelatinase-associated lipocalin for diagnosis of acute kidney injury. Ann Intern Med 2008; 148: 810).
Gli autori, oltre alla creatininemia, hanno misurato nel siero anche N-acetil-β-D-glucosaminidase (NAG), α1-microglobulina e α1-glicoproteina acida. Hanno, così, osservato che il livello urinario di NGAL consente di identificare la presenza di danno acuto renale in un ampio campione di pazienti nei quali operano differenti meccanismi nefrolesivi e che questo livello rimane altamente diagnostico anche quando l’epoca d’inizio del danno non è nota.
Gli autori ricordano che molte proteine possono rappresentare marcatori di IRA, come interleuchina-18 (IL-18), cistatina C, molecola-1 di danno renale, α1-microglobulina, α1-glicoproteina acida. Tuttavia essi ritengono che la misura di NGAL urinaria consenta di valutare più correttamente la presenza di danno renale acuto differenziandolo da altre condizioni di danno renale.
Incidenza di meniscopatie nella popolazione generale
Una lesione dei menischi del ginocchio è una frequente diagnosi nella pratica clinica ortopedica e la meniscectomia parziale per via artroscopica è uno dei più frequenti interventi ortopedici. È noto che i pazienti che hanno avuto questo intervento si trovano ad accresciuto rischio di artrosi del ginocchio. Per la diagnosi delle lesioni del menisco è diffusamente adoperata la risonanza magnetica nucleare (RMN), che è ritenuta determinante per stabilire la necessità o meno dell’intervento, anche se attualmente non sono molti i dati epidemiologici che indichino la prevalenza delle meniscopatie nella popolazione generale; ciò rende difficile accertare se il reperto della RMN consenta di attribuire la sintomatologia di un paziente a patologia del menisco.
In un recente studio è stata determinata la prevalenza delle lesioni del menisco in un ampio campione di uomini e donne di età media e anziani, rappresentativo della popolazione generale (Englund M, Guermazi A, Gale D, et al. Incidental meniscal findings on knee NMR in middle-aged and elderly persons. N Engl J M 2008; 359: 1108).
È stata eseguita RMN del ginocchio destro in 991 soggetti (53% donne e 93% di etnia caucasica), di età media di 62,3 anni (da 50 a 90,5), con indice medio di massa corporea di 28,5 (da 16,6 a 55,6).



È stato osservato che una lesione del menisco del ginocchio destro è frequente nelle persone di età media e negli anziani.
La prevalenza di questa lesione è variata dal 19% nelle donne di età tra 50 e 59 anni al 56% negli uomini di età tra 70 e 90 anni ed è risultata di poco inferiore quando sono stati esclusi soggetti con precedente intervento chirurgico sul ginocchio ed è aumentata in entrambi i sessi con l’avanzare dell’età. La maggioranza delle lesioni è stata osservata in soggetti che non presentavano dolore o rigidità articolare.
Gli autori ritengono che il loro studio dimostri la notevole frequenza del rilievo di una meniscopatia mediante RMN, anche in soggetti asintomatici e osservano che la diffusione di questa tecnica per immagine nella valutazione della sintomatologia articolare del ginocchio possa generare confusione e difficoltà nel distinguere sintomi associati a danno meniscale o ad altre cause; ad esempio, quando è presente un’artrosi del ginocchio, come segnalato in molti studi. A questo proposito gli autori sottolineano che una lesione degenerativa di un menisco può rappresentare il segno iniziale di un’artrosi e che, del resto, altre strutture e altri processi correlati ad artrosi del ginocchio possono essere causa di dolore: sinovite e lesioni del midollo osseo conseguenti ad alterazioni del carico sull’articolazione del ginocchio provocata dalla meniscopatia. La resezione chirurgica delle parti di menisco danneggiate non sempre riduce efficacemente il dolore nei pazienti nei quali l’artrosi è la causa o un fattore contribuente della sintomatologia e infatti non vi sono dati certi che dimostrino che in queste circostanze la meniscectomia sia più utile del trattamento non chirurgico ( Moseley JB, O’Malley K, Petersen NJ, et al. A controlled trial of arthroscopic surgery for osteoarthritis of the knee. N Engl J Med 2002; 347: 81).
Si conclude confermando che le lesioni del menisco sono frequenti in persone di età media e anziana, indipendentemente dalla presenza di sintomatologia articolare e che queste lesioni sono spesso associate ad artrosi del ginocchio. Pertanto nell’interpretazione dei dati della RMN del ginocchio è necessario tenere presente l’elevata prevalenza delle lesioni meniscali.
Recenti studi sulla fisiopatologia della dispnea
I molteplici aspetti funzionali della dispnea hanno suscitato un crescente interesse negli ultimi anni con l’obiettivo di chiarire i meccanismi che conducono alla dispnea e che accompagnano la soggettiva esperienza di disturbo del respiro in vari condizioni cardiopolmonari.
Uno di questi aspetti è la cessazione della dispnea: specifica sensazione di un respiro che sta diventando più facile e che si può verificare in varie occasioni come nel corso di un processo di guarigione di molte malattie caratterizzate da dispnea e che ha valore di indice di miglioramento e di efficacia di appropriata terapia. Questa sensazione può essere avvertibile nella vita quotidiana alla cessazione di un intenso sforzo fisico oppure alla ripresa della respirazione dopo una volontaria sospensione più o meno prolungata del respiro.
Nonostante la frequenza di questa sensazione, sia in condizioni normali che di malattia, gli studi su questo fenomeno non hanno portato a conclusioni. Fra i meccanismi che sono alla base della sensazione di sollievo dalla dispnea sono stati citati la risposta broncodilatatrice nei pazienti con asma o con broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), l’ossido di azoto (NO) inalato, i recettori oppioidi, l’attività vagale afferente correlata alla stimolazione dell’attività recettoriale da parte del polmone e/o dall’espansione del torace. Alcuni studi hanno posto l’attenzione su strutture cerebrali implicate nell’elaborazione centrale della dispnea e recentemente Pfeiffer et al hanno cercato di identificare l’attivazione cerebrale associata con il sollievo dalla dispnea acutamente indotto ( Pfeiffer C, Costes N, Hervé P, et al. Relief of dyspnea involves a characteristic brain activation and a specific quality of sensation. Am J Respir Crit Care Med 2008; 177: 440). Gli autori hanno ritenuto che, se il sollievo dalla dispnea rappresenta una specifica esperienza sensitiva, potrebbe implicare sia un intervento centrale, presumibilmente diverso dal meccanismo della dispnea, sia uno specifico modo di esprimerlo a parole per la sua valutazione qualitativa.



Gli autori hanno esaminato 10 soggetti maschi sani, volontari, adeguatamente informati nei quali il sollievo dalla dispnea è stato indotto riducendo un carico di resistenza esterno regolabile (circa 15-20 cmH2O/L/s). Sia nel corso della dispnea che nella fase di sollievo è stata eseguita tomografia a emissione di positroni (PET) del cranio.
I dati principali rilevati dagli autori sono:
1) il maggior determinante funzionale dell’intensità del sollievo dalla dispnea percepito è stato l’inverso dell’aumento del rapporto tra oscillazioni della pressione aerea alla bocca e ventilazione minuto (ΔPm//VE) indotto dalla dispnea, 2) la valutazione qualitativa della dispnea comporta l’inclusione di specifici modi di descrizione, 3) una caratteristica attivazione cerebrale, differente da quella associata alla percezione della dispnea, si associa al sollievo dalla dispnea.
Gli autori sottolineano che il sollievo dalla dispnea è risultato associato a un caratteristico quadro di attivazione cerebrale.
Il confronto tra il quadro ottenuto durante sollievo da dispnea e durante una condizione di controllo ha rivelato che il più evidente aumento di flusso cerebrale regionale si è osservato nella cortex cingolata anteriore di sinistra, sovrapponendosi su parecchie subregioni cerebrali istologicamente e funzionalmente differenti; l’attivazione è stata massima nel solco cingolato anteriore vicino all’area motoria rostrale cingolata, che è implicata nelle complesse funzioni di moto e pertanto può riflettere un’elaborazione centrale di sensazioni/emozioni del sollievo dalla dispnea e delle associate risposte motorie respiratorie.
L’attivazione è stata identificata anche nella porzione dorsale della cortex cingolata anteriore pregenicolato e nella parte rostrale contigua della cortex cingolata anteriore dorsale.
Gli autori osservano che questi rilievi indicano la partecipazione di aree implicate in processi emozionali positivi o negativi e confermano gli aspetti multidimensionali centrali dell’elaborazione del sollievo dalla dispnea e ipotizzano l’esistenza di una tendenza verso una segregazione caudorostrale dell’elaborazione centrale della dispnea nella cortex cingolata anteriore, mentre l’area caudale è implicata nella perpetuazione dell’elaborazione della dispnea e delle modificazioni motorie associate; infine il sollievo può essere indotto nell’area rostrale da differenti meccanismi con il possibile contributo di funzioni non specifiche, come l’attenzione, il risveglio e/o le emozioni.
Gli autori riferiscono che altre aree che presentano una significativa attivazione in corso di sollievo da dispnea sono localizzate nei lobuli semilunari destri inferiore e superiore che fanno parte del neocerebellum; e ricordano, a questo proposito, che il neocerebellum è implicato nei processi emotivi, nelle acquisizioni sensitive più elevate e nelle funzioni cognitive, come memoria e apprendimento, che sono, molto verosimilmente, importanti nell’elaborazione del sollievo dalla dispnea.
Un’altra interessante osservazione riguarda l’assenza di diminuita attivazione nelle aree correlate all’attivazione della dispnea in corso di sollievo da questa; ciò contrasta con quanto si osserva nei confronti con altre sensazioni spiacevoli, come dolore o sete, là dove si identifica una diminuzione o addirittura una scomparsa istantanea di attivazione in aree implicate nella percezione di queste sensazioni. Agli autori rimane il dubbio che una riduzione di attività nelle aree correlate alla dispnea possa pur sempre verificarsi in corso di sollievo dalla dispnea, ma molto precocemente, così da non essere identificata. Ritengono che i loro risultati consentano di emettere l’ipotesi secondo la quale le corrispondenti strutture cerebrali possano fare parte di un sistema di regolazione della dispnea, attivo in corso di sollievo da questa.
È dimostrato che la percezione della dispnea consiste in una dimensione sensitiva che è in rapporto alla sua intensità, ed in una dimensione affettiva che è in rapporto alla sua sgradevolezza. È stato inoltre osservato che vari fattori psicologici possono influenzare la percezione della dispnea, anche indipendentemente dalle condizioni obiettive del paziente e dall’intensità della dispnea stessa. Questi rilievi hanno indotto a ricercare i meccanismi cerebrali che sottendono alla percezione della dispnea. In questo contesto, gli studi condotti con tecniche di neuroimmagine hanno indicato che alcune aree cerebrali elaborano la percezione della dispnea, in primis la cortex insulare anteriore destra (von Leupoldt A, Dahme B. Cortical substrates for the perception of dyspnea. Chest 2005; 128: 345). In questa area si osserva un’attività anche in corso di altre esperienze spiacevoli, come dolore, fame, sete, emozioni negative, etc.

In un recente studio è stato esaminato il meccanismo neuronale associato all’elaborazione di una dispnea indotta da sforzo avvalendosi di Risonanza magnetica nucleare funzionale (RMNf). (von Leupoldt A, Sommers T, Kegat S, et al. The unpleasantness of perceived dyspnea is processed in the anterior insula and amygdala. Am J Respir Crit Care Med 2008; 177: 1026).
Gli autori hanno esaminato 14 volontari sani nei quali è stata provocata un dispnea mediante inspirazione contro un carico prestabilito. Mediante RMNf sono state esaminate le aree corticali associate con l’elaborazione della sensazione spiacevole della dispnea percepita dai soggetti studiati. È stato osservato che una stimolazione emozionale negativa si associa a una “dispnea percepita” come molto maggiormente spiacevole quando confrontata con una dispnea associata a stimolazione emozionale positiva e ciò in accordo con precedenti studi degli autori, dimostrando che questo più elevato livello di “spiacevolezza percepita” della dispnea è risultato correlato ad aumentata attività neuronale a livello di corteccia insulare anteriore destra e di amigdala. Gli autori ritengono quindi che queste due strutture limbiche siano in correlazione con tali sensazioni. È stato inoltre rilevato che l’induzione della dispnea non è soltanto confermata dall’aumento della frequenza della dispnea, ma anche dall’aumento del picco di pressione inspiratoria alla bocca (P I), del tempo inspiratorio (TI), della diminuzione del volume corrente (VT) e della ventilazione minuto (V˙E). A livello corticale, l’induzione della dispnea è stata confermata, indipendentemente da concomitante stimolazione emozionale, dalle attivazioni della corteccia insulare e sensoriomotrice e nell’area motrice supplementare; queste attivazioni, secondo gli autori, probabilmente riflettono l’aumento volontario dello sforzo muscolare durante la provocazione della dispnea e ciò, presumibilmente, in rapporto con un meccanismo di controregolazione che origina dai meccanorecettori  respiratori. Si potrebbe anche ipotizzare che queste attivazioni rappresentino un scarica che parte dai centri motori corticali verso la corteccia sensitiva, con conseguente percezione di aumentato lavoro e aumentato sforzo nel respiro.
Gli autori ritengono di poter concludere che lo studio mediante RMNf di soggetti sani in corso di dispnea provocata, indichi che la spiacevolezza della dispnea, e non la sua intensità, è elaborata dall’insula anteriore e dell’amigdala; questi risultati richiamano inoltre l’attenzione sulla differenziazione tra dimensioni affettive e sensitive della percezione della dispnea, indicando probabili differenti vie nervose per l’elaborazione di questi eventi. Tali risultati potrebbero contribuire ad un approfondimento delle conoscenze dei meccanismi della dispnea e a migliorarne il trattamento.

Nel commentarli, Pfeiffer (Pfeiffer C. Dispnea and emotion. What can we learn from functional brain imaging? Am J Respir Crit Care Med 2008; 177: 937) ritiene che le future tecniche per imaging possano rivelare anche minime anomalie funzionali nelle aree cerebrali attivate in corso di dispnea e possibilmente in correlazione con alterazioni istologiche. I progressi in questo campo potranno consentire di determinare le caratteristiche spaziali e temporali delle complesse interazioni tra differenti strutture cerebrali implicate nella patogenesi delle dispnea.

Un altro aspetto dell’influenza delle variabili psicologiche sulla percezione dei sintomi nelle malattie respiratorie è stato oggetto di uno studio condotto su pazienti con BPCO per valutare l’effetto di episodi di panico, non infrequenti in questi soggetti, sulla sensibilità a un sovraccarico inspiratorio (Livermore N, Butler JE, Sharpe L, et al. Panic attacks and perception of inspiratory resistive loads in chronic obstructive pulmonary disease. Am J Respir Crit Care Med 2008; 178: 7).
È noto che la prevalenza di attacchi di panico nei pazienti con BPCO è di circa 10 volte maggiore che nella popolazione generale (1,5-3,5%) e che ricerche eseguite mediante prove di resistenza a un carico inspiratorio non hanno chiarito se situazioni di ansia e attacchi di panico si associno ad aumentata o diminuita percezione della dispnea.
Gli autori hanno confrontato 20 pazienti con BPCO e con attacchi di panico con 20 soggetti senza attacchi di panico e 20 soggetti sani, di età corrispondente, avvalendosi di una prova di carico inspiratorio e misurando la percezione della dispnea in risposta all’incremento dell’intensità del carico. Hanno osservato che sia i pazienti con BPCO sia i soggetti normali di controllo hanno mostrato un aumento lineare nella percezione della dispnea con l’aumento del carico inspiratorio. Tuttavia, nei pazienti con BPCO e attacchi di panico, la percezione del livello di difficoltà inspiratoria è stata significativamente più intensa che nei soggetti con BPCO e senza attacchi di panico e nei controlli. È stato inoltre rilevato che l’aumento dell’ansia ha contribuito all’aumento dell’intensità della percezione della dispnea di fronte al carico inspiratorio. Non sono state notate differenze nei parametri spirometrici nei pazienti con BPCO con o senza attacchi di panico e nei controlli.
Secondo gli autori, questi risultati forniscono un’ulteriore documentazione dei rapporti esistenti tra situazione psicologica e percezione della dispnea e in particolare della rilevanza dei disturbi cognitivi. Gli autori rimarcano che, in questi soggetti, l’interpretazione “catastrofica” delle sensazioni fisiche, come la dispnea, accentua il risveglio notturno e crea un circolo vizioso che sfocia nell’attacco di panico. Gli autori ricordano che in queste situazioni una terapia comportamentale può dare buoni risultati, anche in assenza di miglioramento dei parametri spirometrici.
Valore della pressione sistolica
Gli studi clinici condotti negli ultimi anni sul ruolo dell’ipertensione arteriosa quale importante fattore di rischio di eventi cardiovascolari e cerebrovascolari hanno indicato che l’ipertensione sistolica è molto più frequente dell’ipertensione diastolica e contribuisce con netta prevalenza a questo rischio; tale situazione ha condotto a considerare l’ipertensione sistolica come il principale bersaglio della terapia e, addirittura, ad “abbandonare la pressione diastolica” ( Sever PS. Abandoning diastole. BMJ 1999; 318: 1773).
Recentemente i rapporti tra ipertensione sistolica e ipertensione diastolica sono stati oggetto di un esame critico da parte di autori dell’Università di Leicester e dell’Imperial College di Londra e dell’Università di Umeå (Svezia) (Williams B, Lindholm LH, Sever P. Systolic pressure is all that matters. Lancet 2008; 371: 2219). Gli autori rilevano che recenti osservazioni hanno indicato che esiste una associazione tra aumento della pressione sistolica e di quella diastolica con il rischio cardiovascolare, senza peraltro precisare se tale associazione è più netta nei confronti della pressione sistolica. A questo proposito, gli autori ricordano che il profilo della pressione arteriosa si modifica con l’età; infatti la pressione sistolica aumenta con l’avanzare degli anni, mentre la pressione diastolica aumenta fino, all’incirca, ai 50 anni, per poi diminuire quando il rischio cardiovascolare si accresce, tanto che oltre i 50 anni si osserva un’aumentata prevalenza di ipertensione sistolica e una rilevante riduzione di quella diastolica ( Franklin SS, Jacobs MJ, Wong ND, et al. Predominance of isolated systolic hypertension among middle aged and elderly US hypertensives: analysis based on National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES III). Hypertension 2001; 37: 869).



Queste osservazioni hanno indotto a ritenere non logico il  riferimento alla pressione diastolica nella diagnosi e nella valutazione della prognosi.
Secondo gli autori, l’emergenza della ipertensione sistolica quale e principale fattore di rischio è in rapporto al prolungamento della durata di vita e al fatto che i pazienti sono diagnosticati e trattati più precocemente.
Per conseguenza, negli ultimi anni, una elevata ipertensione diastolica è stata considerata un problema di minore rilievo, che peraltro potrebbe significare un insufficiente trattamento di una ipertensione sistolica. Gli autori riportano i risultati di studi clinici che hanno confermato inequivocabilmente l’utilità e l’innocuità di ridurre la pressione sistolica e, inoltre, che non hanno indicato che la contemporanea concomitante riduzione della pressione diastolica abbia determinato un ostacolo alla riduzione della pressione sistolica ( Fagarrd RH, Stassen JA, Thijs L, et al. On treatment diastolic blood pressure and prognosis in systolic hypertension. Arch Intern Med 2007; 167: 1884).
Un altro aspetto del problema è dato, secondo gli autori, da quanto emerso in vari studi sul trattamento dell’ipertensione, studi che hanno indicato che la pressione sistolica è controllabile più difficilmente di quella diastolica e pertanto richiede spesso l’uso di più farmaci. Questa situazione potrebbe indurre a considerare come preferibile bersaglio del trattamento antipertensivo soltanto la pressione diastolica trascurando il controllo della pressione sistolica, mentre, al contrario, la riduzione della pressione sistolica difficilmente lascerà invariata la pressione diastolica ( Waeber B, Moured JJ, Targeting systolic blood pressure: the key to controlling combined systolic/diastolic hypertension. Am J Hypertension 2006; 19: 985).
Gli autori, riconoscendo che i problemi da loro discussi si riferiscono a persone di oltre 50 anni, ricordano che circa il 40% dei soggetti di età inferiore ai 40 anni hanno un’ipertensione diastolica “isolata” e tra quelli di età compresa tra 40 e 50 anni questa situazione si osserva in un terzo dei casi. Essi ritengono, pertanto, che in queste evenienze sia appropriato controllare sempre i valori pressori sistolici e diastolici. Tuttavia, credono che oltre i 50 anni sia importante considerare soprattutto i valori di pressione sistolica, perché la pressione sistolica è riconosciuta come più valido indice predittivo di rischio cardiovascolare, mentre frequentemente i valori diastolici sono normali o ridotti nei pazienti ad alto rischio.
Nel concludere, si sottolinea che la situazione pressoria va sempre considerata nel contesto delle condizioni complessive di rischio cardiovascolare e che spesso in questi pazienti non ci si può limitare alla sola misura della pressione. Ritengono infine che, comunque, la pressione diastolica debba essere sempre controllata nei soggetti di età inferiore ai 50 anni.

Le affermazioni di Williams et al. (loc cit) non potevano non suscitare importanti osservazioni critiche. Ntatsaki e Vassiliou (Ntatsaki E, Vassiliou V. Isolated systolic blood pressure measurement. Lancet 2008; 372: 1033) osservano che la misura della sola pressione sistolica nei soggetti di età compresa tra 50 e 59 anni potrebbe lasciare non diagnosticati oltre il 10% degli ipertesi. Gli autori sottolineano l’importanza della valutazione della pressione differenziale, specialmente negli anziani, che, in realtà, fornisce ragguagli più precisi sul rischio cardiovascolare della misura dei valori sistolici e diastolici e può essere utile in condizioni di patologia valvolare, come stenosi e insufficienza aortica.

Doumas et al (Doumas M, Douma S, Petidis K, et al. Isolated systolic blood pressure measurement. Lancet 2008; 372: 1033) ritengono che un’eccessiva riduzione della pressione diastolica nei pazienti anziani possa costituire un fattore predisponente all’ictus, alle coronaropatie e alle cardiopatie in generale. Pertanto, pur riconoscendo il ruolo primario della pressione sistolica nelle cardiopatie degli anziani, ritengono che il controllo dei valori diastolici non vada omesso, specialmente nei soggetti con ipertensione sistolica “isolata” e con precedenti coronaropatie.