Libri

Il medico malato

«Non mi sarei ritenuto capace
di tener stretto tra le braccia un malato;
ora saprei come farlo,
dopo che i miei colleghi lo hanno fatto a me,
che ne avevo bisogno.»
Mike Shooter
Presidente del Royal College of Psychiatrists, London

Cosa succede quando si ammala un medico? Come viene vissuto l’evento da parte sua e da parte del collega che deve assisterlo? Quali le peculiarità – riconducibili alla formazione soggettiva e, più in generale, alla cultura medico-biologica dei paesi industrializzati – che possono facilitare o ostacolare tempi e modi di diagnosi e terapia? E nel caso si verifichi tale deficit di compliance, vi sono tecniche e mezzi per individuarne le motivazioni e per rimuoverle? Esistono strategie mirate per salvaguardare un’efficace alleanza terapeutica? Ed infine: perché ancor oggi permane tanto alta l’incidenza di rischio suicidario tra i medici e rimane altrettanto difficile decrementarla? Queste domande sono solo una parte di quelle cui cerca di rispondere il libro di due psichiatri americani: The physician as patient. Michael F. Mayers e Glen O. Gabbard. Pagine 242. American Psychiatric Publishing, Washington, London 2008. ISBN 978-1-58562-312-9.
Come esplicita il sottotitolo – “A clinical handbook for mental health professionals” – è un manuale destinato a specialisti, in quanto focalizzato ad individuare ed alleviare i condizionamenti psicologici e psicopatologici sottesi a gran parte di malattie somatiche sofferte da medici. E gli autori sono esperti del campo. Michael Myers, docente alla University of British Columbia in Vancouver, cominciò ad interessarsi a queste problematiche sin dai tempi dello studentato, il giorno in cui si suicidò un suo compagno di College: una tragedia nel silenzio assordante di una comunità “dorata” e protetta, in quegli anni, da forti nessi corporativi. Myers, toccato dall’evento, bruciò le tappe e si specializzò proprio nella psicoterapia di colleghi e delle loro famiglie, dapprima con l’aiuto di supervisori e, appena possibile, autonomamente. Da qui il suo primo libro: “Doctors marriages. A look at problems and their solutions” (giunto ad una nuova edizione e metà degli anni novanta).
Analoghi gli interessi dell’altro autore, Glen Gabbard, formatosi alla scuola di Roy Menninger: anch’egli psicoanalista, esperto in terapia di coppia, e anch’egli coautore di un pregevole volume sull’argomento: “Medical marriage”, oltre che di un best-seller sul cinema e psichiatria. Attualmente  è direttore della Clinica psichiatrica presso il Baylor College, nel Texas.
Il volume che hanno insieme pensato e redatto è la somma, complementare, delle loro esperienze. Esso è diviso in tre parti. La prima, dedicata alle caratteristiche e alla vulnerabilità del medico, comprende tre capitoli. Il capitolo 1 individua alcuni tra i più frequenti “modelli” di personalità medica e spiega come essi siano condizionati da valori, responsabilità ed aspettative peculiari della professione sospesa tra due atteggiamenti-limite: la capacità di adattamento alla sofferenza e – contrapposto – il sussiego di casta. Il secondo capitolo analizza le diverse culture che, negli USA, si fondono – non sempre facilmente integrandosi – nella corporazione professionale: medici afroamericani, medici ispanici, medici asiatici, medici omosessuali e lesbiche, ma sempre – e soprattutto – “medici”, spesso ingessati in una particolare visione di vita. Il terzo descrive teoria e pratica dell’esame psichiatrico e conseguente valutazione di idoneità del paziente/collega: vi sono riportati alcuni esempi casistici, invero non peregrini.
La seconda parte è costituita da quattro capitoli: è una rassegna di patologia mentale e disturbi del comportamento (anch’essa corredata da esempi): disturbi d’ansia, fobie, depressione, disordini della sfera sessuale, psicopatie complesse con tendenze suicidarie. Ne emerge una figura di terapeuta simile a quella di un difensore civico, chiamato a recuperare alla società un valore aggiunto, temporaneamente a rischio di dispersione. Tale impegno viene illustrato nella terza e ultima sezione: Prevenzione, trattamento, riabilitazione, spiegando il perché e il percome delle diverse tecniche impiegate: psicofarmacoterapia, psicodinamica, psicoterapia cognitiva, terapia di coppia, terapia familiare.
A lettura ultimata, si ha la confortante sensazione di uno scampato pericolo: le malattie (anche quelle mentali) che colpiscono i medici hanno, sì, alcuni tratti singolari, hanno sì, andamenti, a volte, più criptici e non di rado sorgenti che potremmo definire “carsiche”; ma tuttavia anch’esse, seppure con qualche difficoltà in più, si possono curare e guarire. Quel che occorre, al solito, sono metodo, tecnica ed empatia.
Tuttavia restano – sullo sfondo – alcune domande e alcune possibili risposte di minor immediatezza ma di incisiva sostanza. Ce le suggerì a suo tempo la pubblicazione di un analogo libro: Doctor as patients, a cura di Petre Jones. Non ci sembra ridondante riproporle a proposito del presente volume che, come la maggior parte della letteratura, continua, purtroppo, a trascurarle.
La prima domanda discende dalla condizione di malattia. È davvero, essa, una condizione di esclusiva competenza medica? E la seconda è la seguente: se la “conoscenza” della malattia – traguardo oggettivo e impersonale in quanto scientifico – riuscisse a coniugarsi con la “coscienza” della malattia – condizione umanissima e soggettiva – non sarebbe meno arduo anteporre all’angoscia del “come si esce dalla malattia?” il quesito (solo apparentemente meno urgente): “cosa ci vuole dire la malattia”?
Da qui alcune condizioni di asintonia. In primo luogo la passività del paziente, tanto più sofferta allorché egli (medico) è detentore di quello stesso sapere-potere scientifico divenuto troppo spesso riduttivo nei confronti della soggettività; e, in secondo luogo, allorché il vissuto di malattia viene considerato soltanto come una componente variabile della malattia organica e – conseguentemente – come un dominio del proprio potenziale tecnico, può accadere che la pratica clinica riduca l’inquietudine dell’«io sono un corpo» alla rassicurazione «tu hai un corpo». Così, la clinica e l’organizzazione normativa che ne discende (misurare l’ignoranza, ricompensare l’obbedienza, sanzionare la trasgressione) si costituiscono come il Sapere per eccellenza, il timoniere dei nostri comportamenti (colui che ordina, prescrive, giudica e certifica).
A tali convinzioni e convenzioni di una medicina in teoria meramente biologica ma in realtà socialmente totalizzante, si è indirizzata già da alcuni anni l’analisi critica di studiosi come François Laplantine e Byron J. Good. La tesi di quest’ultimo è che la scienza medica non possa darci - da sola – i fondamenti per un’antropologia disponibile all’esperienza della vulnerabilità. Ha scritto – al proposito – anche Umberto Veronesi: «Per condurre la scienza verso il bene, dobbiamo innanzi tutto non lasciarla vivere come un corpo estraneo alla società, bensì svilupparla in armonia con le altre forme di pensiero e di interpretazione della realtà». (Cfr., in questo stesso fascicolo, a pagina 365, l’editoriale di Enrico Materia e Giovanni Baglio: Medicina e verità: tra scienza e narrazione).
Sarebbe quindi auspicabile che all’intervento biologico ne venisse associato un altro che riconoscesse come il linguaggio della medicina sia un linguaggio culturale ed una costruzione storica, in tal modo ridimensionando le ricadute che lamentiamo di frequente: la persona (l’insieme) subordinata all’organo (la parte), l’ospedale come normalizzazione invece che come esperienza esistenziale, il referto (documento) che si sostituisce alla comunicazione (confronto), la biologia (la malattia) separata dalla biografia (il malato).
Vale la pena riportare, ancora una volta, la considerazione di un ricercatore di sanità pubblica nell’Università di Copenhagen, a suo tempo apparsa su Lancet (Kirsty Malterud: Humiliation instead of care? 2005; 366: 785): «For most people – doctor included – it is painful to realize that one’s behaviour can contribute to disempowerment of other people. But oppressive behaviour is hardly ever acted out deliberately. This behaviour emerges in health care as a cultural manifestation of how society’s general patterns of power are reproduced and sometimes produced by medicine».

Caterina Roghi

Donne in medicina: oggi e domani
«Essere donna non è un dato naturale,
ma il risultato di una storia»
Simone de Beauvoir
Una testimonianza monumentale a favore del talento e del ruolo peculiare delle donne in medicina e più in generale nel mondo scientifico si è celebrata di recente, e non solo in Italia, con la ricorrenza del centenario di Rita Levi Montalcini. Poche settimane prima è apparso con successo, negli Stati Uniti, un volume che, nutrito di ammirazione e riconoscenza nei riguardi dell’“altra metà del cielo”, ne illustra il rilevante contributo apportato al progresso dell’assistenza sanitaria: The changing face of medicine: women doctors and evolution of health care in America. Ann K. Boulis, Jerry A. Jacobs. Pagine 280. Cornell University Press, Ithaca 2008. Dollari 35,00. ISBN 978-0-8014-4446-3.
È una doviziosa esposizione di pareri sul perché, ancora oggi, negli Stati Uniti persista un incongruo “gender gap” nella corporazione medica. Tuttavia, la situazione sta migliorando e il divario fra medici maschi e medici donne sta diminuendo sia relativamente al numero, sia per quanto riguarda funzioni e gerarchie. Una spiegazione “riduzionista” di tale incremento femminile nelle Facoltà di medicina lo riconduce nell’ambito del pregiudizio maschilista: la causa, sarebbe, cioè, un ipotetico deterioramento generale della professione, che ve rebbe quindi “disertata” dal genere maschile; ma gli Autori non mancano di validi argomenti per dimostrarne l’infondatezza. Ammesso e non concesso che un certo declino nella formazione e nella pratica medica statunitense si sia verificato e perduri, esso ha radici meno prossime e di natura più complessa del pur importante fenomeno di promozione “indiretta” – accademica e professionale – del cosiddetto “sesso debole”: è, piuttosto, uno degli aspetti della crisi di valori che negli ultimi anni ha afflitto la società, la politica e l’economia del paese. Giustappunto, un contributo significativo ad una auspicata inversione di rotta nella prevenzione e nell’assistenza pubblica potrebbe essere apportato proprio dal sempre più qualificato protagonismo delle donne nella progettazione e nella operatività sanitaria nazionale. E il nuovo corso politico della presidenza Obama non manca, opportunamente, di assecondarlo, come riconosciuto (ed apprezzato) dal libro. Che ridimensiona anche l’allarme di una progressiva disaffezione maschile nei confronti della professione medica (comunque minore per le­­­­­­ aree della chirurgia e della ricerca). Seppure l’evidenza delle cifre documenti, tuttora, un decremento percentuale tra i due sessi di minor misura per le donne, i numeri, in assoluto, parlano di aumento complessivo. E dunque, Boulis e Jacobs riconducono a dolorose, lontane memorie la causa di un picco straordinario di crescita di immatricolazioni maschili: agli anni cupi e cruenti del conflitto nel Vietnam, quando l’iscrizione alle Facoltà universitarie di medicina costituiva un’alternativa al richiamo alle armi.



D’altra parte, non è possibile ignorare alcune circostanze – biologiche e biografiche – che possono condizionare le scelte delle carriere femminili: non più tanto barriere dovute a impari opportunità o a discriminazioni pregiudiziali, bensì esigenze familiari, minore disponibilità al lavoro extra-orario, maggiore inclinazione – per quanto riguarda la professione medica – ad aree particolari quali pediatria, microbiologia, neuro­psichiatria infantile, genetica ed ostetricia. Però, come sopra accennato, la situazione sta cambiando. Uno studio recentemente apparso sul BMJ ci dice che tra una diecina di anni avremo una maggioranza di dottoresse.
Qualche anno di più e lo stesso fenomeno si verificherà nel SSN ­italiano. Entro il 2024, più di 180 mila professionisti andranno in pensione e saranno rimpiazzati da nuove leve, in gran parte femminili. Del resto, tra i laureati, nel 2007, le laureate in medicina sono state il 65 per cento; la media nazionale delle matricole 2007-2008 vede un 63% di ragazze; alla Statale di Milano le studentesse raggiungono il 73%. Le donne sono maggioranza in quasi tutti gli Atenei; e così si profila il rischio – profetizzano i pessimisti – che se l’andamento si confermerà, in Italia finiranno per mancare i chirurghi! (A Parma, c’è stata solo quest’anno, la prima iscritta alla specialità di cardiochirurgia).



Di fronte ad un fenomeno complesso e in un mondo che cambia tanto rapidamente, gli Autori del libro privilegiano la prudenza. Si limitano a fornire un documentato stato dell’arte ed a trasmettere motivi di speranza per un miglior riconoscimento alla vocazione medica femminile. Dobbiamo loro un grazie, quantunque venato da un pizzico di scetticismo: perché certe speranze, ahimè, le nutrivamo anche allora, tanti anni fa, all’incipit di questa nostra affascinante, non facile professione.

Gaia de Bouvigny

I giovani, il cibo, il corpo
«La pinguedine è un segno di mancanza di educazione»
G. Prezzolini
L’opulenza del corpo, che nell’età preindustriale poteva essere ostentata come indice di salute e di gioia, oggi appare, piuttosto, residuo di una cultura plebea: grezza ed ingombrante. Ed è anche nota, ormai, la correlazione tra obesità, disordini alimentari e l’immagine del proprio corpo che ciascuno porta con sé, sin dall’adolescenza. Giunge a ribadirlo, sulla scorta di ricerche statistiche e studi recenti, la seconda edizione di un volume, esplicito sin dal titolo: Body image, eating disorders, and obesity in youth: assessment, prevention, and treatment. A cura di Linda Smolak e J. Kevin Thompson. Pagine 390. American Psychological Association, Washington 2009. Doll. 59,95. ISBN 978-1-4338-0405-2. Primo suo merito è, giustappunto, riuscire a convincere il lettore (interessato a diverse specialità: nutrizionista, pediatra, psicologo, endocrinologo) dell’interagire di questi quattro argomenti; i quali vanno studiati sia singolarmente e sia nelle loro reciproche sovrapposizioni. Un secondo pregio è la felice organizzazione dell’opera: ben costruita, aggiornata, scritta con stile piano, con poche ridondanze. Tale risultato si deve anche all’esperienza ed alle capacità degli autori dei vari capitoli che risultano divisi in quattro sezioni. Dopo una prima, breve, sezione introduttiva, la seconda (otto capitoli sotto un titolo generale: “Foundations”) passa in rassegna i diversi aspetti del problema, compresa l’influenza che l’ambiente familiare può esercitare sul rapporto che un giovane intrattiene col proprio corpo. Conseguentemente  si analizzano le sue risposte a mutazioni impreviste o comunque non desiderate, inconsciamente favorite da inappropriati comportamenti reattivi: ansia e compensazioni bulimiche. Singolare ed apprezzabile – in quanto non frequente nella letteratura – è la sottolineatura delle differenze che possono manifestarsi, pur in un analogo scenario di fondo, a causa di origini etniche e incroci culturali. La terza parte del libro – “Assessment, prevention, and treatment” – si occupa di disturbi psicologici ed alimentari in bambini ed adolescenti, insistendo sulla opportunità di interventi preventivi, di migliore efficacia rispetto a quelli terapeutici, ineluttabilmente in ritardo e destinati a frequente insuccesso. Da segnalare anche, in questa parte, una rassegna inusuale sulla chirurgia plastica pediatrica ed adolescenziale. Conclude il volume una panoramica sugli effetti dell’intreccio psicopatologico descritto nelle pagine precedenti.




La trattazione riesce a raggiungere diversi obiettivi. Primo: malgrado le dichiarate finalità didattiche e lo stile di scrittura, è di agevole e stimolante lettura. Secondo: non è un prodotto ingessato da modelli teorici; anzi, gli autori propongono sovente, al lettore, alternative di interpretazione. Terzo, ed è forse il risultato più apprezzabile, il libro è anche di utilità pratica e, specialmente nei capitoli dedicati a prevenzione e terapia, fornisce, ai clinici, preziosi suggerimenti operativi.
E i clinici potenzialmente interessati non sono pochi: pediatri, psicologi dell’adolescenza, nutrizionisti e dietologi, oltre che i medici di famiglia, i quali, non di rado, sono i primi ad imbattersi nelle problematiche in questione.

Chiara Fedeli