Libri

L’obesità tra biologia e politica
«Ti meravigli
che le malattie siano troppe?
Conta quanti cuochi ci sono»
Seneca
La biologia condiziona quantità e qualità della nostra alimentazione e del nostro metabolismo, venendo così ad incidere significativamente sulla prevalenza dell’obesità nella popolazione generale.



Studi di genetica stimano che l’ereditarietà ne costituisca il più cospicuo fattore predisponente. Le spinte evoluzionistiche, inoltre, hanno da sempre favorito assunzioni ipercaloriche in tempi di carestia.
Numerosi processi fisiologici contribuiscono ad un eccessivo deposito di grasso nell’organismo umano, così come il condizionamento di alcune risposte neurocognitive può determinare squilibri tra introiti calorici e consumo energetico. Tuttavia, nonostante tali evidenze, una gran parte di studi ritiene che il tumultuoso diffondersi del fenomeno obesità – ormai planetario – sia determinato da fattori ambientali piuttosto che da predisposizioni genetiche.
Il problema è stato affrontato da due recenti volumi: The end of overeating. Taking control of the insatiable American appetite, di David Kessler. Pagine 320. Rodale Press, Emmaus 2009. US $ 25,95. ISBN 978-1-60529-785-9 e The evolution of obesity, di Michael Power, Jay Schulkin. Pagine 392. Johns Hopkins University Press, Baltimora 2009. US $ 40. ISBN 978-0-8018-9262-2.

Kessler, pediatra, ex Commissario della US Food and Drug Administration, analizza in ottica biologica il comportamento alimentare ed i correlati fattori di rischio per sovrappeso. Sua è la neo-definizione: «iperalimentazione condizionata» (conditioned hypereating), propensione al consumo di cibo troppo ricco di grassi, zuccheri e sali; consumo incentivato dalla grande industria alimentare, incurante dei danni che esso può provocare nei paesi industrializzati ed anche in quelli in via di sviluppo.
Power e Schulkin, ricercatori di base, individuano, invece, nella storia dell’evoluzione l’origine della “pandemia obesità”: meccanismi sociali sono stati funzionali alla sopravvivenza e alla riproduzione in un passato nemmeno troppo remoto; e sono gli stessi che oggi attentano alla nostra salute ed attesa di vita.
Denunciando le responsabilità del mercato, Kessler sottolinea la possibilità a resistergli, fino ad indurlo a politiche industriali e commerciali meno nocive. Occorre – egli afferma – una campagna globale di rieducazione alimentare.
Non altrettanta fiducia in strategie di tal tipo nutrono Power e Schulkin: a loro parere, esse sottovalutano il problema, con conseguente sovrastima di interventi medicalizzanti (diretti o mediati); piuttosto, a loro parere, sarebbe meglio comprendere e approfondire in itinere i meccanismi biologici che conducono all’incremento di peso per arrivare tempestivamente ad eventuali rimedi, senza rinviarli a danno già compiuto.
È, questa, una lodevole (anche se non proprio peregrina) posizione di principio che – secondo noi – potrebbe coniugarsi utilmente con empirici interventi di buon senso, finalizzati al primo dovere della sanità pubblica: che è quello della prevenzione. Dunque, ben vengano campagne a vasto raggio intese a disincentivare il boom consumistico delle merendine, delle bevande alcoliche “mimetizzate” ad uso degli adolescenti, degli integratori o antagonisti calorici, così come quelle volte a calmierare la straripante offerta di intrattenimento televisivo e/o al computer per bambini e ragazzi, progressivamente disaffezionati ad un equilibrato e salubre esercizio fisico. Allo stesso tempo è, però, indispensabile veicolare con successo un messaggio a favore di un diverso stile di vita, agevolandone le possibilità di adozione. Nella famiglia, nella scuola, nei luoghi di lavoro e del tempo libero non si avvertirà mai abbastanza, a fronte della dilagante emergenza, che – a monte di una alimentazione controllata e ad un compatibile esercizio fisico quotidiano – occorre convincere singoli e comunità che l’adozione di certe regole per un comportamento più sobrio ed igienico non deve essere considerata come una limitazione o come un autoritario dirigismo economico, bensì, al contrario, quale invito (e facilitazione) alla libera scelta di un futuro benessere, prossimo (per l’oggi e il domani) o meno prossimo (per i nostri figli e nipoti).
I libri di Kessler e di Power & Schulkin – ambedue assai severi nei confronti dell’industria alimentare del loro paese – contribuiscono a tale intento: per la coraggiosa denuncia, ma anche per la sollecitazione e il contributo ad un dibattito che – oltre che dottrinale – ha implicazioni socio-politiche di dimensioni globali.

Chiara Fedeli
Vivere il nostro limite
La morte è tragedia, arbitrio e nonsenso, ma allo stesso tempo ci dispone ad una pienezza di vita che, in sua assenza, non esisterebbe. Lo scrive Todd May, filosofo statunitense, che aggiunge: quello che può costituirsi come la negazione di ogni fattore del nostro vivere – razionale ed affettivo – lo rende, paradossalmente, destino dominante; e si chiede (ci chiede): come vivere una tale contraddizione? Un grande sociologo, Edgar Morin, denunciò l’ipotesi della rimozione collettiva: «Viviamo – ha scritto – in una civiltà che ha smesso di convivere con la morte, e questo perché c’è stata una regressione del sacro, del rituale, che ha fatto sì che essa diventasse sempre più qualcosa di privato e di indicibile. I grandi riti di cicatrizzazione e di esorcismo non possono più funzionare nella nostra società».



È forse il sofisma parmenideo, onusto di oltre due millenni di storia – «il non essere non è e non può essere pensato» – a distrarre ancor oggi l’attenzione su una filosofia della morte anche da parte di alcuni
medici che, a volte, rischiano di apparire quali sacerdoti d’una illusoria immortalità? May pone questi e altri interrogativi in un rapido (forse troppo) volume di una “collana” sull’arte del vivere, collana che include saggi su numerose declinazioni dell’esistenza: Todd May: The art of living. Pagine 120. Acumen Publishing, Durham 2009. Sterline 9,99. ISBN 978-18-44651641. Questo non è un libro per coloro che hanno fede ultraterrena, che credono in una vita dopo la morte; si rivolge, piuttosto, a chi a tali illusioni è stato capace di rinunciare. Morire – scrive Todd – è la fine del nostro essere e delle nostre esperienze e, sulla scorta di Heidegger, precisa: non è un punto d’arrivo; al contrario, è un’inevitabile, imprevedibile e irredimibile interruzione; essenzialmente foriera di precarietà ed angoscia. La esecrava Elias Canetti, acerrimo quanto impotente detrattore della finitudine: «... essa mi sembra il male primordiale, l’irrisolto e l’incomprensibile». Tuttavia – replica May – fuggire il nostro destino comune è come odiare noi stessi, il nostro iter quotidiano che non ha exit alternativo; e vano è anche il rifiuto comunitario, quello della nostra società, oggi incline a una cultura pervenuta man mano anche in medicina, all’interdizione della morte. (“The Economist” ha recentemente suggerito un verosimile collegamento tra boom delle polizze assicurative in USA e ingravescenti sondaggi sulla paura della morte). Il libro, dunque, non va troppo controcorrente. Ci dice, insomma, che il modo per vivere pienamente la nostra giornata terrena è quello di condividerla con l’onnipresenza del nostro limite, la cui denegazione, per contro, costituirebbe la deminutio più radicale dell’essere felici. E non nell’ottica – si badi – di una sublimazione mistica, bensì, all’opposto, respingendo nel regno dell’astrazione il fallace conforto dell’immortalità, a suo parere puerile e defettivo. Perché, afferma, l’unica “presumibile” (tollerabile) immortalità dovrebbe necessariamente essere altro dal mero prolungamento dell’esistere umano. Qui è la sfida centrale – ci avverte – e non c’è soluzione-scorciatoia. C’è, piuttosto, un groviglio di contraddizioni che ciascuno deve affrontare, senza timori paralizzanti e pregiudizi: l’avventura è individuale, la salvezza va cercata in formule singole che i più fortunati (i meglio dotati?) mettono a punto coi propri mezzi. Di costoro ci fornisce due esempi, un binomio assai inconsueto: Marco Aurelio, l’imperatore stoico del II secolo, e John Coltrane, sassofonista USA del free-jazz, celebre coevo di Dizzy Gillespie, Miles Davis e Charlie Parker negli anni ’30-’50 del Novecento. Ambedue, a parere del nostro Autore, vissero intensamente ed in atteggiamento di continua ricerca il proprio presente, attuando al meglio le proprie potenzialità, nel rispetto di se stessi e degli altri. La bizzarria dell’accostamento conferma il non infondato sospetto di una certa disinvoltura dell’Autore e dello scritto che, anche in virtù di levità formale, si confronta con interpellanze radicali senza soverchie preoccupazioni e scrupoli dottrinali; certamente non disvelando al lettore peregrini orizzonti, tuttavia accreditandolo di strumenti etici ed empirici di discreto vigore, che, peraltro, potrebbero tornare utili per un più indulgente giudizio su cortocircuiti, ridondanze e luoghi comuni che il libro non riesce a risparmiarci.

Benedetta Marra
Malattie infettive: patogenesi
e prevenzione

Alla fine dello scorso anno è stata pubblicata un’opera che è frutto di un team miltidisciplinare e multinazionale (Regno Unito, Singapore ed Hong Kong): Infectious disease. Pathogenesis, prevention and case studies. Edited by Nandini Shetty, Julian W. Tang, Julie Andrews. Pagine 664. Wiley-Blackwell, Chichester (UK) 2009. Sterline 45,00. ISBN 978-1405135436).
Evidenzia, a prima vista, due caratteristiche: è un trattato di dimensioni medie (non un bibliosauro) e non presenta temi di terapia. Intende, infatti, costituire un testo di base per studenti e specializzandi ed a tale finalità rispondono anche alcune caratteristiche del formato grafico: in ogni capitolo figurano box riassuntivi di punti-chiave, sussidio assai utile a scopo didattico e numerosi sono anche – a conclusione di paragrafi più rilevanti – quiz di autovalutazione, esercizio sia di memoria dottrinale, sia di attitudine alla pratica clinica. Ulteriore corredo educazionale è fornito da una iconografia doviziosa ed efficace e da un compact disc che può agevolare la rilettura estemporanea di passi, algoritmi ed integrazioni bibliografiche.



Il contenuto è diviso in 5 sezioni dedicate a: principî generali di patologia infettiva, infezioni specifiche d’organo o di sistema, infezioni di origine peculiare (quali quelle da ospite immunocompromesso), infezioni a carattere pandemico, malattie infettive emergenti. Come già detto, gli Autori non indugiano su dettagli di trattamento: rimandano a fonti specialistiche, a link online dedicati, a linee-guida ufficiali come quelle dei Centers for Disease Control and Prevention, della American Academy of Pediatrics, e della Infectious Diseases Society of America. Ciò, non solo per minimizzare il rischio di obsolescenza farmacoterapeutica, ma, più in generale, in concordanza con il principio secondo cui, spesso, la prevenzione è la più efficace modalità di trattamento.
Qualche area avrebbe potuto essere illustrata meno sinteticamente, qualcun’altra appare ridondante. Perché, ad esempio, non separare la discussione su patogenesi e virulenza dello Staphylococcus aureus da quella di stafilococchi coagulasi-negativa? I paragrafi dedicati alle infezioni dermatologiche e dei tessuti molli dovute a Staphylococcus aureus meticillina-resistente (MRSA) – attualmente così importanti e diffuse – avrebbero meritato maggior spazio; ecosì le pagine sulle sindromi di immunodeficienza (non è menzionata una condizione primaria quale la agammaglobulinemia). Viene, invece, approfondito a dovere il problema della antibiotico-resistenza, anche in casi pediatrici; così come lodevole, perché oggi tema nuovamente alla ribalta, è l’attenzione riservata alla patologia infettiva del viaggiatore (tubercolosi e malaria). I capitoli sulle infezioni emergenti appaiono aggiornati e di largo interesse: si vedano, ad esempio, l’elaborato sulla sindrome respiratoria acuta, quello sulle febbri emorragiche di origine virale e quello su possibili agenti di bioterrorismo.
Nel complesso, il contenuto dell’opera soddisfa le esigenze del lettore; e la forma dell’esposizione è piana ed equilibrata. Pertanto il volume merita di essere ben accolto, oltre che da studenti e specializzandi, anche dai medici generalisti, che non di rado si trovano a fronteggiare, in prima linea, la variegata ed insidiosa patologia infettiva.

Alice Morgan