Il paradosso dell’ipertensione

Nonostante i grandi progressi compiuti negli ultimi decenni nel trattamento dell’ipertensione arteriosa, questa malattia continua a rappresentare uno dei maggiori problemi di sanità pubblica, con una prevalenza in crescente aumento e anche con crescente numero di soggetti con ipertensione non controllata malgrado i progressi della terapia: il cosiddetto “paradosso dell’ipertensione” (Chobanian AV. The hypertension paradox. More uncontrolled diseaes despite improved therapy. N Engl J Med 2009; 361: 878).



In una recente rassegna critica, l’autore ricorda che numerosi studi hanno dimostrato l’utilità dei farmaci antipertensivi attualmente in uso nella terapia dell’ipertensione, compresa l’ipertensione maligna, studi che, inoltre, hanno indicato che un trattamento preventivo nei soggetti con pressione diastolica compresa tra 115 e 129 mm Hg, e anche in quelli con pressione diastolica tra 90 e 114 mm Hg, consente una netta riduzione di eventi cardiovascolari e che grande importanza ha la riduzione dei valori pressori negli anziani con ipertensione sistolica isolata.
Chobanian (loc cit) rileva che, nonostante questi concetti siano universalmente accettati e seguiti, dati recenti indicano che, negli Stati Uniti, molti ipertesi non sanno di esserlo, molti non ricevono alcuna terapia e moltissimi non raggiungono livelli pressori sotto 140/90 mm Hg. L’insufficiente controllo dell’ipertensione è particolarmente evidente e grave nei pazienti con nefropatie, diabete, angina stabile, sindromi coronariche acute o disfunzione ventricolare sinistra, nei quali, come noto, si consiglia di raggiungere il valore di 130/80 mm Hg o più basso. In genere, questa situazione è attribuita a una non corretta gestione complessiva della malattia ipertensiva, oltre che a differenze etniche o condizioni economiche.
L’autore discute il problema posto dal “paradosso” dell’ipertensione e dai mezzi per arrestare la crescente prevalenza della malattia. A questo proposito viene citato il 7° rapporto del Joint National Committee on Prevention, Detection, Evaluation and Treatment of High Blood Pressure degli Stati Uniti (vedi questa Rivista, vol. 94, ottobre 2003, pag 470) che ha riclassificato come “preipertensione” i valori di 120-130/80-89 mm Hg che rappresentano un rischio di ipertensione e che pertanto non possono essere considerati “normali”. Questo rapporto ha indicato che la progressione dalla preipertensione all’ipertensione può essere relativamente rapida, come del resto confermato da vari studi che hanno segnalato che il 90% dei soggetti con pressione normale tra 55 e 65 anni sono diventati ipertesi nei successivi venti anni.
Chobanian (loc cit) sottolinea che negli Stati Uniti oltre il 30% degli adulti ha preipertensione ed è ad aumentato rischio di eventi cardiovascolari e che, oltre il livello di preipertensione, l’effetto dell’aumento pressorio sul rischio cardiovascolare è progressivo e continuo, con un raddoppio del rischio per ogni aumento di 20/10 mm Hg, senza contare l’aumentata prevalenza di dislipidemia, diabete, insulinoresistenza, obesità (la cosiddetta “sindrome metabolica”). L’autore rimarca che, per ridurre la pressione e ritardare la comparsa di ipertensione, sono necessari interventi sulle abitudini di vita.
Per quanto concerne i fattori che contribuiscono alla progressione da preipertensione a ipertensione l’autore cita in primis i fattori genetici rappresentati da parecchi polimorfismi di singoli nucleotidi in loci associati alla pressione (Levy D, Ehret GB, Rice K, et al. Genome-wide association study of blood pressure and hypertension. Nat Genet 2009; 41: 677). Il controllo del peso e dell’apporto di sodio sono importanti soprattutto nell’aumento della pressione correlato all’età; l’autore ricorda che negli Stati Uniti durante gli ultimi 25 anni il consumo di cloruro di sodio è cresciuto fino a 150-170 mmol al giorno, (pari a 3,5-4,0 g) di sodio, contribuendo, fra l’altro, anche all’aumento dell’obesità. L’autore non dimentica di sottolineare che, al momento attuale, non sono del tutto chiariti i problemi collegati alla sensibilità della pressione al sale di cucina e ricorda che in alcuni soggetti sono state identificate alcune mutazioni genetiche che influenzano direttamente il riassorbimento renale di sodio e che una riduzione dell’apporto alimentare di sodio ha dimostrato di ridurre i livelli pressori sia nei normotesi che negli ipertesi. Un altro fattore importante nel controllo della pressione è il rapporto tra sodio e potassio nell’alimentazione, che appare più strettamente correlato alla pressione rispetto all’apporto dei due ioni da soli.
L’autore si intrattiene infine sui rapporti tra ipertensione e obesità ricordando che la riduzione del peso può prevenire l’ipertensione o ritardarne la comparsa, ma, anche in questo caso, la prevalenza dell’obesità è in continuo aumento e in questo hanno avuto grande rilevanza le trasformazioni sociali degli ultimi 30 anni. Secondo l’autore, per il controllo dell’obesità, e quindi delle abitudini alimentari, possono essere importanti le strutture sociali, la famiglia e le industrie.
Concludendo, si rileva che, paradossalmente, il numero delle persone con ipertensione non controllata è in continuo aumento, malgrado i progressi nella terapia, e che le abitudini di vita rappresentano la causa principale di questo fenomeno.
Nel commentare questo articolo, Schwarz (Schwarz U. The hypertension paradox. N Engl J Med 2009; 361: 2195) riconosce che la mancata collaborazione del paziente è la principale causa di insuccesso nel controllo dell’ipertensione arteriosa e che la collaborazione del paziente dipende anche dal numero di farmaci assunti giornalmente.
In un altro commento, Shil (Shil AB. The hypertension paradox. N Engl J Med 2009; 361: 2196) rivolge l’attenzione soprattutto agli ipertesi anziani, nei quali l’inadeguato controllo dell’ipertensione è dovuto principalmente a inadeguato controllo dell’ipertensione sistolica. Ciò troverebbe conferma negli studi che hanno indicato che negli anziani il trattamento dell’ipertensione sistolica isolata consente una notevole riduzione dell’incidenza di ictus, coronaropatie e insufficienza cardiaca congestizia. Ma il raggiungimento di una diminuita pressione sistolica a spese di una eccessiva riduzione della pressione diastolica può accrescere il rischio di morbilità e di mortalità, specialmente nei soggetti con ipertensione sistolica isolata.
Spital, commentando l’articolo di Chobanian (loc cit), si sofferma sul concetto di preipertensione e sul rischio di progressione verso l’ipertensione arteriosa conclamata. L’autore ricorda, in proposito, che è stato recentemente proposto di trattare questi pazienti farmacologicamente (Kaplan NM. Prehypertension: is it relevant for nephrologists? Clin J Am Soc Nephrol 2009; 4: 1381), ma ritiene che, date queste caratteristiche della preipertensione, non appare giustificato chiamarla con questo nome, poichè l’evidenza epidemiologica indica che essa non è soltanto un precursore dell’ipertensione, ma molto di più.
Pertanto propone di eliminare il termine “preipertensione” e di sostituirlo con quello di “ipertensione di stadio 1”, spostando agli stadi 2 e 3 l’ipertensione di stadio 1 e quella di stadio 2, rispettivamente. (Spital A. The hypertension paradox. N Engl J Med 2009; 361: 2196).

Chobanian (Chobanian AV. The hypertension paradox. N Engl J Med 2009; 361: 2196) risponde a Schwarz (loc cit), osservando che la collaborazione del paziente dipende anche dal medico, ma ciò non diminuisce l’importanza di un corretto stile di vita. Rispondendo a Spital (loc cit), l’autore ricorda che il termine “preipertensione” è stato oggetto di notevoli dibattiti e che, oltre a quanto si riferisce a pazienti con nefropatie, diabete o cardiopatie, non sono ancora oggi disponibili dati sui benefici effetti di una terapia farmacologica. Per il momento, ritiene appropriato classificare questi pazienti come “preipertesi”, limitando il trattamento alle modificazioni delle abitudini di vita, che hanno dimostrato di consentire una riduzione dei valori pressori.