Sparpetuo

Ma ero indubbiamente debole. Ogni tanto mi sedevo su una panca. sui gradini di una scala, mi mancava il fiato, il cuore mi sbatteva in petto forte. A volte c’era un silenzio deprimente, a volte tutto si animava. Arrivarono verso mezzanotte nuovi degenti: un tale che era stato ac­coltellato, una che aveva tentato di uccidersi, un infartuato, uno colpito da ictus. (…)
Non mi ricordo quanto tempo ero stato in giro. Appena imboccai il corridoio sentii un lontano raspare rotto da tonfi, come di un animale prigioniero che fruga con le unghie in cerca d’una via d’uscita e di tanto in tanto dà un colpo a qualcosa con una zampa. È un suono che non di­menticherò più finché campo. (…)
Entrai nella mia stanza, i rumori venivano di lí. La camera era al buio, ma la porta chiusa del bagno poggiava su un segmento lucente. Andai verso il mio letto a tentoni, volevo sdraiarmi, ma una volta fatta l’abitudine alla penombra, diedi uno sguardo al letto dell’ingegnere e mi accorsi che era vuoto. Dove aveva trovato le energie per andare in bagno? Sedetti sul bordo del mio letto, avevo un po’ d’affanno. Accesi la luce sul comodino, nel bagno stava accadendo qualcosa, c’era un trambusto allarmante. Guardai di nuovo il letto dell’ingegnere. L’asta della flebo era lí, c’erano i tubicini penduli, il lenzuolo era sporco di sangue. Mi tirai su, pieno di ribrezzo, trascinai la mia asta fino al bagno, bussai, spalancai la porta.
L’ingegnere era riverso sul pavimento, la testa sotto il lavandino. Scalciava con violenza, tirava ginocchiate e pugni alla parete, la colpiva con la fronte, la graffiava con le unghie. Pareva che volesse arrampicarcisi o trapassarla o ficcarcisi dentro per trovare un rifugio sicuro. Il pavimento era bagnato di acqua e sangue. In quel suo arrancare scomposto, il vecchio non gemeva nemmeno, estraeva dal petto solo un respiro affannato come se stesse marciando in salita. Per le mattonelle del pavimento correva una saponetta, rosa mi pare, che l’ingegnere, con quei suoi spasmi ingovernabili, finiva per colpire continuamente o coi piedi o con le braccia. La saponetta schizzava di qua e di là tracciando nel velo d’acqua sanguigna una sorta di grafico labile del dolore. Mi colpì il rubinetto aperto che gorgogliava acqua nel lavandino colmo, lo spazzolino da denti in bilico sul bordo e lambito dall’acqua che tracimava, la pasta bianca disposta sulle setole.
Arretrai inorridito, gridai aiuto verso la gabbiola degli infermieri, una due tre volte, e poi tornai nel bagno, ma ero incapace di fare alcunché, blaterai solo, sostenendomi all’asta della flebo: ingegnere, che fa, venga, si calmi. Ero paralizzato da quello spettacolo di sparpetuo, cosí diceva mia nonna, sparpetuo, un vocabolo che usava per definire gli ultimi spasimi della vita, l’estremo rovinoso torcersi, tendersi, stridere, ronzare, ruotare delle bestie in agonia.
(…)

Da: Spavento,
di Domenico Starnone.
Einaudi, Torino 2009.
Pagine 214-216.