La paura è la cosa di cui ho più paura

Montaigne








Di paura si può morire




Il coraggioso, toccante film di un versatile autore quale è Ascanio Celestini - i precedenti sono l’omonimo libro e lo spettacolo teatrale – ci ripropone, con alti esiti lirici, una riflessione sulla violenza segregazionista dei “guardiani” della malattia mentale e dell’istituzione psichiatrica (di ieri e di oggi). Il filo conduttore de La pecora nera, titolo di dolente ironia (93 minuti, con Giorgio Tirabassi, Barbara Valmorin, Luisa De Santis, Maya Sansa), affonda radici e trae linfa nell’intuizione biswangeriana secondo cui la condizione umana nel suo originario essere-nel-mondo deve essere liberata dalla dicotomia classificatoria sano/alienato. Ambedue sono soggetti dello e nello stesso mondo, seppure il portatore di stigma (“il folle”) vi si rapporti attraverso modelli percettivi e comportamentali diversamente strutturati nell’unico modo consentito al suo essere qui ed ora. Perché se la follia intesa come condotta contraria alla ragione è deroga alla norma, esiste tuttavia un’altra follia, che viene prima delle regole e delle deroghe.

Ha scritto Umberto Galimberti: «L’ordine della spiegazione che dice come l’alterazione si è prodotta non è in grado di comprendere perché si è prodotta, dove il perché non rinvia ad una causa ma ad un senso». Se oggetto della scienza è, e deve essere, l’uomo intero – unità biografica e biologica – il compito primo è dunque quello di attenersi al senso dell’agire di quest’unicum d’anima e corpo.

«So’ santi i poveri matti, asini sotto le lenzuola cinesi, sudari di fabbricazione industriale, santa la suora che accanto alla lucetta del comodino suo si illumina come un ex voto. E il dottore è il più santo di tutti, è il capo dei santi, è Gesù Cristo». Così racconta Nicola – il protagonista – i suoi 35 anni di manicomio (l’Istituto) e nella sua testa e nel suo eloquio – a volte torrenziale, altre volte di muti sguardi impietriti – realtà e fantasia si alternano o si confondono generando suggestioni imprevedibili, accidentati percorsi, interpellanze radicali. «Il buio ci fa paura – dice Nicola – e di paura si può morire».

In una riuscita mediazione con lo specifico filmico – quantunque linguaggio a lui non consueto – Celestini, regista e attore, attinge preziosissimi vertici di commozione, frantumando la forma monologo e ridistribuendola tra fuori campo e interventi co-protagonistici che – autentici flussi di coscienza ininterrotti ed anarchici – bucano lo schermo per sincerità d’accenti e feriscono al cuore. Sono ossessioni: «i favolosi anni Sessanta, le ipersvendite al supermercato, le memorie di infanzia»; dissociazioni: «se mi addormento i cinesi mi tolgono un dente, mi clonano e mi mandano a comprar cocacola e a fare i rutti a pagamento»; rassegnati terrori quotidiani: «non serve manco di legare al letto e fare elettroshock e iniezioni; a una certa ora passa il cinese marziano, i matti interrompono il lavoro, prendono la pasticca e poi ricominciano a lavorare»; flussi, tutti, che suonano come suppliche d’aiuto. Oltre la pena quotidiana, esse ci dicono di una società ottusa ed ostile, nutrita di diseguaglianza ed ingiustizia, ci dicono dei nostri torti diffusi e di poche virtù. Ci ricordano il buio che ci circonda e la paura che ci fa morire.





Qui la pato-logia raggiunge la sua essenza: che non è da cercare nella malattia, ma in quel soffrire (pathos) che si fa parola (loghia). È in questa drammatica algologia che il film testimonia la sconfitta di una scienza incapace di ricomporre una lacerazione esistenziale; là dove, al contempo, l’arte fa assurgere ad espressione universale e salvifica la nostra vulnerabilità. Straziante rabdomanzia, quella di Celestini e della sua équipe. Ingeneroso sarebbe rimproverarle un eccesso accademico: ha invece un vigore amaro e solidale, un acume di affabulazione, una finezza di stupore nei dialoghi e nei gesti e una coerenza interiore che la rendono umanissima testimonianza estetica ed etica. E non è davvero poco in tempi di così rischioso disorientamento.




Cecilia Bruno