Libri: recensioni
… E non vuoi capire
che la tua coscienza significa appunto
gli altri dentro di te?

Luigi Pirandello: Ciascuno a suo modo
Bioetica, oggi
Le problematiche bioetiche coinvolgono in misura crescente la politica e i suoi decisori. Appare tempestiva, dunque, la pubblicazione di un libro che all’attualità associa altre due caratteristiche: il prestigio della fonte (il MIT) e l’imparzialità: Progress in bioethics: science, policy and politics. Edited by Jonathan D. Moreno and Sam Berger. Pp. 308. Published by MIT Press, Cambridge, Ma., 2010. Doll. 29.00. ISBN 13-978-0-2621-3488-0.
Vuole essere un contributo all’approfondimento della materia, contributo ispirato dal nobile monito del sapiente: «audi alteram partem». Ed in tempi in cui, spesso, il contrasto si sostituisce al confronto, l’arroganza al convincimento, la faziosità alla tolleranza, questa disponibilità all’ascolto delle altrui ragioni può essere considerata merito non da poco. Il libro comprende, tra gli altri, saggi di Callhan, Caplan, Wolpe, Shapiro, Lempert: redatti con sorveglianza di toni ed eleganza di stile; ognuno dice le sue ragioni senza demonizzare l’eventuale dissenso. Talché al lettore – si consideri egli di destra o di sinistra, progressista o conservatore – non dovrebbe essere facile sottrarsi alla soddisfazione di possedere un ventaglio di opinioni nel cui ambito porre ulteriori interpellanze, rinvenire eventuali risposte ed esercitare le proprie capacità di scelta (si ipotizzi una categoria di lettore “aperto”: né troppo specialista né troppo partigiano).
I capitoli sono organizzati in cinque sezioni, ciascuna salomonicamente rispettosa sia della tradizione sia delle nuove frontiere. Nella prima sezione, “Bioethics and Politics”, Berger e Moreno approfondiscono il significato di bioetica progressista, confutandone l’accentuazione empiristica a vantaggio, piuttosto, dei “fondamenti” dell’etica medica, fondamenti – a loro giudizio – non negoziabili. Così che una policy pubblica ispirata da un’autentica bioetica “avanzata” viene ricondotta ad un approccio che privilegi i valori di un ottimismo aperto alla critica e quelli di dignità e trasparenza della persona. A questa visione fa da contraltare il capitolo successivo, in cui Lempert auspica un’etica libera da sovrastrutture e fondata esclusivamente su specifici metodi di analisi.
Charo introduce la sezione seconda con una messa a punto dei rapporti tra bioetica e professionismo politico, rapporti che a suo parere non possono che nutrire una normativa incline allo status quo. Tale prevalenza di statuto moderato – commenta Hinsch nel capitolo che segue – funziona da calmiere per le fughe in avanti di teorici ed operatori eccessivamente radicali.
La terza parte del libro presenta critiche e proposte. Wolpe ci mette in guardia di fronte al rischio di una eccessiva burocratizzazione degli istituiti bioetici. Evans riflette su funzioni e limiti dei Comitati locali di bioetica (troppa parcellizzazione?).
A questo punto il volume promette di offrire le pagine più interessanti, perché il titolo della sezione, la quarta, fa riferimento al rapporto tra bioetica e biotecnologia (tema incandescente). Però il registro di equidistanza non cambia: un capitolo di Hughes avalla l’impiego diffuso delle biotecniche, sottolineandone i vantaggi; dopo di questo, le pagine di Darnovsky raffreddano l’entusiasmo, denunciando dubbi, eccessi, rischio di spersonalizzazione, contrasti istituzionali. Qui il lettore esce un po’ frastornato dal ping-pong di argomentazioni.
Ed in effetti, un dibattito così ostinatamente bloccato in una dialettica “ecumenica” del sì e del no, a fronte di interpellanze quotidiane tutt’altro che astratte – “in carne ed ossa” ed innegabilmente crescenti per frequenza e importanza – potrebbe suscitare il sospetto di esercitazione accademica. Ma ecco che un  autorevole intervento (Caplan) giunge a trarre una conclusione, idonea (?) a “tagliar la testa del toro”; rassicurando il lettore sulla legittimità di così tante bioetiche, anche se, a volte, appaiono inconciliabili. L’incapacità di trascendere l’ideologia – afferma Caplan – è, infatti, parte integrante della bioetica come categoria filosofica; ne costituisce, quindi, un carattere ineliminabile, da accettare senza scandalo, pur se non condivisibile in circostanze contingenti.
Così il cerchio si chiude. Dopo tante pagine di interrogativi, risposte, mezze risposte, dubbi rivalutati e confutabili certezze, sembra che in questo mosaico a più mani il temuto (ma mai dichiarato) relativismo, quantunque messo alla porta, sia infine rientrato dalla finestra. Coerente epilogo, peraltro, per un’opera che (come premesso) persegue la finalità più che di provare una tesi, di proporre la titolarità di differenti opzioni culturali e di comportamento.

Chiara Fedeli
Di chi è il mio corpo?
Il debutto in libreria di Rebecca Skloot con il suo The immortal life of Henrietta Lacks (pp. 369. Crown Publishing Group, New York, 2010. Euro 19.90. ISBN 1400052173) costituisce una sfida a facili classificazioni. In una equilibrata miscela di sentimento, conoscenze scientifiche, vocazione investigativa e talento di romanziere, l’Autrice costruisce, infatti, un testo che ben combina storie di vita vissuta, pagine di dottrina clinica, misteri da thriller, problematiche di medicina legale. Questo approccio a largo spettro, tuttavia, non ha impoverito la qualità del risultato, che è, insieme, singolare, a volte malinconico, spesso stimolante. Al centro della vicenda sono le cellule HeLa. Esse sono oggi coltivate in laboratori di tutto il mondo e, sebbene siano trattate come cellule tumorali, posseggono caratteristiche uniche che le differenziano da altre di questo tipo. Le HeLa sono molto più resistenti e sono in grado di sopravvivere in condizioni che altre non possono tollerare, in grado di vivere per un periodo relativamente lungo anche in assenza di terreno di coltura. Possono dividersi molte più volte rispetto alle altre cellule e ciò dipende da una mutazione della telomerasi che previene l’accorciamento del telomero durante la replicazione.
La storia delle HeLa comincia nel 1951, quando Henrietta Lacks, una afro-americana di 31 anni (dalle cui iniziali onomastiche deriva la denominazione delle cellule) viene ricoverata al Johns Hopkins per un tumore della cervice. Ad insaputa della paziente, lembi di tessuto neoplastico prelevato ai fini diagnostici vengono trasmessi al laboratorio di George Gey, un ricercatore che, da anni, tenta la coltura in vitro di cellule umane. La Lacks muore il 4 ottobre dello stesso anno; nel frattempo – senza che la famiglia ne sia informata – le cellule di Henriette crescono, vive e vitalissime, divenendo il capostipite “storico” di innumeri generazioni e di inimmaginabili profitti industriali.
A quel tempo, peraltro, non esistevano leggi che obbligavano ad informare il paziente su eventuali utilizzi di materiale biologico prelevato durante interventi, biopsie o analisi di liquidi organici. Negli Stati Uniti tale materiale poteva essere usato a discrezione dell’Istituto dove il prelievo era avvenuto senza che questi potesse vantare diritti su eventuali proventi, come sancito dalla sentenza della suprema corte di giustizia della California del 9 luglio del 1990, che dichiarò l’ammissibilità della commercializzazione del materiale biologico prelevato da pazienti, previo consenso informato del paziente stesso.
I primi tentativi di proteggere l’anonimato della Lacks terminarono subito dopo la sua morte: infatti, pochi anni dopo, la stampa rivelò il nome della malata da cui erano state prelevate le cellule. Ma i Lacks non ne ebbero alcun vantaggio finanziario. Il libro descrive l’affascinante traiettoria delle inconsuete protagoniste: cellule che da una cervice malata finiscono in un laboratorio a corto di mezzi finanziari e da qui partono e si diffondono – nel mondo – in migliaia di Centri  clinici e di ricerca e subito dopo nelle fabbriche della grande industria, sino a contribuire sia ad alcuni importanti traguardi scientifici del XX secolo: vaccino antipolio, chemioterapia mirata, mappatura genetica, sia a cospicui introiti di denaro.
Lo sguardo della Skloot – al di là dell’orizzonte biologico – non ignora il terreno umanissimo della vicenda, partecipe delle problematiche sofferte. Spiccano le questioni etiche a proposito del consenso “informato”, della libertà e dei limiti  della ricerca scientifica, della discrezionalità delle banche biologiche. Ma significative sono anche le sottolineature dell’insufficiente rapporto fiduciario tra medico e malato, dell’apartheid etnico (siamo negli anni Cinquanta), della sofferenza di Debora Lacks, la giovane figlia di Henrietta, tormentata dalla nostalgia per una madre tanto amata quanto poco conosciuta e goduta. Dall’intreccio di queste cronache, storie e sentimenti, l’Autrice ricava un tessuto variegato e cangiante che, il più delle volte, riesce a coinvolgere il lettore, interessandolo e commuovendolo. Questo, tuttavia,  non avviene sempre, a causa di una discutibile scelta d’Autore: un intenzionale e troppo insistente impiego del dialetto nei dialoghi e nelle interviste con i familiari di Henriette Lacks, naïveté che oltre a non agevolare la comprensione dei contenuti, rischia di falsare la prospettiva di alcune situazioni e la fisionomia di personaggi non secondari. Tuttavia, nel complesso, “The immortal life of Henrietta Lacks” è una lettura interessante, soprattutto per gli interrogativi che sollecita: siamo noi i proprietari del nostro corpo? E in quale misura possiamo disporne? E, nel caso, chi sarebbe il legittimo beneficiario di eventuali royalties derivanti da utilizzo scientifico di tutto o di parti del nostro corpo?
Il libro conferma, sorprendentemente, che in quest’ambito non molto è cambiato dalla metà del secolo scorso. Come ci documenta la postfazione, una normativa tuttora assai permissiva e il consolidato privilegio dei diritti della ricerca rispetto a quelli dei donatori, rendono questi ultimi – ancor oggi – l’anello debole del rapporto.

Caterina Roghi



Ogni morte d’uomo mi diminuisce,
perché io partecipo dell’umanità;
e dunque non mandare mai a chiedere
per chi suona la campana: essa suona per te.

John Donne
Vivere il nostro destino
Pur consapevoli della nostra finitudine, noi – i superstiti – ci scopriamo disarmati di fronte alla morte di una persona cara. L’evento ci precipita in una realtà altra, popolata da interrogativi colpevolizzanti: perché proprio a me è data una così grave afflizione? Si tratta, forse, di un castigo per una colpa misconosciuta? E perché l’involontarietà non mi garantisce l’innocenza? Sono interpellanze che ci opprimono, sfide che per essere fronteggiate invocano soccorso da parte di amici, di autoanalisi, di gruppi di sostegno, di psicoterapeuti. Nel suo libro How we grieve: relearning the world (pp. 202, Oxford University Press, New York 2010. Doll. 26,95. ISBN 13-978-0-1953-9769-0), Thomas Attig tenta di aiutare il lettore a “comprendere” l’esperienza del lutto: sia di chi lo ha sofferto, sia di coloro che con lui si trovano a confrontarvisi: familiari, amici, terapeuti. Sei capitoli veicolano un messaggio sintetizzato icasticamente nell’illustrazione di copertina: l’acre ritratto della “Morte nella camera dell’ammalato” affidatoci dall’arte di Edvard Munch. Nel dipinto, gli astanti appaiono isolati uno dall’altro, ciascuno basito più che dal dolore, dal pensiero del comune destino che li attende.
E, negli stessi anni di Munch, un altro grande spirito – della letteratura – ci offriva un’immagine analoga del modo con cui noi, i sopravviventi, tentiamo di esorcizzare la paura del “grande misfatto”: «Ivan Il’icˇ capiva che stava morendo, ed era in uno stato di continua disperazione. Nel profondo del suo cuore sapeva di stare morendo, ma non solo non era abituato al pensiero, semplicemente non arrivava a farlo suo. Il sillogismo imparato sulla “Logica” di Kiezewetter: “Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, dunque Caio è mortale” gli era sempre parso inconfutabile finché era applicato a Caio, ma non certo se applicato a lui stesso: che Caio – uomo astratto – fosse mortale, era perfettamente esatto; ma lui non era Caio, non era un uomo astratto, ma una creatura assolutamente diversa da tutte le altre» (Tolstoj, “La morte di Ivan Il’i cˇ”).
Attig comincia il suo libro raccontandoci sei storie di lutto e disperazione: un adolescente avviato alla droga dalla precoce morte del padre, una giovane mamma che non sopravvive al primo parto, una famiglia distrutta da un maledetto incidente che le uccide i tre figli, un doppio suicidio di madre e figlia, attoniti genitori innanzi al loro bimbo assassinato da un proiettile vagante, un’annichilita testimone della straziante agonia di un amato compagno.
Dolente casistica, che sollecita l’emozione del lettore e che vuole anche suggerire un approccio più razionale alle problematiche sottese all’evento del lutto. Attig scava, infatti, con metodica deduttività i particolari della propria esperienza per risalire alle chiavi interpretative della psicologia della deprivazione. A questo fine, si rifà alla distinzione classica tra lutto e malinconia, la prima categoria configurandosi come obiettiva (sofferenza indotta dall’esterno) diversamente dalla seconda: che è risposta interiore, soggettiva, e non di rado risorsa palliativa d’una impotenza a reagire.
Interrogarsi sulle singole reazioni dei superstiti soggetti al lutto è esigenza cruciale del caregiver per risolvere dubbi ed attuare strategie di supporto. A quest’ultimo, a colui che assiste il sofferente, il terzo capitolo del libro raccomanda di tenere in primaria considerazione sia i modi e la qualità di vita, sia la soglia di vulnerabilità familiare prima della morte di un componente.
Gli ultimi tre capitoli sottolineano l’importanza di una rilettura della separazione. Nelle pagine dedicate a “La riconciliazione con il mondo”, gli Autori affidano ai dolenti un messaggio preliminare, la necessità di una libera autoanalisi: della propria soggettività, dell’ambiente, della cultura che li ha nutriti, del loro rapportarsi con la vita altrui. Un tale esercizio in prima persona può insieme costituire un sussidio consolatorio e uno strumento di rafforzamento di personalità: una vera e propria rifondazione dell’io. Opportuno spazio è anche dedicato alla revisione del “passato” (prossimo e meno prossimo) condiviso (o meno) con chi ci ha lasciato per sempre. “Margaret”, ad esempio, riesce solo ora a veder chiaro i lati oscuri di un marito arrogante ed egoista. Ed avverte, stupefatta, una sensazione di sollievo liberatorio: dal buio di una depressione fattizia ad una riappropriazione di realtà che la riappacifica con l’esistenza.
Per rendere l’idea delle numerose trasformazioni indotte da un lutto – fisiche, emozionali, sociali e intellettuali – sia nel singolo sia nel suo rapportarsi col mondo esterno, l’Autore ricorre con efficacia alla metafora della tela di ragno e conclude che è possibile riuscire ad utilmente districarsene, allorché si pervenga ad un traguardo alto: sostituire la memoria attiva della condivisione alla nostalgia inerte della perdita. Giova qui ripetere quanto scritto, di recente,  su questa stessa rivista: «È in questo richiamo/invito alla condivisione che risalta la virtù del libro: idonea a negare il riduzionismo biologico entro cui l’esperienza del soffrire viene solitamente circoscritta, così derubricando ad episodio del singolo la valenza di comune destino».
Il racconto di Attig, nutrito di quotidianità concreta, tende, anche nella forma, ad evitare preponderanti concessioni a tecnicalità specialistiche (mediche, psicologiche, psicoanalitiche), così da prestarsi a lettura ed adesioni non elitarie. Diremmo che esso – mix di scienza, cronaca e storia – potrebbe collocarsi in quella linea di scrittura che si usa definire documentaria: una linea che nel moderno giunge da Flaubert a Bulgakov, e, attraverso il New Journalism di Wolfe, alla docu-fiction di Oliver Sachs. E a ben vedere, “How we grieve: relearning the world”, così fedele ad eventi reali, a testimonianze vissute, cattura chi lo avvicina soprattutto in virtù delle categorie portanti del romanzesco: l’incertezza, la paura, la violenza; in breve: la vita e la morte. Nel mezzo di queste due polarità – il principio e la fine – sta la fragilità d’ognuno: la vulnerabilità e l’esperienza del dolore.
A proposito di docufiction, si è incrementato recentemente un modo particolare di affidare agli altri un proprio dolore: l’idea di una letteratura che salva, e dello scrittore come colui che è capace di una così provvidenziale oblazione. Non pochi, anche recenti, sono gli esempi di questa speciale elaborazione del lutto.



Da ultimo, un toccante romanzo di Emmanuel Carrère – “Vite che non sono le mie” – ove l’autore si fa portavoce di penosi lacerti di esistenze altrui, affidati alla sua capacità di accoglierli e dar loro un senso: amici (i genitori di una bimba travolta dallo tsunami), familiari (la sua compagna, cui un tumore ha sottratto una amata sorella) gli affidano il proprio dolore, affinché lui, lo scrittore, glielo restituisca integro e “significato” da una ragione. «Mi avevano fatto una commessa, bastava rispondere sì», scrive Carrère; perché era impossibile rifiutarlo, quel dolore, che altrimenti – non raccolto – avrebbe continuato a giacere come relitto inerte e mortificato. Così lo scrittore, lui che scrive di quelle vite, soffre il dolore dei sopravvissuti, elabora, sodale, il lutto della perdita, lo vive nella propria carne, condividendo un comune destino. Ma anche lui è un salvato; ce lo confermano le ultime righe del nobile, balsamico sodalizio: «lei piange, piange anche lui, c’è un che di tenero nel piangere insieme… ed io, sapendo quanto sia fragile, sono felice; vorrei lenire quello che può essere lenito».

Benedetta Marra