Libri: recensioni
La perdita dell’innocenza:
malattia e invenzione letteraria
Perché assistiamo a questo crescente incremento di letteratura (saggistica e narrativa) su malattia, medici e ospedali? Fra i titoli più recenti sono firme italiane e non: cronache di ardui vissuti quali quelle di Valerio Evangelisti con il racconto “Day Hospital”, o di Denton Welch con il romanzo Voce da una nube (edito da Casagrande); esperienze autobiografiche come “Volevo essere una farfalla” di Michela Marzano e La vita è una prova d’orchestra di Elena Loewenthal, pubblicato da Einaudi. Sono soltanto alcuni esempi; per essi – e per i molti altri – il comune denominatore potrebbe essere un desiderio di testimonianza: perché e in che modo la malattia appartiene alla consapevolezza della nostra finitudine; e perché raccontarla con i suoi codici e tempi, con commozione e rispetto, significhi tentare di ricomporre i pezzi dell’esistenza. Scrive la Loewenthal: «Ho indossato il camice da volontaria e sono entrata in silenzio nel mondo della malattia. Per più di un anno ho frequentato ospedali e sale d’attesa, case dove vivono malati, istituti di recupero. È stata un’esperienza durissima. Ma forte e dolce al tempo stesso». Un’esperienza multiforme, spesso sorprendente, costantemente dolorosa, suscitatrice di compatimenti e incertezze; fra le quali una che dà il titolo al libro: «La vita è un esperimento, una prova. Una prova d’orchestra e neanche l’ultima». Ne è conferma la sintesi di Maurice – protagonista ed alter ego dell’Autore di un altro toccante documento: “Voce da una nube” (Welch) solitudine di un diciottenne immobilizzato in corsia: «… Una volta ancora, fui incapace di comprendere i significati, incapace di spiegare una sola cosa di quello che vedevo o sentivo. Mi accorsi che stavo tremando; quindi, con quel tono di voce saldo e compassato che si riserva alle catastrofi, dissi all’infermiera: “Non conosco il senso di niente”». Il senso di niente: forse perché – come inquietano i versi di Magrelli – «la malattia conduce il corpo lontano, troppo distante da essere udito?». Lontano, sulle “panche di crudissimo legno” evocate da Alda Merini, altra grande malata? «Viene il mattino azzurro / nel nostro padiglione: / sulle panche di sole e di crudissimo legno / siedono gli ammalati, / non hanno nulla da dire / odorano anch’essi di legno, / non hanno ossa né vita, / stan lì con le mani / inchiodate nel grembo / a guardare fissi la terra».



Ecco, dunque, la poesia a dar loro parola: immaginario connubio tra Erato ed Esculapio che potrebbe essere un incontro d’amore: improvvisa scintilla, consonanza a volte misteriosa. O, piuttosto, matrimonio di convenienza? Qualcosa che arricchisce l’un l’altro soggetto, riscattando ciascuno – l’arte e la scienza – dalla propria solitudine? E se fosse, invece, un gesto di riparazione, sublimare la quotidianità dell’imperfezione nell’eternità del bello? Integrare l’esprit de géométrie con l’esprit de finesse?
Tuttavia, se da una parte c’è la fiducia, essenziale negli scrittori, che il mondo esista – per dirla con Mallarmé – per sfociare in un libro, dall’altra permane la consapevolezza che ad ostacolare quell’impresa sia la Musa dell’impotenza: la nostra irredimibile vulnerabilità. Perché – dopo aver toccato con mano la capacità creativa del linguaggio (la letteratura), in quel momento accade che autore e lettore (medico e malato) non possano più confidare nell’innocenza del mondo. Letteratura e medicina vivono ambedue nella stretta di questa sorte, remota e contraddittoria: accettare che i limiti della creazione umana siano invalicabili, a differenza dell’infinita creazione del tutto, eppure spingersi quotidianamente verso quei confini, contando sui temerari talenti della speranza.
Ad essa – alla speranza, a questo “rischio da correre”, come la definì il Bernanos – è difficile non richiamarsi, leggendo altre due confessioni venute alla luce nelle ultime settimane: Volevo essere una farfalla, di Michela Marzano (edizione Mondadori) è un richiamo alla fiducia per chi soffre di anoressia; la fiducia di uscire dal tunnel. «Raccontare la mia storia – ha commentato l’Autrice – è diventata un necessità. Perché l’anoressia non è una cosa di cui ci si deve vergognare. (Essa) porta allo scoperto quello che fa veramente male dentro: la paura, il vuoto, l’abbandono, la violenza, la collera. È un modo per proteggersi da tutto ciò che sfugge al controllo, anche se a forza di proteggersi si rischia di morire.



E per imparare a vivere si deve avere il coraggio di dare un senso a questa sofferenza. Certo, per uscirne non esistono formule magiche… Ma esiste qualcosa che è più forte delle semplici formule: la forza delle parole».
La parola disvela, umanizza, recupera l’ascolto di se stessi e dell’altro.
È quanto ci ricorda Eugenio Borna: «Non ci sono… emozioni e modi di essere che non abbiano bisogno di interpretazione (di ermeneutica): intesa a cogliere e a portare alla luce del senso i significati nascosti nella vita: nella vita segnata dalla malattia e nella vita non malata». Un’asta drittissima – insegnava già Seneca – quando è immersa nell’acqua appare a chi guarda curva o spezzata. Ciò che conta non è solo che cosa guardi, ma in che modo la guardi. E dunque, «la strada della ri-umanizzazione della medicina deve partire dalla stessa antropologia medica; in particolare, se non riconosciamo che – oltre ad una intelligenza strumentale – possa esserci un’intelligenza che si interroga sui fini e sul senso della quantità, noi cospiriamo contro la realtà, diffondendo un atteggiamento di manipolazione nei confronti dell’uomo stesso» (Galimberti). Poiché nessuna statistica elaborata meccanicamente dall’osservazione medica è in grado di fornire una comprensione adeguata della definizione di “cattiva salute”, dato che il dolore – osservò Wittgenstein – ha a che fare con l’autopercezione. Se sentiamo il dolore, abbiamo dolore; se non sentiamo dolore, nessuno osservatore esterno può ragionevolmente opporsi all’assunto che noi non abbiamo dolore. Al pari del significato d’un testo, quello della narrazione di un malattia non risiede solo nel testo stesso né nel lettore/ascoltatore, ma è, piuttosto, un prodotto sociale; le narrazioni «mettono al congiuntivo la realtà».
La parola: la stessa spinta che ha animato Valerio Evangelisti in una lucida, tagliente cronaca della sua battaglia contro il linfoma (Day Hospital). Così la riassume nel suo diario: «22 settembre 2010. Quella mattina fui dimesso dal Day Hospital dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna, reparto di Ematologia. La diagnosi era confermata: remissione completa. Ogni quattro-cinque mesi avrei dovuto sottopormi a visite di controllo. La successiva era prevista per il 12 gennaio 2011. Sembrava, insomma, che io ce l’avessi fatta. La chemioterapia mi dava ancora fastidi secondari, tipo il torpore ai piedi cui avevo fatto l’abitudine […]. Niente più flebo, niente più iniezioni: avevano finito di bucherellarmi! So tuttavia che continueranno a farmi punture, periodicamente. Da bambino ne avevo paura, adesso non le avverto nemmeno. A mio parere, hanno cambiato il tipo di aghi. Sembrerà demenziale, ma so che mi mancherà il Day Hospital. Un luogo tutto sommato confortevole, dove c’è gente che si prende cura di te. Un’enorme vetrata dava su un giardino alberato. Ho visto le piante coperte di neve, poi la neve sciogliersi, e da ultimo il cielo scurirsi. Spettacolo doloroso vedere una mamma passare con una bimba attaccata alla flebo, e intenta, malgrado questo, a giocare. Il pensiero istintivo è stato che avrei volentieri scambiato la mia possibilità di vivere con quella della bimba. Pensiero stupidissimo, lo so. La vita è una partita a dadi».




Da questi incontri tra letteratura e medicina, tra narrazione e malattia, tra immaginazione e realtà, sembra giungerci un suggerimento preliminare: ispiratore di risposte che, affrancate dalla tutela delle certezze, accettino la sfida della possibilità. È forse un caso che gli itinerari del medico e dello scrittore (del malato e del lettore) procedano entrambi lungo i passaggi canonici della ricerca, della parola e dell’incontro? Una ricerca umanissima e perciò rischiosa e sofferta. Risuonano – i nostri passi – negli interrogativi alti di Luzi: «Dove mi porti, viaggio, verso la guarigione? Da me stesso o da che altro male?»

Chiara Fedeli
Anestesia pediatrica: una bibbia
Nel novembre 2009, la Facoltà di Medicina dell’Università di Harvard è stata colpita da un grave lutto: la scomparsa di Robert Moors Smith, già primario di anestesia presso il Children Hospital di Boston, considerato unanimemente come il padre dell’anestesiologia pediatrica, dottrina e pratica sublimate – per merito suo e della sua Scuola – dal convincimento che «i bambini sono molto di più che “adulti in fase di crescita”». A tale principio Smith ha ispirato l’intera sua attività di docente e clinico, contribuendo anche alla valorizzazione della disciplina fino a promuoverla al rango di autonoma specialità: accademica e professionale.
Il suo trattato, “Anesthesia for Infants and Children”, vide la luce nel lontano 1959, scritto tutto soltanto da lui e così le successive edizioni, fino alla quarta, del 1980. La quinta inaugurò il tempo delle stesure a più mani e, dal 1990, i collaboratori furono numerosi, tuttavia sempre scelti e coordinati dall’autorevole pioniere. La cui impronta – l’ispirazione – resta, immutabile, come pregio peculiare, anche in quest’ultima recente (ottava) riproposta: Smith’s Anesthesia for Infants and Children. A cura di Peter J Davis, Frankliyn P. Cladis, Etsuro K. Motoyama. Pagine 1376. Elsevier/Saunders: Philadelphia 2011. Dollari 229. ISBN 13:978-0-3230-6612-9. Organizzato in 42 capitoli, con il contributo di ben 108 Autori – di vario, integrato retroterra culturale – questo audace bibliosauro si pone, ancor oggi nell’era dell’e-book, quale pietra miliare della materia; gli argomenti sono trattati a dovere: estensivamente e in profondità, e un ampio, dettagliato indice di oltre 50 pagine aiuta il lettore a reperirli agevolmente. Non altrettanto facile (occorre segnalarlo per debito di obiettività) risulta la consultazione delle liste bibliografiche: per risalire ai dati completi della fonte è necessario ricorrere alla rete. Si tratta di un’innovazione di cui non si avverte l’opportunità, considerandone l’onere supplementare in termini di impegno di tempo e di finanze. A fronte di questo difetto, lode – invece – ad un pregio inedito: l’esteso impiego del colore; quasi in ogni pagina (e sono più di mille e trecento!) ci si imbatte in una figura o in una tabella a colori; non solo, tutta la nervatura grafica del libro risulta progettata e realizzata in un’ottica policromatica. Ne discende, oltre che un arricchimento estetico, anche una più immediata fruibilità. Sulla scia di tale intento di ammodernamento, il DVD allegato alle precedenti edizioni non poteva non cedere il passo alla più versatile e attuale gamma di ausilii web. Agli acquirenti sarà, infatti, sufficiente registrarsi sul sito dell’Editore attivando il codice che correda la loro copia del libro, per ottenere accesso ad un opulentissimo web di ulteriori informazioni, chiarimenti e dettagli, particolarmente utili a chi abbia necessità di approfondire le conoscenze su non poche aree iper-specialistiche: quali, ad esempio, la ventilazione respiratoria del bambino, la cardiopatia pediatrica, l’anestesia regionale. Pure le appendici non si trovano nella copia cartacea: sono disponibili online. Includendo sia una sinossi di farmacoterapia pediatrica con notizie preziosamente esaustive (indicazioni, dosaggi, effetti collaterali), sia un indice delle sindromi che comportano interventi di anestesia, esse risultano di grande utilità. Come anche gli esercizi di verifica mediante quesiti a risposta multipla che, formulati avvedutamente, costituiscono un esempio paradigmatico di sussidio didattico.



Si ha, insomma, una sensazione – presto confermata – di un vasto, coraggioso aggiornamento, oltre che nella forma, altresì negli Autori e nei contenuti. Si leggano, a questo proposito, i nuovi capitoli sullo sviluppo comportamentale, sull’anestesia nella pratica neonatologica e quello – ampio, lucidissimo, massimamente attuale – sulle cardiopatie congenite: costituiscono una testimonianza – addirittura emozionante – di coerente fedeltà al “credo smithiano” da parte dei suoi valenti epigoni: incrementare il bagaglio culturale non soltanto degli specialisti contro il dolore dei bambini, ma altresì il sapere di tutti coloro che, medici e chirurghi, hanno a cuore la salvaguardia delle generazioni a venire.
Quando, più di mezzo secolo fa, Robert Moors Smith diede alla luce questa creatura, essa non tardò a meritare l’epiteto di “Bibbia” dell’argomento. Ben vi figurava, come oggi (con gli indispensabili cambiamenti), un importante capitolo sulla storia dell’anestesia pediatrica, a firma dell’ideatore dell’opera e del suo primo collaboratore Mark Rockoff, capitolo il cui livello di qualità ne fa, a nostro avviso, una lettura basilare per la formazione del medico. Ed infatti vi è in nuce lo spirito e il metodo dell’intera opera: un panorama di un’area di studio in costante espansione, mantenendo la prospettiva di qualcuno che si è votato alla presa in carico del singolo paziente, prima ancora di studiare definizioni e creare nominalismi.

Franco D’Angelo