Parte II. Evidenze scientifiche nelle insufficienze croniche d’organo “end-stage”.
Documento di consenso per una pianificazione condivisa delle scelte di cura
Giuseppe R. Gristina1, Luciano Orsi2, Annalisa Carlucci3, Ignazio R. Causarano4, Marco Formica5, Massimo Romanò6 per il Gruppo di Lavoro Insufficienze Croniche d’Organo*
Documento condiviso da: Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri (AIPO); Associazione Nazionale Infermieri di Area Critica (ANIARTI); Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO); Associazione Italiana Gastroenterologi ed Endoscopisti Ospedalieri; Italian Resuscitation Council (IRC); Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI); Società Italiana Cure Palliative (SICP); Società Italiana Medicina Emergenza Urgenza (SIMEU); Società Italiana Medicina Generale (SIMG); Società Italiana Nefrologia (SIN); Gruppo di Studio Bioetica Società Italiana Neurologia (SIN-GdB)

Riassunto. L’analisi della letteratura condotta in Medline dal Gruppo di Lavoro (GdL) nel biennio 2012-2013 ha evidenziato un esiguo numero e una limitata qualità degli studi disponibili per definire criteri clinici utili a individuare clinicamente i malati “end-stage” e definire l’approccio terapeutico più appropriato (intensivo vs palliativo). Questo risultato è almeno in parte spiegabile con la variabilità delle differenti risposte individuali di questi malati ai trattamenti e con la complessa relazione, difficilmente quantificabile, che lega l’insufficienza cronica d’organo e le possibili opzioni terapeutiche alle storie individuali di malattia e alle molteplici situazioni in riferimento alle quali i malati compiono le loro scelte. Ritenendo che il ragionamento clinico e l’esperienza individuale non possano essere sostituiti dalla rigida ricerca metodologica – come peraltro sostenuto nella definizione di evidence-based medicine – il GdL ha scelto una metodologia di lavoro non basata sul grading delle prove di efficacia, ma su un processo di peer review condotto da un panel di esperti esterni al GdL, al fine di limitare quanto più possibile i rischi impliciti in una revisione tradizionale. L’articolo discute l’insieme dei parametri clinici scaturiti dall’analisi della letteratura effettuata dal GdL e dal processo di peer reviewing che, con i limiti sopra citati, non rappresentano per ciascuna forma d’insufficienza cronica d’organo il cutoff per scegliere tra due opzioni di cura (intensiva vs palliativa), ma il punto di partenza per l’attivazione del percorso clinico-assistenziale proposto nella parte I.

Parole chiave. Cure intensive, cure palliative, cure palliative simultanee, end-stage, insufficienza cronica d’organo, pianificazione anticipata delle cure, terminalità.

Part II. Scientific evidence in end-stage chronic organ failure. A position paper on shared care planning.

Summary. The therapeutic options related to chronic organ failure are interconnected on one end to the variability of human biological responses and the personal history and choices of the chronically ill patient on one hand, and with the variable human answers to therapies on the other hand. All these aspects may explain the small number and low quality of studies aimed to define the clinical criteria useful in identifying end-stage chronically ill patients, as highlighted through the 2012-2013 Medline survey performed by the task force. These results prevented the grading of scientific evidence. However, taking into account the evidence based medicine definition, the task force believes the clinical reasoning and the individual experience of clinicians as well as the patients and families preferences cannot be replaced “tout court” with a strict methodological research. Accordingly, the working method selected by the task force members was to draw up a set of clinical parameters based on the available scientific literature, submitting it to a peer review process carried out by an expert panel. This paper discusses a set of clinical parameters included in the clinical decision-making algorithm and shared by nine medical societies. For each chronic organ failure these clinical parameters should be intended not as a rigid cutoff system to make a choice between two selected care options (intensive vs palliative), rather as the starting point for a joint and careful consideration regarding the opportunity to adopt the clinical decision-making algorithm care proposed in Part I.

Key words. Advance care planning, chronic organ failure, end-stage, intensive care, palliative care, simultaneous care, terminality.

Introduzione
Le cure palliative
Le cure palliative (CP) nelle patologie non oncologiche non si differenziano da quelle praticate nei malati oncologici. La sovrapposizione dei sintomi fisici e la somiglianza dei bisogni psicologici, sociali e spirituali rendono l’approccio palliativo applicabile a tutte le fasi avanzate e terminali delle patologie cronico-degenerative.
Anche nei malati cronici non oncologici con malattia in fase di rapida progressione risulta eticamente doveroso e clinicamente appropriato evitare terapie sproporzionate per eccesso, avviando un tempestivo approccio palliativo con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita residua del malato e della sua famiglia.
Tra le CP simultanee (Simultaneous Care) e le CP di fine vita (End-of-Life Care)1 non esiste un limite netto, trattandosi di un continuum di cura sostenuto dall’unicità dell’équipe specialistica dedicata (gli specialisti d’organo e i medici di medicina generale) e orientato all’advance care planning.
L’obiettivo finale è quello di controllare la sofferenza globale del malato per permettergli di affrontare le scelte di fine vita che desidera gestire nell’ambito dei diversi setting di cura costituenti la Rete Locale di CP (ambulatorio di CP, consulenza palliativa in ospedale o in RSA, assistenza palliativa domiciliare, hospice) sostenuto da un nucleo di affetti familiari e amicali orientati ad assecondare i suoi bisogni2,3.
Si può quindi parlare di una buona condizione della fase “end-stage” quando questa è risultata priva di sofferenza per i malati, le famiglie e i sanitari, è avvenuta in sintonia con le volontà del malato e della famiglia ed è stata ragionevolmente coerente con gli standard clinici, culturali ed etici2.
Nell’approccio palliativo una grande rilevanza è attribuita all’informazione, comunicazione e relazione con il malato al fine di permettergli una scelta informata e condivisa delle alternative terapeutiche, e la formulazione di direttive anticipate nel contesto di un advance care planning maturato in un rapporto con l’équipe fondato sull’ascolto attivo dei bisogni razionali (decisioni) e sulla gestione di quelli emotivi.
Per ottenere questo è fondamentale che, soprattutto nella fase di cure simultanee ci sia una stretta collaborazione fra l’équipe specialistica che ha curato il malato in precedenza e l’équipe palliativa dedicata, in modo che il malato non subisca bruschi passaggi di cura e, anzi, percepisca una continuità assistenziale e relazionale, anche per quanto riguarda gli aspetti informativi e di comunicazione.
Rilevante risulta il contributo che i palliativisti possono fornire agli specialisti d’organo e ai medici di medicina generale nella comunicazione delle cattive notizie, nella gestione delle emozioni e nella gestione di eventuali contrasti intra-familiari sulle scelte di trattamento.
Le CP possono portare a vantaggi certi nell’ottimizzazione delle risorse limitando interventi diagnostici e terapeutici non proporzionati e rimodulando gli obiettivi di salute condividendoli con il malato e/o i suoi familiari.
L’OMS ha inserito una raccomandazione relativa alle CP che dovrebbero essere erogate il più precocemente possibile nel corso di una malattia cronica, per estendersi fino alla fase finale della vita.
La più recente definizione di questo stadio “precoce” è tratta dal documento redatto nel 2010 dal Medical Council del Regno Unito: «I malati si avvicinano alla fine della vita quando è probabile che essi muoiano entro i successivi 12 mesi. In questa definizione sono inclusi i malati la cui morte è imminente (attesa entro poche ore o giorni) e quelli con malattie inguaribili, progressive, in fase avanzata, con una condizione clinica di fragilità generale. Questi malati sono a rischio di morte sia per una crisi acuta e improvvisa legata alla loro malattia cronica, sia per condizioni acute causate da eventi improvvisi e catastrofici» 4.
Nel dicembre 2011, in Gran Bretagna, il National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE) ha reso disponibile la versione definitiva degli standard di Qualità per le “end of life care of adults”5.
Nel documento vengono esposti 16 standard di qualità, proposti per tutti i setting di cura, in particolare gli ospedali, gli hospice e il domicilio.
Il documento NICE indica una nuova prospettiva di sviluppo per le CP, sempre più collegate ai bisogni/preferenze dei “malati che si avvicinano alla fine della vita” e dei loro familiari e sempre meno dipendenti dalla tipologia della diagnosi.
Aspetti assistenziali
L’infermiere persegue la centralità della persona nei processi di cura e assistenza riconoscendone la dignità in ogni fase della malattia6.
I malati in situazione life-limiting/life-threatening mantengono uno stato di elevata complessità assistenziale infermieristica a prescindere dal livello di intensità di cure mediche adottate.
La complessità assistenziale viene determinata dal mix delle tre dimensioni considerate: la situazione clinica, la dimensione relazionale, la dimensione dell’autonomia della persona7.
La situazione di complessità conduce direttamente alla necessità di valutare e adeguare anche da parte dell’infermiere8, in maniera sistematica, le risorse di personale e della struttura (quando applicabile) alle esigenze del singolo malato e delle sue persone significative: quindi, sono richieste flessibilità organizzativa e aderenza alle esigenze della persona nella specifica situazione e contesto.
Il tempo per l’applicazione di un’assistenza di qualità è un fattore imprescindibile.
Il tempo dedicato all’informazione, alla comunicazione e alla relazione è tempo di cura.
Anche in quest’ottica, è necessaria particolare attenzione a progettare una forte integrazione fra trattamento terapeutico e processo di assistenza completa, anche attraverso la consulenza e il riconoscimento di competenze specifiche.
Le decisioni di fine vita sono sempre molto coinvolgenti9 per tutte le persone implicate nel processo dell’assistenza: familiari, persone significative, operatori.
Un approccio di valutazione e presa di decisione sui percorsi assistenziali perseguito sempre in forma di gruppo consente, quindi, oltre che una maggiore oggettività, anche una migliore condivisione delle incertezze e delle preoccupazioni individuali10.
In quanto “responsabile dell’assistenza infermieristica generale”, l’infermiere mantiene costantemente all’interno del sistema per la salute, la funzione di advocacy11 nei confronti della persona malata e delle persone significative.
Le “buone pratiche”12,13, anche negli aspetti assistenziali, da considerare e programmare di fronte a ogni situazione life-limiting/life-threatening sono:

• creare un ambiente favorevole alla miglior qualità della vita residua (controllo di luci, rumori, spazi e tempi appropriati per favorire le relazioni);
• valutare costantemente dolore e discomfort espressi e inespressi (attraverso scale di valutazione) e adottare tutte le misure atte al relativo controllo/eliminazione;
• favorire l’espressione dei bisogni spirituali, delle convinzioni e dei desideri del malato in relazione al proprio percorso di fine-vita e adoperarsi per il loro rispetto, ove possibile;
• adeguare l’applicazione delle pratiche assistenziali a una pianificazione che tenga costantemente conto dell’evoluzione delle esigenze della persona e della famiglia.

Oltre alle indicazioni sopracitate, per incrementare l’efficacia delle valutazioni è opportuno utilizzare sistematicamente e al meglio le competenze osservazionali dell’intero team curativo-assistenziale, al fine di adottare e pianificare le migliori decisioni terapeutiche ispirate a perseguire la migliore qualità di vita residua del malato e dei suoi cari.
Nella fase end-stage le cure debbono in sostanza differenziarsi da quelle della medicina tradizionale polarizzata sul sintomo fisico o sulla malattia d’organo poiché devono orientarsi sui bisogni del malato rappresentati dal miglioramento della qualità della vita residua e, successivamente, della qualità di morte.
Questo approccio attribuisce una grande rilevanza all’informazione, alla comunicazione e alla relazione con il malato al fine di permettergli, ove possibile, una scelta informata e condivisa delle alternative terapeutiche, un advance care planning e la formulazione di direttive anticipate all’interno di un rapporto con l’équipe curante basato sull’empatia, sull’ascolto attivo dei suoi bisogni razionali (decisioni) e sulla gestione di quelli emotivi14.
Medicina generale
Il medico di medicina generale (MMG) è l’operatore che può identificare precocemente i malati insufficienti cronici che si avvicinano alla fase end stage.
L’intervento del MMG riveste un interesse etico (valorizzazione del tempo residuo), clinico (individuazione delle terapie futili, abolizione degli accessi inappropriati all’ospedale), organizzativo (eventuale identificazione di un registro di malati che potenzialmente necessitano di assistenza complessa condiviso con le Unità di Cure Palliative domiciliari - UCPD).
Peraltro, la conoscenza da parte del coordinamento della Rete di Cure Palliative dei malati che si avvicinano alla fine della vita permetterebbe di pianificare al meglio l’assistenza sia per le CP di base (responsabile: il MMG), sia per le CP specialistiche (responsabile: il palliativista) entrambe erogate dalle UCPD, come sancito dal Documento di intesa siglato dalla Conferenza Stato-Regioni del 25 luglio 20123.
Dal punto di vista operativo, il MMG potrebbe identificare nei suoi malati cronici quattro fasi, spesso embricate tra loro, ma che presentano obiettivi diversi di salute.

1. Fase della stabilizzazione della “cronicità”. Per questi malati sono previsti percorsi diagnostico- terapeutici specifici per la malattia di base.
2. Fase di avvicinamento alla fine della vita. La flow chart utilizzata dai MMG inglesi15 permette, attraverso alcuni step, di costruire un “registro” di malati che si “avvicinano alla fase finale” della vita. Il primo di questi step è la cosiddetta “surprise question”. Il processo prosegue attraverso la verifica di alcuni indicatori generali di deterioramento delle condizioni e/o d’incremento dei bisogni. Infine, la flow chart propone una valutazione di alcuni indicatori specifici correlati a una singola malattia. In questa fase, che può durare anche molti mesi, il MMG è invitato a valutare, attraverso un colloquio mirato, la consapevolezza del malato sulla prognosi, le sue preferenze e idesideri, il livello di condivisione delle scelte, al fine di rimodulare la terapia in atto. Questa è la fase che precede e determina il successivo avvio delle cure palliative simultanee a garanzia di un’attenzione alla qualità di vita personale di “quello specifico malato” e all’intercettazione dei suoi bisogni fisici, psicologici e spirituali.
3. Fase delle cure palliative di base. Costituite da interventi che garantiscono un approccio palliativo attraverso l’ottimale controllo dei sintomi e un’adeguata comunicazione con il malato e la famiglia. Le cure richiedono interventi programmati in funzione del progetto di assistenza individuale e coordinati dal MMG. Una buona preparazione di base per l’accompagnamento del malato e della famiglia è la premessa per rendere più appropriate eventuali scelte diagnostico-terapeutiche invasive ancora necessarie.
4. Fase delle cure palliative specialistiche. Rivolte a malati con bisogni complessi, instabilità clinica e sintomi di difficile controllo; esse sono caratterizzate da elevate competenze, necessità di continuità assistenziale, interventi articolati sui sette giorni e pronta disponibilità medica sulle 24. Sono erogate da équipe specialistiche dedicate, di cui il MMG è parte integrante.

In ciascuna di queste fasi la condivisione dei flussi informativi tra territorio e ospedale diventa fondamentale per arginare gli accessi impropri al Pronto Soccorso, la proposta di interventi specialistici non appropriati e i ricoveri ospedalieri nei reparti per acuti e nelle TI.
La scelta di “non intervenire” con approcci invasivi non può essere lasciata all’ultimo momento al medico specialista di turno in ospedale.
Tali decisioni hanno implicazioni etiche poiché fanno riferimento ai principi di autodeterminazione e beneficialità ed è opportuno che siano ponderate dal malato molto tempo prima dell’urgenza dettata dalla realtà contingente. Il MMG, nel percorso faticoso del “far prendere coscienza” al malato e alla famiglia della situazione reale, con l’opportuna gradualità e sensibilità che la delicata situazione richiede, in sintonia collaborativa con lo specialista d’organo, può fare la differenza nel realizzare un percorso di dignitoso accompagnamento del malato al “confine alto” della vita.
Metodologia
Un Gruppo di Lavoro (GdL) multidisciplinare e multi professionale, che ha incluso specialisti d’organo, intensivisti, palliativisti, medici di medicina generale e infermieri provenienti da diverse realtà ospedaliere, universitarie e di territorio, si è formato su invito del Gruppo di Studio di Bioetica della Società Italiana Anestesia Analgesia Rianimazione Terapia Intensiva (SIAARTI) al fine di realizzare un documento16 che permettesse ai medici e agli infermieri di:

1. identificare i criteri clinici e di valutazione globale disponibili in letteratura utili a individuare i malati con insufficienza cronica end-stage e a consentire per questi malati appropriate scelte di cura;
2. fornire un contributo alla rimodulazione dei percorsi clinici e assistenziali per questi malati;
3. fornire un supporto agli operatori per coinvolgere i familiari nelle decisioni terapeutiche;
4. fornire una definizione dei criteri etici che ispirano le scelte terapeutiche.

Nel corso delle riunioni tenutesi nell’arco del biennio 2012-2013, il GdL ha provveduto a selezionare studi in grado di proporre, nell’ambito di ciascuna forma di insufficienza d’organo (cardiaca, polmonare, nefrologica, neurologica, epatica), un set di parametri clinici dotato di sensibilità e specificità sufficienti a identificare i malati che potessero essere definiti clinicamente come end-stage.
L’analisi della letteratura condotta in Medline, utilizzando come parole chiave: “insufficienza cronica d’organo”, “end-stage”, “terminalità”, “cure intensive”, “cure palliative”, “cure palliative simultanee”, “pianificazione anticipata delle cure”, ha in sintesi evidenziato che:

• gli studi finalizzati a questo scopo sono risultati rari, tutti non randomizzati, non controllati o basati su serie di casi;
• in questi studi è peraltro risultato costante l’invito a maneggiare con prudenza i criteri clinici proposti e i relativi cutoff;
• sono altrettanto rare linee-guida o raccomandazioni attinenti al tema delle insufficienze croniche d’organo in fase end-stage e al loro trattamento;
• nella letteratura scientifica dedicata alle insufficienze croniche d’organo, la definizione della fase end-stage, pure presente, non è parsa basata su prove di efficacia ma su criteri generali o su valutazioni soggettive espresse dai malati stessi o dai clinici o su un approccio olistico alla persona malata più proprio della medicina palliativa.

Le ragioni di questi risultati sono rintracciabili:

1. nella variabilità biologica e nelle differenti risposte individuali ai trattamenti che concedono ancora ad alcuni di questi malati un margine di stabilizzazione;
2. nell’articolato rapporto che lega entità nosologiche complesse come le insufficienze croniche d’organo e le possibili scelte terapeutiche correlate, con la complessità dell’assetto psicologico dei malati, con i loro valori di riferimento, i loro desideri, le loro scelte, tanto più importanti poiché qualificano la parte finale della loro vita e di quella dei loro cari durante tutta la malattia e nella fase del lutto.
 
In conclusione, tenuto conto della citata difficoltà di tradurre in rigida evidenza scientifica la materia trattata, la metodologia di lavoro scelta non si è potuta fondare su un grading delle prove di efficacia.
Pertanto, al fine di realizzare il primo dei quattro obiettivi sopra elencati, il GdL ha ritenuto appropriato supportare i parametri clinici di possibile definizione della fase end-stage delle insufficienze croniche d’organo offerti dall’analisi della letteratura, con criteri di valutazione più ampi (“surprise question”, valutazione funzionale, criteri clinici non specifici, criteri etici), in grado di focalizzare l’attenzione sulla persona malata nel suo complesso, piuttosto che sulla malattia sottostante e sul suo incerto metro di valutazione del grado di gravità.
Successivamente, al fine comunque di eliminare o limitare al massimo i rischi di una revisione tradizionale (mix tra l’opinione degli autore e i risultati degli studi considerati, processo di selezione, interpretazione e sintesi delle evidenze poco riproducibile e non verificabile), il GdL ha adottato una metodologia basata su un processo di peer reviewing articolato nelle seguenti cinque fasi:

1. individuazione dei parametri clinici disponibili in letteratura per identificare la fase end-stage delle singole insufficienze croniche d’organo;
2. individuazione per ciascun sottogruppo specialistico del GdL di un gruppo di almeno tre revisori esterni;
3. processo di peer review da parte dei revisori esterni;
4. discussione e integrazione dei risultati nel documento;
5. invio, in allegato al documento, del set complessivo dei parametri clinici identificati in letteratura alle singole società scientifiche per la valutazione finale e per la loro approvazione.

Il contenuto di questo lavoro costituisce l’insieme dei parametri clinici scaturiti dall’analisi della letteratura che, pur con i limiti descritti, rappresenta, per ciascuna insufficienza cronica d’organo, il punto di partenza validato non per identificare soglie finalizzate a scegliere rigidamente tra due opzioni di cura (intensiva vs palliativa), ma il punto di partenza per avviare una riflessione collegiale sull’opportunità di attivare il percorso clinico e assistenziale proposto nella parte I 16 e condiviso dalle società scientifiche di riferimento.
Le evidenze scientifiche
Cardiologia
Insufficienza cardiaca
I dati epidemiologici riportano in Europa una prevalenza dell’insufficienza cardiaca (IC) dello 0,4%-2%, che aumenta con l’età. Il 50% dei malati con IC muore entro 5 anni dalla formulazione della diagnosi, il 50% dei soggetti con fase avanzata di malattia (classe NYHA III-IV) entro 1 anno. L’età avanzata dei malati (media di 76 anni) e l’alta incidenza di comorbilità17,18 sono tra le ragioni della prognosi infausta.
Gli algoritmi prognostici aiutano a discriminare i malati a maggior probabilità di morte, ma non forniscono informazioni sul singolo. Lo studio SUPPORT19 ha evidenziato una difficoltà prognostica dei cardiologi nei confronti dei malati con IC avanzata, risultando vivi a sei mesi il 75% dei malati arruolati.
Conseguenza della difficoltà di identificare la fase terminale dell’IC è il rallentamento dell’attivazione delle CP, della sospensione di trattamenti invasivi o aggressivi e dell’avvio di programmi di CP.
I malati con IC avanzata non sono una popolazione omogenea, comprendendo al proprio interno quadri clinici differenti, caratterizzati da alterne fasi di riacutizzazione e talora da un recupero prolungato, in altri casi da progressivo deterioramento generale.
La difficoltà prognostica può essere anche legata ai limiti della classificazione funzionale NYHA; in questi casi aiuterebbe di più e meglio la classificazione nordamericana, che include nello stadio D i malati con IC refrattaria, che richiedono interventi particolari20.
L’approccio al malato con IC dovrebbe essere compreso in tre grandi fasi21:

1. Stadio 1 (NYHA I-II) – fase della gestione della patologia. Fase di gestione della patologia, dalla diagnosi alla terapia. I malati devono essere informati chiaramente su tutto quello che concerne la loro malattia, la diagnosi, le prospettive terapeutiche attuali e future e la prognosi, e devono essere supportati a iniziare a formulare una pianificazione anticipata e condivisa del percorso di cura.
2. Stadio 2 (NYHA III-IV) – fase di supporto e palliativa. Fase caratterizzata da ripetute ospedalizzazioni e necessità di terapie e supporti avanzati. L’obiettivo di questa fase deve essere il controllo dei sintomi e della qualità di vita con approccio multidisciplinare e olistico. In questa fase possono rendersi necessarie nuove discussioni, più approfondite, con il malato, la famiglia, relativamente all’attuale stadio di malattia, alla variazione della prognosi e alla rivalutazione condivisa delle opzioni terapeutiche.
3. Stadio 3 (NYHA IV) – fase terminale. Fase nella quale permangono/compaiono disfunzione renale, ipotensione, edemi refrattari, astenia, dispnea e cachessia. L’obiettivo deve essere il controllo di sintomi e bisogni globali. In questa fase si deve focalizzare la discussione sulle cure di fine vita e favorirne l’implementazione fornendo supporto pratico ed emotivo al malato e alla famiglia.

Pertanto, potrebbe essere considerato “end-stage” il cardiopatico che, nonostante terapia ottimale, presenti22,23:

• classe NYHA IV;
• ipotensione arteriosa e/o ritenzione di liquidi;
• segni di cachessia;
• più di una ospedalizzazione negli ultimi 6 mesi;
• scarsa risposta alla risincronizzazione cardiaca quando indicata;
• necessità di frequente o continuo supporto farmacologico infusionale.

Questa condizione di scompenso avanzato può essere sostenuta intensivamente qualora esista l’indicazione al trapianto o all’assistenza ventricolare.
La scelta del luogo di cura nella fase finale di malattia è cruciale e dovrebbe essere affrontata e condivisa anticipatamente da parte del team curante, con il malato e la sua famiglia. Questo perché la scelta del luogo di cura influenza obbligatoriamente le scelte di trattamento.
Se il malato preferisce l’ospedale è da preferire una collocazione in degenza ordinaria (minore medicalizzazione, non monitoraggio, maggiore disponibilità alla presenza dei familiari) o in unità di CP quando presente piuttosto che in ambiente intensivo.
I dispositivi impiantabili
Il numero d’impianti di pacemaker (PM) e defibrillatori (ICD) nel mondo, con eventuale supporto biventricolare per il trattamento dell’IC, è in progressivo aumento. È quindi ormai attuale la problematica concernente la loro disattivazione nei malati con grave deterioramento delle condizioni cliniche generali e alla fine della vita24.
I PM e gli ICD fanno parte di tecnologie biomediche che assistono o rimpiazzano una funzione vitale temporaneamente o stabilmente danneggiata: sono quindi da alcuni considerati un supporto vitale25. Gli ICD erogano una terapia intermittente, mentre i PM possono erogare terapie continue (in malati PM-dipendenti o con PM biventricolari per la resincronizzazione cardiaca impiantati a seguito di IC) o intermittenti (in malati non PM-dipendenti).
In generale, si distingue fra disattivazione di un PM, soprattutto nei malati PM-dipendenti, e di ICD26,27. In quest’ultimo caso il quesito riguarda la necessità di risparmiare al malato in fase terminale frequenti e dolorosi interventi del dispositivo quando questo non è in grado di apportare un sostanziale miglioramento della durata e della qualità della vita residua.
Sul piano etico la disattivazione di un ICD è un’opzione possibile e coerente con l’approccio palliativo di fine vita28. Più controversa è invece la scelta concernente la disattivazione del semplice PM, nei malati PM-dipendenti, poiché la disattivazione provocherebbe la morte immediata del malato: vi sono ovviamente perplessità a riguardo, configurandosi per alcuni autori la condizione di eutanasia o suicidio assistito.
Nel caso di malati non PM-dipendenti e in quelli sottoposti a stimolazione biventricolare, la disattivazione non provoca la morte immediata o in tempi rapidi, ma può peggiorare la qualità della vita del malato, determinando bradicardia sintomatica o deterioramento emodinamico.
Dai pochi dati disponibili emerge la profonda ignoranza dei malati e dei medici circa l’importanza del problema e, per quanto riguarda i medici, la scarsa conoscenza e disponibilità di strumenti culturali per affrontare correttamente l’argomento nei colloqui con il malato e con i familiari29. Figure decisive sono anche quelle che compongono il  team infermieristico e i tecnici delle aziende produttrici di dispositivi, spesso chiamati a premere concretamente il tasto “off”.
Il documento di consenso europeo30 fornisce alcune linee comportamentali che possono essere assunte anche nel presente documento:

1. La disattivazione di un ICD deve essere il punto finale di un processo trasparente e deliberato, con piena e documentata tracciabilità in cartella della decisione da parte del malato e del medico.
2. Nel caso in cui il medico curante e/o l’infermiere e/o il tecnico dell’industria produttrice il dispositivo, sollevi la clausola di coscienza alla disattivazione di un ICD, un altro medico o infermiere o tecnico dell’industria deve essere disponibile.
3. La possibilità di disattivare un ICD, in caso di peggioramento delle condizioni di salute, dovrebbe essere discussa con il malato e la sua famiglia al momento dell’impianto e far parte integrante del consenso informato.
4. Al malato che abbia scelto di disattivare un ICD deve essere garantito che un eventuale ripensamento sarà accolto e il dispositivo riattivato.
5. Nel caso di un ICD, è possibile disattivare solo lo shock, mantenendo le terapie antitachicardiche, che non determinano sintomi, ricordando però che talora possono accelerare la frequenza di una tachicardia ventricolare, provocandone la degenerazione in fibrillazione ventricolare.

In caso di emergenza (ripetuti shock), e in assenza di cardiologo esperto, è possibile interrompere l’erogazione dello shock, senza modificare la terapia antibradicardica, applicando un semplice magnete o la testa del programmatore sul dispositivo. In caso d’imminente esaurimento del generatore è opportuno valutare di non procedere alla sostituzione, pur senza rimuovere il dispositivo.
Dispositivi per l’assistenza al circolo
Negli ultimi anni sono stati sviluppati sistemi meccanici di supporto al circolo totalmente impiantabili, pompe meccaniche di supporto al ventricolo sinistro (left ventricular assist devices - LVAD). Vengono impiantati in malati con IC end stage, sia come ponte al trapianto sia soprattutto quale terapia permanente (destination therapy - DT) nei soggetti non candidabili al trapianto o per carenza di organi30. In Italia è un trattamento applicato in circa un centinaio di malati/anno31. La sopravvivenza a 2 anni in malati sottoposti a impianto per DT è di circa il 50%. L’aumento delle indicazioni e il miglioramento tecnologico determinano e determineranno sempre più situazioni in cui dovranno essere affrontate tematiche tipiche di fine vita. I malati sottoposti a impianto di LVAD possono morire per progressione dell’IC o per complicanze correlate al LVAD. La pianificazione di fine vita, attraverso direttive anticipate, può chiarire le preferenze del malato, anche se spesso non sono sempre esplicitate tutte le informazioni necessarie al malato e ai familiari per esprimere decisioni. È stato recentemente proposto 32 che la disattivazione di un LVAD possa essere considerata eticamente possibile in condizioni cliniche estreme (coma irreversibile, shock, infezioni, insufficienza multi-organo, default del dispositivo).
Pneumologia
Insufficienza respiratoria
L’insufficienza respiratoria (IR) è una malattia spesso multi-organica33-35 a maggiore incidenza in età avanzata, con caratteristiche di malattia cronicamente e criticamente attiva36. Il sintomo più invalidante dell’IR è la dispnea, accompagnata da severa limitazione funzionale.
La difficoltà di effettuare scelte rapide ed efficaci all’ingresso in ospedale per una esacerbazione sottolinea la necessità di costruire percorsi clinico-assistenziali unitari, centrati su malato e famiglia37.
Le linee-guida non si sono dimostrate in grado di fornire strumenti di valutazione sufficienti per la complessità di questa patologia, così, l’IR richiede risposte di trattamento che dalla medicina intensiva evolvano verso la “malattia cronicamente critica”38.
La fase della palliatività, che precede spesso per un periodo non prevedibile quella delle cure di fine vita, coincide con le cure simultanee; pertanto, assieme alle cure palliative, le cure ordinarie debbono continuare a essere offerte.
Questa fase non può limitarsi al complicato e breve momento dell’ingresso in ospedale, ma deve essere primariamente gestita fuori di questo, con una presa in carico dei malati, che leghi le varie tappe intra- ed extra-ospedaliere.
In queste, andranno man mano offerti al malato tutti i supporti giuridici, come l’amministrazione di sostegno39, gli strumenti, le occasioni, il metodo40, per riflettere sulle appropriate scelte di cura.
È quindi prioritario che, ove possibile, sia il malato a gestire il proprio percorso.
In conclusione, l’IR come tutte le insufficienze mono- o multi-organiche, richiede un’alleanza terapeutica con i malati e una nuova alleanza scientifica con altre culture e discipline.
Broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO)
È difficile identificare correttamente una previsione di sopravvivenza in malati BPCO.
I malati con BPCO terminale, quando intubati, hanno una cattiva prognosi e difficoltà maggiori allo svezzamento correlate all’età, alla debolezza dei muscoli respiratori, all’ipercapnia, all’ipossia, alla malnutrizione, al trattamento con corticosteroidi o altri agenti, all’instabilità emodinamica e alla mobilità limitata legata ai disordini respiratori41.
Generalmente, la metà di questi malati muore in ospedale e la maggior parte in TI, mentre quelli che sopravvivono necessitano ancora per diverse settimane di trattamenti infermieristici e fisioterapici intensivi lamentando una ridotta qualità di vita proprio perché nel 20% dei casi gli ultimi 6 mesi sono stati trascorsi in ospedale o in altri presidi protetti42.
Tuttavia, la gravità di un malato BPCO (definita sulla base del danno funzionale respiratorio e della necessità di O2-terapia h24) non è generalmente correlata con le preferenze di trattamento di fine vita. Per questo motivo, i medici non debbono desumere che uno stato di salute scadente del malato lo porti a rifiutare trattamenti invasivi di sostegno vitale solo perché sono più pessimisti riguardo alle reali prospettive di sopravvivenza e hanno problemi a identificare i malati con prognosi infausta43.
Sebbene inappropriato, le decisioni sulle cure di fine vita sono discusse per lo più in riacutizzazione mentre ogni discussione con questi malati dovrebbe iniziare in fase di stabilità della malattia44.
Un algoritmo decisionale, comunque basato sull’esperienza più che sulle prove scientifiche, può aiutare a individuare questa delicata fase44.
Parametri considerati:

• età 70 anni;
• VEMS <0,75 lt;
• grado di dispnea 3 o 4;
• dipendenza dall’O2;
• >1 ricoveri nell’anno precedente aumentata dipendenza dagli altri;
• perdita di peso o cachessia;
• insufficienza cardiaca o altre comorbilità.

I malati con BPCO severa (definita come un VEMS <0,75 lt e almeno un episodio pregresso di insufficienza respiratoria acuta ipercapnica) hanno uno stato di salute (fisico, sociale ed emozionale) e un grado di attività fisica giornaliera significativamente peggiore di malati affetti da tumore polmonare non a piccole cellule (NSCLC); inoltre, hanno sintomi come ansia e depressione significativamente maggiori. La depressione non è correlata alla severità dell’ostruzione al flusso delle vie aeree e al suo declino in un anno, ma si correla invece al rifiuto di trattamenti invasivi di sostegno nel fine vita in malati in O 2-terapia. Le scelte di fine vita di questi malati possono inoltre cambiare dopo un trattamento farmacologico finalizzato al miglioramento dei sintomi respiratori; infatti, i programmi di riabilitazione riducono la percezione dell’intensità della dispnea e diminuiscono l’ansia e la depressione legate alla malattia BPCO45.
Mentre l’O2-terapia ha solo un modesto beneficio sulla dispnea, la ventilazione non invasiva (NIV) può risultare efficace per ridurre la dispnea rappresentando un valido strumento per migliorare temporaneamente la qualità di vita nella fase end stage46,47. La morfina resta l’unico farmaco efficace per il controllo della dispnea nelle fasi terminali di malattia, con intervalli di somministrazione e dosi basate sulla frequenza dei sintomi.
Anche le linee-guida GOLD del 201348 hanno approvato l’uso della morfina per il controllo della dispnea nel malato BPCO severo allineandosi in tal modo alle linee-guida canadesi del 2007, 2008 e 201149-51 e altre risultanze52-55 che ne comprovano l’uso superando i limiti dettati dall’effetto sulla depressione respiratoria e sull’ipercapnia.
La fibrosi polmonare idiopatica
La fibrosi polmonare idiopatica (IPF) definisce un gruppo eterogeneo di malattie polmonari con vario grado di istoflogosi e fibrosi, a origine ignota. Detta anche “idiopathic interstitial pneumonias” (IIPs), questa patologia presenta una prognosi infausta nella maggior parte dei casi, con sopravvivenza media che, a seconda delle diverse forme istopatologiche e dell’andamento clinico, oscilla tra i 2 e i 4 anni dalla diagnosi istopatologica56-64.
Clinicamente essa è caratterizzata da assenza di sintomi o dalla presenza di tosse non produttiva, dispnea e, nei casi più avanzati, da ipossia.
Non esiste un trattamento risolutivo, e tutte le cure finora proposte hanno come obiettivo fondamentale quello di rallentarne l’evoluzione, comunque fatale, alleviandone i sintomi.
Anche il trapianto di polmone, che può rappresentare in casi selezionati una soluzione definitiva, evidenzia una sopravvivenza pari a 50-56% a 5 anni dal trapianto65.
Per orientare la scelta tra cure intensive e palliative simultanee quando la patologia è giunta in una fase avanzata, possono essere presi in considerazione i seguenti parametri clinico-anamnestici:

1. Età in cui il malato ha effettuato la prima visita48 (rapporto inversamente proporzionale con il tempo di sopravvivenza medio). Sopravvivenza media alla data della diagnosi della IPF/età del malato (14,6 mesi/per paz. >70 anni; 62,8 mesi/per paz. 50-60 anni; 27,2 mesi/per paz. 60-70 anni; 116,4 mesi/per paz. <50 anni).
2. Tipo di diagnosi IPF. Se solo radiologica (high resolution computed tomography), il quadro “Honeycomb” presenta la prognosi peggiore; se anche istopatologica bisogna considerare che: la UIP (Usual Interstitial Pneumoniae) ha una prognosi peggiore rispetto alla NSIP (Non Specific Interstitial Pneumoniae); infatti la prima è più frequente con una mediana di sopravvivenza dalla diagnosi che varia da 2,5 a 3,5 anni49,51,52; la seconda ha una prognosi migliore che dipende dall’estensione della fibrosi53-55 e solo una minoranza è condannata al decesso entro breve tempo53-56. Tuttavia, in una recente revisione è emerso che i reperti istologici non hanno mostrato una buona correlazione con la clinica e la prognosi56.
3. Grado di dispnea (scala Modified Medical Research Council – MMRC). Grado III: il malato non cammina per più di 100-150 metri senza fermarsi per dispnea; grado IV: la dispnea è presente anche a riposo.

Bisogna inoltre considerare che le riacutizzazioni sono associate a un indice di mortalità pari al 60-100%66 e che in malati con IPF sottoposti a ventilazione invasiva la mortalità è prossima al 100%67.
Nefrologia
Non esistono controindicazioni assolute all’avvio del trattamento dialitico, anche se sono codificate dalle linee-guida68 le condizioni di demenza grave e di neoplasia avanzata con metastasi come indicatori di non avvio alla dialisi.
Nei malati con età >75 anni è descritto che la sopravvivenza dall’avvio del trattamento dialitico cronico è molto ridotta dalla presenza di comorbilità, soprattutto dalla malattia ischemica cardiaca69. Dati recenti sembrano confermare l’ipotesi che, anche nella popolazione anziana, la contrazione del filtrato glomerulare, associata ad un’albuminuria elevata, sia un fattore predittivo indipendente di mortalità, ponendo potenziali dubbi sull’appropriatezza di un approccio terapeutico pieno in questa fascia di età70. Sembra quindi delinearsi uno spazio per il non avvio alla dialisi non tanto in base alla sola età anagrafica quanto, piuttosto, alla presenza di comorbilità che condizionano una bassa sopravvivenza. A questa coorte sembrano quindi riconducibili i malati neoplastici avanzati, i gravi malnutriti o quelli con scompenso cardiaco senza indicazioni a trapianto, per i quali sussistono dubbi sulla reale utilità della dialisi nel migliorare la sopravvivenza e la qualità della vita 71. In ogni caso la non indicazione alla dialisi non deve significare l’abbandono del malato: l’avvio o la prosecuzione di un programma di terapia dietetica fortemente ipoproteica può rappresentare una valida alternativa, non solo nel controllo dei sintomi uremici ma anche nella progressione di malattia (quanto meno procrastinando ulteriormente la necessità di dialisi)72.
La prognosi dei malati in dialisi con età superiore a 65 anni è simile a quella dei soggetti con neoplasia del colon-retto e solo lievemente migliore di quelli con cancro del polmone73.
Sono oggi disponibili dei modelli di valutazione della prognosi basati su fattori di rischio tradizionali associati alla presenza di comorbilità e alla cosiddetta “surprise question”: questi modelli prognostici possono essere considerati come utili supporti al processo decisionale e raccomandabili per la discussione della prognosi e delle possibili alternative terapeutiche con il malato, la famiglia ed il team curante74,75.
Una nuova frontiera, per la maggior parte dei nefrologi, sono le cure palliative. Quando questo tipo di alternativa viene confrontato con il trattamento dialitico, in effetti il beneficio ottenuto dalla dialisi, in termini di sopravvivenza, sembra davvero marginale nei soggetti sopra i 75 anni: 8,3 mesi con la dialisi vs 6,3 mesi con i supporti palliativi ovvero un +16% di sopravvivenza con la dialisi a dodici mesi76.
Da sottolineare, infine, che esistono delle “apparenti” differenze fra il non avviare il malato alla dialisi e nel sospenderla una volta intrapresa. Il primo caso richiede una coscienza più risoluta e certezze cliniche più verosimili su una prospettiva di vita sfavorevole a breve, sia sotto l’aspetto temporale che sotto il profilo di una scarsissima qualità della vita. Il secondo può presupporre un atteggiamento più possibilista, forse anche più difensivo, nel tentare un trattamento con una valutazione ad interim (periodo di prova), in base alla quale si potrà poi decidere se proseguire o interrompere la procedura72.
Pur nell’ambito delle cure palliative è da ricordare che, in ambito ospedaliero, e, l’impiego di tecniche extracorporee per la rimozione del sovraccarico di volume (tipo SCUF, Slow Continuous UltraFiltration) può essere indicato, a eccezione della fase terminale, con l’obiettivo di evitare al malato la morte in una condizione di edema polmonare.
Neurologia
Non vi sono dati certi circa l’incidenza e la prevalenza delle malattie neurologiche a lungo termine (MNLG) nel loro complesso in Italia. Nel Regno Unito si stima che circa 10 milioni di persone vivano con una MNLG77. Queste patologie rappresentano il 19% del totale dei ricoveri in ospedale e hanno un impatto significativo sulla qualità di vita di chi ne è affetto78. Queste condizioni comprendono:

• malattie a esordio improvviso: trauma cranico, stroke, lesioni della colonna vertebrale;
• malattie ad andamento intermittente: epilessia;
• malattie progressive: sclerosi multipla, m. motoneurone, m. di Parkinson, altre malattie degenerative;
• condizioni stabili con/senza evoluzione degenerativa: poliomielite, paralisi cerebrali infantili.

Le MNLG hanno un andamento più lento e un decorso più variabile ed è difficile determinare con esattezza la prognosi. I sintomi sono diversi e i malati presentano gradi di disabilità variabile che comprendono deficit cognitivi, disturbi comportamentali, problemi di comunicazione verbale oltre a una varietà di sintomi fisici. Di seguito vengono riportati gli indicatori clinici per l’accesso alle cure palliative delle forme più comuni di MNLG. Questi indicatori da soli non sono però sempre sufficienti a stabilire il momento di inizio di un programma di cure palliative. A essi vanno aggiunti il punto di vista del malato e della sua famiglia e, secondo la letteratura anglosassone, la “surprise question” che si pone l’operatore.
Sclerosi multipla
Nel 50% circa di questi malati la causa di morte è correlata alle complicanze settiche. In genere, le cause di morte sono simili a quelle della popolazione generale. Il Royal College of General Practitioners ha individuato nei sottoelencati significativi sintomi complessi i criteri di accesso a un programma di cure palliative79:

• dolore
• difficoltà nella comunicazione verbale
• astenia
• disturbi cognitivi
• disfagia/malnutrizione
• dispnea/polmonite da aspirazione
• complicanze mediche: es. infezioni ricorrenti
Stroke
Le linee-guida italiane sullo stroke (SPREAD)80 hanno individuato gli elementi clinico-strumentali che caratterizzano i segni prognostici negativi, riferiti alla fase iperacuta, di cui alcuni hanno valore per la candidabilità del malato con ictus ischemico alla trombolisi. Relativamente invece agli esiti delle estese gravi cerebrolesioni da ictus con grave invalidità motoria e cognitiva, tali da non giovarsi più di trattamenti intensivi e da destinare a cure palliative, non sono stati individuati specifici criteri. Nonostante la prognosi infausta, anche nei paesi dove le cure palliative sono più diffuse, raramente i malati affetti da stroke 81 hanno accesso a tali cure. I parametri rilevanti e condivisi da esperti sono quelli sotto riportati:

• età (>80)
• rankin 5
• scarso recupero cognitivo (MMS<11)
• disfagia persistente/permanente
• ulcere da pressione
• copatologie: neoplasie, demenza, esiti di pregresso ictus, cardiopatia severa (NYHA).
Morbo di Parkinson
I criteri di accesso a un programma di cure palliative per le persone affette da morbo di Parkinson in fase avanzata individuati dall’associazione britannica dei malati parkinsoniani e dai medici di medicina generale del Regno Unito82 prevedono la presenza di 2 o più dei seguenti:

• riduzione di efficacia del trattamento/politerapia farmacologica
• ridotta indipendenza
• malattia meno controllabile e meno prevedibile con periodi di “off”
• discinesie con problemi di motilità e cadute
• disfagia
• segni psichiatrici
Sclerosi laterale amiotrofica
Per la SLA, l’individuazione della terminalità consiste nella comparsa di segni e sintomi fisici di insufficienza ventilatoria. Anche il rifiuto dell’alimentazione per sonda rappresenta una scelta critica che condizionerà l’andamento della malattia (mal/iponutrizione, cachessia) per la comparsa di quadri settici o d’insufficienza d’organo. In modo semplicistico, quindi si potrebbe dire che la fase terminale della SLA è ben individuabile. Ma in tale definizione entrano anche diverse altre variabili tenute in considerazione dalla Consensus Conference Promoting excellence in end of life care 2004 83 che ha stilato gli indicatori per l’accesso alle cure palliative del malato con SLA:

• quando il malato e la famiglia lo chiedono o dimostrano di volere aprire la discussione in merito;
• quando sono presenti i segni di una severa sofferenza psicologica, sociale, spirituale;
• quando il controllo del dolore richiede elevate dosi di analgesici;
• necessità di alimentazione enterale con rifiuto di vie artificiali (PEG, SNG);
• presenza di dispnea o ipoventilazione con CV <50% con rifiuto di ventilazione meccanica;
• perdita di funzioni in almeno due distretti corporei.
Demenza
Nelle demenze e in particolare nella demenza di Alzheimer (DA) diversi elementi rendono problematico il percorso decisionale nelle fasi avanzate di malattia. L’infrequente comunicazione della diagnosi e della prognosi rende difficile la partecipazione del malato alla pianificazione delle cure, possibile solo finché egli conserva un certo grado di capacità84.
Per questo è da considerare fondamentale il ricorso a strumenti giuridici come le direttive anticipate di trattamento, l’indicazione di un fiduciario per le decisioni mediche e la nomina di un amministratore di sostegno85 che contribuisca alle decisioni nel contesto dato attualmente dalle possibilità scientifiche, sulla base delle indicazioni di trattamento fornite dal malato e sulla base della conoscenza dei suoi valori di riferimento e della sua vita trascorsa.
È chiaro che alla scelta di promuovere i desideri e l’autonomia del malato deve corrispondere una responsabilità collettiva e un impegno della società a sostenere la famiglia che se ne fa carico.
La demenza è una malattia lunga e gravata da un’alta disabilità, da una progressiva perdita dell’autonomia e delle capacità, sino alla completa dipendenza e alla perdita totale dell’autonomia. La durata è alquanto variabile (3-16 anni e più)86.
La fase terminale è caratterizzata dall’allettamento obbligato, dalla disfagia, dalla cachessia e dall’incontinenza totale degli sfinteri. L’evento terminale più frequente è rappresentato dalla sepsi. La progressione è influenzata dal tipo di demenza, dall’età, dalla presenza di comorbilità, dai trattamenti sintomatici, dalla qualità delle cure, dalla rete sociale e dal nucleo familiare. Vi è una scarsa consapevolezza della terminalità non solo da parte delle famiglie ma anche degli operatori sanitari e raramente i malati vengono trattati secondo un programma di cure palliative 87.
In Italia la maggior parte dei malati viene assistito al domicilio dalle famiglie con una rete di assistenza alquanto carente o nelle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA).
Vi è, quindi, la necessità di trovare degli indicatori attendibili circa la definizione del periodo di terminalità e di conseguenza di accesso a un programma di cure palliative.
Dal punto di vista pratico, le linee guida del Royal College of General Pactitioners offrono i seguenti parametri che rappresentano uno strumento utile nell’inquadrare il malato con demenza che si avvicina alla fine della vita88:

• incapace di camminare senza assistenza;
• incontinenza urinaria e fecale;
• conversazione non significativa e incoerente (<6 parole /giorno);
• incapace a svolgere le attività giornaliere (PPS 50%).
più almeno una o più delle seguenti:

• perdita di peso (10% negli ultimi 6 mesi);
• infezioni ricorrenti del tratto urinario;
• piaghe da decubito (stadio 3 o 4);
• febbre ricorrente;
• ridotta assunzione orale liquidi o solidi;
• polmoniti da aspirazione.

Recentemente è stato pubblicato uno studio con la metodologia Delphi per definire l’indicazione alle cure palliative nel malato anziano affetto da demenza89. Vi è stato un pieno consenso sui seguenti otto settori e raccomandazioni: la cura centrata sulla persona, la comunicazione e la condivisione delle decisioni, il trattamento ottimale dei sintomi e l’attenzione al comfort (questi due identificati come elementi centrali per la cura e la ricerca); impostazione della cura a obiettivi e pianificazione anticipata; la continuità delle cure, sostegno psico-sociale e spirituale, la cura e coinvolgimento della famiglia, l’istruzione del personale sanitario di assistenza e l’attenzione alle questioni sociali ed etiche. Il panel ha raggiunto invece soltanto un consenso moderato sulle raccomandazioni in materia di nutrizione e di disidratazione, temi notoriamente sensibili ai fattori culturali e sui quali si sa che esistono marcate diversità fra i diversi paesi.
Insufficienza epatica cronica terminale
I tassi standardizzati di mortalità per cirrosi epatica sono calati in Italia dal 24 per centomila (anni ’80) sino a raggiungere l’11 per centomila alla fine degli anni ’90, con una riduzione dovuta a fattori epidemiologici quali la vaccinazione anti-HBV e il calo della prevalenza di infezione da HCV.
Il malato con insufficienza epatica cronica terminale è di difficile valutazione, dato che la ridotta funzione epatica induce modificazioni anche a carico della funzione renale, nella sindrome epatorenale, di quella polmonare, nella sindrome epato-polmonare o di altri organi ed apparati. Una valutazione temporale della sopravvivenza attesa e delle probabilità di modificarla con una terapia aggressiva è quindi complessa e la situazione è complicata da infezioni, frequenti nel cirrotico scompensato, prima fra tutte la peritonite batterica spontanea, che peggiorano la prognosi, aumentando la mortalità a breve.
Per molti anni il sistema utilizzato era quello di uno score, denominato Child-Plugh, introdotto nel 1964 e modificato nel 197390 che stratifica abbastanza grossolanamente i malati sulla base di due parametri clinici soggettivi (encefalopatia porto-sistemica e ascite) e dei valori di bilirubina, albuminemia e PT. Questo score stratifica i malati in 3 classi (A,B,C), indicando una sopravvivenza a 5 anni variabile tra il 10 e il 40% nei malati in Child C, senza sottoclassificare tra score iniziali di Child C (C10-12) e score avanzati (C13-15) e presenta diverse criticità.
Nel 2000 è stato introdotto e validato il Model for Endstage Liver Disease (MELD)91,92 inizialmente utilizzato per la prognosi dei malati da sottoporre a TIPS (Transjugular Intrahepatic Portosystemic Shunts), ma poi utilizzato in tutti gli scenari. Questo score, basato su di una formula calcolabile via internet93, valuta il rischio di mortalità sulla base dei valori di bilirubina, dell’INR e creatinina, tiene in considerazione la funzione renale, importante cofattore di mortalità nel cirrotico e consente quindi una stratificazione del rischio più accurata.
La mortalità a tre mesi in malati ospedalizzati rapportata allo score di MELD risulta essere del 76% in malati con MELD tra 20 e 29, dell’83% in malati con MELD tra 30 e 39 e del 100% in malati con MELD superiore a 4094. Altri studi hanno più o meno validato questi dati riportando una mortalità per score tra 19 e 24 del 42%, del 64% tra 25 e 35 e dell’82% tra 36 e 4095,96. Sono state introdotte diverse varianti di questo score e la principale è quella del MELD-Na, che incorpora i valori del sodio97 e che sembra comportare un miglior valore predittivo sulla sopravvivenza a breve. Una importante review ha dimostrato che lo score SOFA (Sequential Organ Failure Assessment), che prende in considerazione la funzione respiratoria, coagulativa, i livelli di bilirubina, la funzione cardiovascolare, renale e il Glasgow Coma Score, risulta superiore sia agli score APACHE II e III ma soprattutto al CHILD, mentre il MELD ha riportato una accuratezza prognostica simile al SOFA score 98.
La situazione per quanto riguarda la scelta terapeutica nel malato con insufficienza epatica è complicata dalla possibilità del trapianto di fegato (LT), terapia consolidata che viene proposta a malati con malattie epatiche in fase terminale con una sopravvivenza dei malati a 5 anni dall’intervento del 75% con una attenta selezione del malato per le indicazioni al LT e le controindicazioni. La malattia epatica si associa al rischio di ulteriore scompenso (per ascite, peritonite, encefalopatia, sanguinamenti, sindrome epato-renale, infezioni) e il malato in lista d’attesa deve essere regolarmente rivalutato per confermare se le condizioni siano ancora compatibili con il LT. Il calcolo del MELD diventa arbitrario per alcune patologie epatiche poco comuni e per alcune complicanze della cirrosi e sono utilizzati punteggi MELD aggiuntivi per il fegato policistico, le colangiti, le sindromi epato-polmonari ed epato-renali.
Nei malati con cirrosi scompensata il decesso e l’esclusione dalla lista avvengono per l’aggravarsi delle condizioni cliniche a causa delle complicanze, ad esempio sanguinamenti gastrointestinali o sepsi. Sono malati in cui il MELD è superiore a 25, ma è anche possibile che malati con MELD inferiore presentino complicanze tali da avere scarse probabilità di sopravvivenza anche con LT.
Riassumendo, stabilire sulla base di un “numero” quando ci si debba fermare e considerare il malato con insufficienza epatica cronica terminale al di là di una possibilità di intervento, in assenza di indicazioni trapiantologiche, è complesso ma un malato con MELD score superiore a 25-30 o con SOFA score superiore a 10,5 ha una mortalità intra-ospedaliera o comunque a breve termine superiore al 60-70%, e complicanze quali il sanguinamento, le sepsi e l’insufficienza renale possono aggravare ulteriormente il quadro rendendo ragionevole la proposta di un trattamento palliativo anziché intensivo.


*Coautori e componenti del Gruppo di Lavoro: Franco Aprà (Medico d’Urgenza, Ospedale San Giovanni Bosco, Torino); Stefano Bambi (Infermiere Area Critica, SOD Pronto Soccorso Medico-Chirurgico, DEA AOU Careggi, Firenze); Giuseppe Brunetti (Pneumologo, UO STIRS, Pneumologia, ASO San Camillo-Forlanini, Roma); Patrizia Burra (Gastroenterologa, Dip. Scienze Chirurgiche, Oncologiche, Gastroenterologiche, Scuola di Medicina, Università di Padova); Annalisa Carlucci (Pneumologa, Pneumologia Riabilitativa, IRCCS Fondazione S. Maugeri, Pavia); Ignazio R. Causarano (Neurologo-Palliativista, Rete Cure Palliative, Hospice AO Niguarda Ca’ Granda, Milano); Luca Cecchini (Pneumologo, Ryder Italia Onlus); Fabio Farinati (Gastroenterologo, Dip. Scienze Chirurgiche, Oncologiche, Gastroenterologiche, Scuola di Medicina, Università di Padova); Carlotta Fontaneto (Intensivista, SOC Anestesia e Rianimazione, ASL VC, Vercelli); Marco Formica (Nefrologo, SC Nefrologia e Dialisi, ASL CN1, Cuneo; Dip. Area Medica, Presidi Mondovì-Ceva); Alberto Giannini (Intensivista, Terapia Intensiva Pediatrica, Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore, Policlinico, Milano); Lavinia Goedecke (Cardiologa, Unità Operativa Cardiologia, ASL 10, Ospedale Santa Maria Nuova, Firenze); Giuseppe R. Gristina (Intensivista, Gruppo di Studio Bioetica SIAARTI, Roma); Iacopo Lanini (Psicologo, Dipartimento di Scienza della Salute, Università di Firenze); Sergio Livigni (Intensivista, SC Anestesia e Rianimazione, Ospedale San Giovanni Bosco, Torino); Pierangelo Lora Aprile (Medico Medicina Generale, Area Cure Palliative, Società Italiana di Medicina Generale, Desenzano del Garda, Brescia); Alberto Lucchini (Infermiere Area Critica, Terapia Intensiva Generale, AO San Gerardo, Monza); Paolo Malacarne (Intensivista, UO Anestesia e Rianimazione, 6 PS, AOU Pisana, Pisa); Fabrizio Moggia (Infermiere Cure Palliative, AUSL Bologna, Rete delle Cure Palliative, ANIAARTI); Giuseppe Naretto (Intensivista, Servizio di Anestesia e Rianimazione, Ospedale San Giovanni Bosco, Torino); Stefano Nava (Pneumologo, Dip. Medicina Specialistica, Diagnosi Sperimentale, Pneumologia e Terapia Intensiva-Respiratoria, Ospedale Sant’Orsola-Malpighi, Bologna); Luciano Orsi (Palliativista, SC Cure Palliative, AO Carlo Poma, Mantova); Andrea Purro (Medico d’Urgenza, Servizio di Pronto Soccorso, Area Critica Presidio Sanitario Gradenigo, Torino); Luigi Riccioni (Intensivista, UO Shock Trauma-Rianimazione, 1 ASO, San Camillo-Forlanini, Roma); Massimo Romanò (Cardiologo, Struttura Complessa di Cardiologia, Ospedale di Vigevano, Pavia, AO della Provincia di Pavia); Marco Vergano (Intensivista, Servizio di Anestesia e Rianimazione, Ospedale San Giovanni Bosco, Torino); Nereo Zamperetti (Intensivista, UOC Anestesia e Rianimazione, ASO San Bortolo, Vicenza); Alfredo Zuppiroli (Cardiologo, Dipartimento Cardiologico AS, Firenze).

Revisori del documento: Cardiologia: Marco Bobbio, Cuneo; Michele Emdin, Pisa; Roberto Satolli, Milano. Infermeri Area Critica: Elio Drigo, Udine; Giandomenico Giusti, Perugia. Medicina Generale: Maurizio Cancian, Conegliano Veneto (TR); Marco Senzolo, Padova; Giuseppe Ventriglia, Pinerolo (TO). Medicina Intensiva: Gaetano Iapichino, Milano; Martin Langer, Milano; Davide Mazzon, Belluno. Medicina Palliativa: Pietro Morino, Firenze; Carlo Peruselli, Biella; Giovanni Zaninetta, Brescia. Medicina d’Urgenza: Alessio Bertini, Pisa; Fabio Causin, Treviso. Nefrologia: Roberto Bergia, Biella; Giuliano Brunori, Trento; Claudio Ronco, Vicenza. Neurologia: Carlo Alberto Defanti, Milano; Daniela Tarquini, Roma. Pneumologia: Nicolino Ambrosino, Pisa; Andrea Lopes Pena, Firenze; Michele Vitacca, Lumezzane (BS).

Si ringraziano i Revisori del documento per il loro contributo nel processo di peer reviewing.
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