Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
www.associali.it

Condividere le evidenze con i social media




Se lo è chiesto Sarah Chapman (Chapman S. Ten things I’ve learned about sharing evidence through social media. Evidently Cochrane 2014; April 21. http://www.evidentlycochrane.net/10-things-ive-learned-sharing-evidence-social-media/) sul blog della Cochrane Collaboration. Ne è uscito un decalogo.

1. Ascoltare è fondamentale. Ammissione difficile per dei ricercatori talvolta molto sicuri di sé, ma, come scrive la blogger, solo trasformando la comunicazione in un dialogo abbiamo la possibilità di rispondere ai bisogni degli utenti.

2. Conoscere la propria audience. Non esiste una comunicazione buona per qualunque interlocutore: conoscere le diverse piattaforme (da LinkedIn a Twitter, da Facebook a YouTube) deve tradursi nel declinare i propri argomenti in molti modi diversi a seconda del pubblico al quale intendiamo rivolgerci.

3. Cercare i nostri interlocutori in luoghi inattesi. Talvolta, basta inventare un uso creativo di un hashtag per trovare nuove, impensabili persone con cui dialogare: Chapman fa l’esempio dell’hashtag #RoyalBaby che ha permesso, su Twitter, di dialogare con molti giovani sulle questioni legate al parto e al taglio cesareo. Davvero carina l’idea.

4. Non dare per scontato che la gente sappia cos’è la Cochrane. Quest’ultima non è una parola magica né un marchio di qualità. Anche tra gli operatori sanitari, in molti non sanno di cosa si tratti e qualsiasi post sui social media dovrebbe tenerne conto.

5. Il parere degli esperti è importante. Migliora il coinvolgimento e la discussione, soprattutto quando l’esperto è il paziente. È un punto rilevante per chi cura un proprio blog: lasciare la parola ad altri amici o colleghi è un arricchimento prezioso.

6. Partecipare alla discussione anche al di fuori degli spazi personali. Unire la propria voce al confronto aperto da altri utenti su blog o pagine Facebook contribuisce ad allargare la discussione e a coinvolgere un maggior numero di persone.

7. Misurare il successo non solo con i numeri ma con le conversazioni che si riesce ad avviare. È una… consolazione per chi non vede decollare gli accessi al proprio blog o per chi guarda desolato i numeri dei “Mi piace” sotto i post su Facebook.

8. Repetita iuvant. La stessa informazione può e deve essere reiterata anche sulla stessa piattaforma, perché i nostri interlocutori accedono ai social network in orari diversi e i contenuti più visibili sono quelli postati più di recente. Questo aspetto conta ancora di più quando desideriamo rivolgerci a un’audience internazionale, il cui accesso è condizionato anche dai diversi fusi orari.

9. Aggiungi valore ai tuoi contributi. Per la Chapman è una regola aurea: può essere il link a una risorsa poco conosciuta e particolarmente originale o il servizio di tweet da congressi…

10. Guarda come fanno “quelli bravi” e cerca di prendere il meglio. Considera la rete come un’occasione di continuo apprendimento: trai ispirazione e non aver paura a far tesoro delle idee migliori.

Revisioni sistematiche: maggiore accuratezza contro il publication bias




Un post di Jon Brassey (Brassey J. Some additional thiought on systematic reviews. Liberating the literature 2014; 4 Febbraio. http://blog.tripdatabase.com/2014/02/some-additional-thoughts-on-systematic.html?m=1) pubblicato sul blog del TripDatabase nell’aprile del 2013 è stato letto oltre 8.500 volte. Si trattava di una critica alle revisioni condotte dalla Cochrane Collaboration (CC) e gli argomenti presentati nel contributo sono stati successivamente ripresi soprattutto da alcune tra le personalità più in vista della CC. Brassey è tornato sulla questione a distanza di una decina di mesi, ribadendo che quanto è recentemente accaduto a proposito dell’aggiornamento della revisione sui farmaci antivirali dimostra che una sintesi delle evidenze operata riferendosi esclusivamente agli studi pubblicati non dà garanzie sufficienti. Il problema non è da poco perché costruire una revisione sistematica a partire dai Clinical Study Report è un impegno di mesi o di anni e anche i revisori più determinati ci penserebbero bene prima di imbarcarsi in un lavoro del genere. Brassey fa inoltre notare che, inizialmente, l’approccio dei revisori della CC era molto pragmatico: il lavoro era quasi sempre abbastanza rapido e, col passare del tempo, la tendenza è stata quella di sottovalutare il publication bias che rischia di condizionare in modo determinante i risultati di qualsiasi revisione. Brassey non offre conclusioni certe ma sembra volere metter in guardia non soltanto gli utenti della Cochrane Library quanto piuttosto gli autori. Chiede ripetutamente maggiore accuratezza. Riconoscendo comunque alla CC una trasparenza che nessun altra organizzazione è in grado di garantire.

Dieci modi per far conoscere le evidenze




Un articolo del Cochrane Muscoloskeletal group (Rader T, Pardo Pardo J, Stacey D, et al. Update of strategies to translate evidence from cochrane musculoskeletal group systematic reviews for use by various audiences. J Rheumatol 2014; 41: 206-15) sarebbe passato forse inosservato se non fosse stato segnalato da un opportuno tweet di Peter Tugwell. Lo studio descrive dieci format attraverso cui disseminare le evidenze tratte dalle revisioni sistematiche, per contattare audience differenti comprese quelle che nel mondo anglosassone sono definite le “5 Ps: Patients and their families, Practitioners, Policy makers, the Press, and member of the Public”. Quali gli strumenti della comunicazione? Summary of findings tables, patient decision aids, plain language summaries, comunicati stampa, scenari clinici sulle riviste scientifiche, Frequently asked questions (Cochrane Clinical Answers), podcast, tweet, journal club e l’uso di storie o di narrazioni a supporto di progetti formativi. L’articolo è un contributo utile anche al confronto che sta avvenendo internamente alla Cochrane Collaboration volto a comprendere i modi migliori per diffondere i risultati delle revisioni sistematiche.

Farmaci costosi? Ricerca quasi impossibile




«Il costo annuo delle terapie oncologiche con i nuovi farmaci è in media superiore a 100 mila dollari». Questo l’incipit di un articolo uscito sul New England il 17 aprile 2014 a firma di Sham Mailankody e Vinay Prasad del National cancer institute di Bethesda (Mailankody S, Prasad V. Comparative effectiveness questions in oncology. New Engl J Med 2014; 370: 1478-91). L’argomento è utilizzato dai due autori per introdurre una tesi fino a oggi raramente discussa: il prezzo di nuovi farmaci non solo condiziona l’accesso alle terapie ma ostacola gli studi di comparative effectiveness tra diverse strategie di cura. Prendendo ad esempio l’alternativa tra abiraterone acetato e ketoconazolo nel cancro della prostata, gli autori sottolineano che se un confronto tra le due opzioni (entrambe potenzialmente utili anche se la seconda praticata attualmente solo off-label) suggerisse eguale efficacia, il risparmio per le cure sarebbe pari a un miliardo di dollari l’anno, anche se applicate solo alla metà dei pazienti statunitensi. Ma, consapevole del rischio economico, l’azienda produttrice di abiraterone finanzierebbe mai uno studio del genere? E, anche qualora a condurre il trial fosse un’istituzione, l’industria accetterebbe di fornire il principio attivo necessario alla sperimentazione? E se a portare avanti la ricerca fosse un ente pubblico, potrebbe ragionevolmente decidere di sostenere il costo per l’approvvigionamento di un farmaco dal prezzo così elevato da rendere necessario un investimento di circa 70 milioni di dollari? Le conclusioni di Mailankody e Prasad invitano la comunità oncologica a essere maggiormente determinata nell’agire nell’interesse dei malati, ma la strada è lunga perché gli ostacoli sono difficili da superare.

L’Unione Europea e la ricerca clinica

Lo studio clinico randomizzato è la pietra miliare della ricerca clinica e continua a essere al centro dell’attenzione. Da un lato la pressante richiesta di trasparenza sui suoi risultati, dall’altro il dubbio, o quasi la certezza, che molto spesso la metodologia sostenga studi il cui quesito clinico non sia di interesse per il clinico e soprattutto per il paziente. O, ancora, l’impressione che – almeno nel nostro Paese – l’argomento sia ben poco conosciuto dai cittadini, un po’ tutti futuri pazienti. Sembra infatti che il metodo sperimentale, che viene datato nel 1747 con i primi studi sullo scorbuto, sia per certi versi ancora un illustre sconosciuto per gran parte dei cittadini, per diversi giornalisti, senz’altro per molti amministratori e magistrati. A complicare le cose, il fondamentale dibattito sulle differenze tra ricerca indipendente e ricerca industriale. Non è il metodo a essere fallace di per sé – anzi, molte volte la ricerca industriale è per certi versi molto più metodologicamente appropriata/corretta rispetto alla ricerca spontanea – quanto la domanda di ricerca a fare la differenza. Chiaramente, se le finalità possono essere diverse, purtroppo stupisce la sproporzione tra i due tipi di ricerca: secondo gli ultimi rapporti circa un terzo degli studi che annualmente si svolgono in Italia è spontaneo e il resto è sostenuto dalle aziende farmaceutiche.

Comunque sia, fondamento della sperimentazione clinica è la partecipazione dei cittadini, in questo caso pazienti. Una partecipazione che deve essere informata, consapevole e libera. Purtroppo, cittadini – e pazienti e loro rappresentanze – sono spesso digiuni dei principi che regolano le sperimentazione, ancorché dei loro diritti.

A metà del 2012 la Commissione Europea ha finanziato il progetto European Research Communication Needs Awareness (ECRAN) proprio al fine di migliorare la conoscenza dei cittadini sulla ricerca clinica e per sostenere la loro partecipazione a studi clinici multinazionali e indipendenti. La stessa Unione Europea ha in questi anni spinto e finanziato la ricerca indipendente attraverso il consorzio ECRIN-ERIC, rendendosi altresì conto come fino a oggi sia mancata una strategia comune di informazione su questo importante tema di sanità pubblica.

Il progetto ECRAN ha la finalità di informare i cittadini e i pazienti – target principale del progetto – circa l’importanza della conoscenza da parte del pubblico della ricerca clinica, la necessità che gli studi clinici indipendenti siano intrapresi su domande cliniche rilevanti per il paziente, l’esigenza di promuovere la trasparenza dei dati raccolti nonché l’urgenza di una cooperazione multinazionale, sfruttando la dimensione europea della popolazione nonché le sue diversità. Il consorzio ECRAN ha così lavorato per sviluppare differenti strumenti e metodi di informazione partendo dalla condivisione delle parole chiave della ricerca clinica quali randomizzazione, mascheramento, placebo, outcome significativi per il paziente.

Sul sito del progetto (www.ecranproject.eu) – che è in 6 lingue con alcune parti disponibili nelle 23 lingue ufficiali della EU – si raccolgono e descrivono tutti i materiali. Tra questi: un video d’animazione sulla ricerca clinica, doppiato in tutte le 23 lingue ufficiali europee, una sezione domande e risposte, un tutorial interattivo, un database che raccoglie materiale sugli studi clinici recensito tramite un censimento e una sezione per giornalisti. Con il progetto, inoltre, è stato possibile sostenere lo sviluppo del sito italiano “Dove sono le prove?”, specchio del sito Testing Treatments (http://it.testingtreatments.org/), nonché sviluppare due serious game per tablet volutamente dedicati ai giovani cittadini europei.

Nel frattempo il 2013 è stato caratterizzato dalla rivoluzione dei Comitati etici italiani (Decreto 8 febbraio 2013 – Criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati etici). A distanza di più di un anno la situazione attuale è tutt’altro che definita. Secondo i dati ufficiali: Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, P.A. Trento, Puglia, Umbria, Valle d’Aosta, Veneto, Toscana hanno comunicato delibere istitutive e componenti dei rispettivi comitati; Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Piemonte e Sicilia hanno comunicato solo delibere istitutive, mentre risultano non pervenute Calabria, Marche, Molise, Sardegna e P.A. Bolzano che sembra non abbiano comunicato nulla all’AIFA e/o al Ministero della salute. Oltre ai limiti del decreto discussi fin dall’inizio da diversi rappresentanti di comitati etici (http://www.janusonline.it/news/tutti-i-limiti-della-frettolosa-riorganizzazione-dei-comitati-etici), si registra quindi una situazione ancora a macchia di leopardo che non è certamente favorente la ricerca clinica, né garantisce l’equità di accesso agli studi da parte dei cittadini.

Ma durante il 2013 si è discusso anche del nuovo Regolamento del parlamento europeo e del consiglio concernente la sperimentazione clinica di medicinali per uso umano, che abroga la direttiva 2001/20/CE (http://www.agenziafarmaco.gov.it/it/content/sperimentazioni-cliniche-dirittura-darrivo-nuova-normativa-europea). Formalmente lo scorso 20 dicembre in seno al Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio dell’Unione Europea è stato siglato l’accordo politico sulle nuove regole da applicare a livello comunitario sulle sperimentazioni cliniche. Si prevede che questo possa essere recepito entro la scadenza del mandato dell’attuale parlamento (giugno 2014). Semplificando non poco la corposa proposta di 93 articoli e 5 allegati, i punti sottolineati come innovativi rispetto alla precedente direttiva sono:

• rendere l’Europa più competitiva anche attraverso la creazione di unico portale dell’UE contenente un’unica banca dati di tutti gli studi clinici condotti in Europa dove depositare anche la domanda semplificata di autorizzazione;

• garantire tempi più veloci attraverso una procedura unica di autorizzazione per tutti gli studi clinici che permetta una valutazione più rapida e completa da parte di tutti gli Stati membri interessati. È stimato che attualmente il tempo medio di attesa per avviare una sperimentazione clinica sia intorno ai 152 giorni;

• recuperare la fiducia dell’opinione pubblica nei riguardi della ricerca clinica, anche attraverso il rafforzamento delle norme in materia di tutela dei pazienti e consenso informato;

• semplificare il sistema normativo, avere tempi certi per le sperimentazioni e gli emendamenti;

• rendere il sistema più trasparente, per garantire, tramite adeguati controlli, il rispetto della metodologia nonché la pubblicazione dei risultati.



Paola Mosconi