Il cancro sul grande schermo.
Quanto, come e quando il cinema si occupa delle malattie oncologiche

Luciano De Fiore1, Anna Costantini2, Massimo Di Maio3, Stefania Gori4,
Domenica Lorusso5, Giovanni Rosti6, Carmine Pinto7



Riassunto. Dopo aver esaminato 148 film che trattano a vario titolo e con diverso approfondimento di persone malate di tumore, gli autori hanno riscontrato descritte sullo schermo numerose delle principali questioni che la malattia oncologica comporta. Specialmente negli ultimi anni, i film ne hanno affrontato gli aspetti più rilevanti, come l’epidemiologia del cancro, le sue cause ambientali, le implicazioni economiche delle terapie, la gestione dei sintomi e degli effetti collaterali, la relazione tra malati e curanti, le dinamiche psicologiche, l’approccio alla fine della vita. La cura chemioterapica è l’approccio terapeutico più menzionato. Spesso la persona malata di cancro, nei film, non sopravvive: la morte è in qualche modo funzionale allo svolgersi drammatizzato delle storie. Il cinema rappresenta tuttavia un elemento essenziale del processo educazionale anche se il suo potenziale è stato sfruttato pienamente solo negli ultimi tempi. Pertanto, la visione di film ben realizzati può essere di sostegno nella comprensione di questioni non secondarie e nell’insegnamento di comportamenti e principi bioetici a studenti, specializzandi e personale di nursing oncologico e nel migliorare la relazione tra i curanti e la persona malata, incarnando nei personaggi questioni cliniche ed etiche altrimenti astratte, come cancro e sessualità e gli effetti collaterali delle terapie. Alcuni film aiutano a riflettere sul senso degli affetti e del vivere, contribuendo a rendere il cancro questione di rilevanza collettiva e sociale.

Parole chiave. Cancro, cinema, comunicazione, diagnosi, educazione medica, fine della vita, partecipazione dei pazienti, psiconcologia, sintomi, terapie, tumori.

Cancer on the big screen. How and when movies deal with oncological diseases.


Summary. Films that feature characters with cancer have become a familiar sight for movie-goers. 148 movies treating tumors were selected, produced all over the world since the Thirties, in which cancer had “prompt”, “relevant”, or “plot” character. In order to clearly understand each film’s peculiar message about cancer, we recollected data such as genealogy, year and country of production, main characters’ age and gender, and kind of tumor. Movies deal with cancer through very relevant questions, as well as themes and contexts that have great influence on oncologist’s mind and consciousness. Specially in recent years, films have tackled some of the most important issues around cancer, such as his epidemiology and environmental causes; the economic implications of therapies; the management of symptoms and side effects; the psychological dynamics; the care toward the ending of life. The most frequent treatment mentioned in the movies was chemotherapy followed by antalgic therapy. Very often the ill person on the screen doesn’t get over the disease and his death is somehow useful to the plot’s outcome. This pattern is so strongly standardized that it persists in spite of real progress of treatments. Movies use disease, and other tragedies, as a dramatic device, and since drama is what we expect of the medium, should we be concerned that there is a gap between fiction and reality? Movies represent an essential step of educational process, but their potential has been fully exploited only in recent times. By watching movies on cancer, oncologists could become more conscious of problems they are already facing in the therapeutic setting: cancer and sexuality, the relationship between the ill person and the medical staff, side effects of therapies. Some films simply make us reflect upon the meaning of life and death. This is useful for the sharing of cancer care, from personal or familiar problems to issues of collective relevance.


Key words. Cancer, cinemeducation, communication, diagnosis, end of life, movies, patient participation, psycho-oncology, symptoms, therapies.


Introduzione

Il cinema per lungo tempo ha ignorato l’oncologia. Prima che del cancro, si è occupato della malattia mettendo in scena la tubercolosi, i disturbi psichici, i problemi cardiovascolari, le urgenze (la pagina Facebook Medimovies – https://www.facebook.com/medical.movies – raccoglie schede e informazioni su cinema e medicina). Dalla seconda metà del Novecento, la televisione lo ha poi affiancato, contribuendo in misura determinante alla rappresentazione scenica delle malattie, grazie a serie premiate da un successo mondiale come il Dr. Kildare girato dalla MGM nei primi anni Sessanta, ma ispirato ad alcuni film usciti già a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta, ed i più recenti E.R., Doctor House, Scrubs e Gray’s Anatomy1. La sensibilità acuita per la questione-cancro è testimoniata anche da un episodio dei Peanuts (Why, Charlie Brown, Why?, in TV nel 1990), per il quale Schulz ideò Janice, malata di leucemia, compagna di classe di Charlie Brown e Linus (figura 1).

La protratta assenza del cancro dagli schermi si deve anche alla nascita in tempi relativamente recenti dell’oncologia medica. Anche se di tumori parlano perfino i papiri egiziani e per quanto le prime mastectomie siano state fatte dai Greci, ai quali dobbiamo anche buona parte del vocabolario specifico, solo nel secondo dopoguerra il cancro è divenuto una “malattia pubblica”. Per la quale, tuttavia, mancavano le cure, salvo la chirurgia. Non è un caso dunque che di tumori il cinema inizia a trattare soprattutto con gli anni Sessanta, anche se ancora, per di più, come del cosiddetto “male incurabile”, in film solitamente strappalacrime, il cui antesignano per eccellenza è stato Love story (A. Hiller 1970). D’altra parte, il cancro non è certamente un argomento facilmente rappresentabile. Ma neppure la guerra, le catastrofi ambientali, gli squali mangiatori di uomini o i serial killer lo sono: ciò nonostante, il cinema è da sempre ricorso a queste raffigurazioni del negativo nella vita. Il fenomeno della rappresentazione del dolore e lo “spettacolo” della sofferenza sono peraltro una delle manifestazioni al tempo stesso più diffuse e insieme “normalizzate” dell’universo mediale2. Eppure, legittimamente si pensa al cancro come ad una malattia moderna, soprattutto «perché le sue metafore sono moderne. È una malattia di sovrapproduzione, di crescita fulminante, una crescita inarrestabile, una crescita spinta nell’abisso dell’assenza di ogni controllo», perfettamente “intonata” alla modernità3. Forse anche per questo l’industria cinematografica, ad un certo punto della sua ancor breve storia, prima timidamente e poi con maggiore convinzione, si è accostata all’argomento e col tempo il cancer movie è divenuto, a suo modo, un genere. E, come per ogni filone, si sono cristallizzati degli stilemi che caratterizzano un modo particolare di occuparsi del tumore sullo schermo.

Ripercorrendo la storia del cinema, è possibile oggi passare in rassegna moltissime pellicole che, a vario titolo e con diversa intensità, si sono occupate di cancro.

Obiettivo di questo lavoro è mettere in luce qual è l’immagine prevalente del tumore sul grande schermo; quali ne sono i protagonisti e quali caratteristiche incarnano; quali sono i tumori più rappresentati, come viene narrata la loro diagnosi e qual è la loro prognosi; quali registi, di quali Paesi e a quale scopo se ne sono occupati, nonché il potenziale educativo di molte di queste pellicole (il ruolo della cosiddetta cinemeducation)4.




Materiali e metodi

L’oncologia è fatta anche di numeri che esprimono l’incidenza, che rappresentano i costi, che valutano gli outcome. Altri numeri segnalano il letto del paziente in reparto, le linee di terapia, i giorni di degenza. Per comprendere ciò che le singole pellicole dicono dei tumori (sia di quelli solidi, sia di quelli ematologici), è stato necessario quindi innanzitutto ricostruirne la genealogia, l’anno di produzione, i Paesi che li hanno prodotti, i registi che li hanno realizzati, quanti hanno rappresentato la malattia al maschile e al femminile, l’età e lo status sociale dei protagonisti malati, l’esito delle cure ed il tipo di relazione tra curante e persona malata.

A tal fine, si è fatto ricorso alla letteratura5-10, ai principali database internazionali (come Allmovie, IMDb, Movieplayer, Mymovies, listal), a ricerche mirate su Medline/PubMed e Google (“movies about cancer”, “cancer or tumor and/or in movies”, “cancer-themed movies”), alle risorse web specializzate ed ai blog di terapeuti e pazienti, rintracciando e prendendo in considerazione il maggior numero possibile di film destinati al circuito cinematografico che ne hanno trattato, prodotti dagli anni Trenta del Novecento ad oggi. Una diversa ricerca è in corso sulla presenza del cancro nelle serie televisive (come il recente The Big C) (figura 2), negli sceneggiati e nei film realizzati per la TV.




Risultati

Una prima analisi complessiva del rapporto tra cinema e cancro si deve ad una ricerca che ha portato alla presentazione al Congresso ESMO 2012 di uno studio descrittivo cross-sezionale11 ed in seguito ad una prima pubblicazione in volume12.

Approfondendo la ricerca, disponiamo oggi di un elenco più completo dei film che nel loro plot hanno a che fare col tumore (tabella 1). Gli Stati Uniti sono il Paese che ha contribuito con il maggior numero di pellicole. Italia e Francia si segnalano per un contributo non secondario, ma è degna di nota anche l’attenzione che al tema dedicano Paesi orientali diversi, dalla Turchia all’India ed all’Iran, dalla Cina al Giappone, a riaffermare – se mai ce ne fosse bisogno – la dimensione davvero globale della malattia oncologica.

Nello scorrerlo, si notano intanto molti grandi nomi della cinematografia mondiale: solo per nominarne alcuni tra i più noti, Robert Bresson (Diario di un curato di campagna, 1950), Bertrand Tavernier (La morte in diretta, 1980), Wim Wenders (Nick’s film, 1980), Akira Kurosawa (Ikiru, 1952), Michael Cimino (The Sunchaser, 1996), Tim Burton (Big Fish, 2003), Milos Forman (Man on the Moon, 1999), Alain Resnais (Providence, 1977), David Cronenberg (Videodrome, 1983) ed Ingmar Bergman (Sussurri e grida, 1972).













Anche l’Italia ha fatto la sua parte (tabella 2): uno dei primi film a parlarne è un De Sica minore, Amanti (1968), che precede di un paio d’anni Anonimo veneziano (E.M. Salerno 1970), il primo melodramma di successo in cui il tumore ha un ruolo. Ricordiamo anche La sposa americana (G. Soldati 1986), Guardami (D. Ferrario 1999), Da zero a dieci (L. Ligabue 2002), Uno su due (E. Cappuccio 2006), nel quale si raccontano con grazia e suggestione le ansie di chi teme di avere un tumore, e Le ultime 56 ore (C. Fragasso 2010). La prima cosa bella (P. Virzì 2010) ha il merito di essere stato tra i primi ad aver portato la macchina da presa in un hospice. Stefania Sandrelli (la protagonista, nell’ultimo periodo della sua vita affetta da un tumore in fase terminale) mette in scena un personaggio estremamente vitale, fino agli ultimi giorni. Verso l’epilogo del film, suo figlio Bruno chiede al medico se la madre può tornare a casa, ricoverata per le cure palliative. Il terapeuta è d’accordo, ricordando che le terapie si possono fare anche a domicilio, sempre che sia questa la volontà del malato. Con questo elemento il film tocca una questione fondamentale quale l’autonomia del paziente. Un altro argomento delicato come il rapporto medico-paziente ed il problema della comunicazione era stato affrontato con garbo ed ironia in un episodio di Caro diario (N. Moretti 1994), che narra le personali peripezie del regista e autore per venire a capo di una diagnosi di linfoma di Hodgkin.




Un bel film-documento italiano – Noi non siamo come James Bond – è stato meritatamente premiato al Festival del Cinema di Torino nel 2012. Gli autori e interpreti, Mario Balsamo e Guido Gabrielli, amici nella realtà, passati entrambi attraverso l’esperienza difficile della malattia oncologica, hanno deciso di raccontare le loro storie, intrecciandole. Un’altra opera italiana del 2012 in cui una delle storie narrate è contrassegnata dal tumore è stata particolarmente gratificata anche dagli incassi: Immaturi 2 – Il viaggio (P. Genovese).

Allacciate le cinture (F. Özpetek 2014) condivide con il discusso Guardami (D. Ferrario 1999) il merito di aver rappresentato senza inutili pudori un tema difficile come la sessualità della persona malata di cancro.

Uno dei primissimi film ad affrontare la tematica del tumore è Dark Victory (in italiano, Tramonto; E. Goulding 1939). Bette Davis vestiva i panni di una giovane donna seducente e magnetica che si scopriva malata di un tumore cerebrale. Il film introduceva un topos, destinato a tornare in molte altre pellicole: l’amore tra la persona malata ed il medico curante13. In questo caso, tra Judith ed il chirurgo che tentava di salvarla, operandola. Una rivisitazione recente del tema dell’amore tra il terapeuta e la bella ammalata è A little bit of heaven (Il mio angolo di paradiso, N. Kassell 2011), esempio di come l’argomento possa essere banalizzato e reso difficilmente sopportabile per un pubblico adulto.

Negli anni, il numero dei film che si sono occupati di tumore è cresciuto costantemente (figura 3). I primi titoli pionieristici sono degli anni Cinquanta, ma si deve arrivare agli anni Novanta per registrare l’imporsi del genere. Da allora, il loro numero è aumentato molto, fino a registrare un picco nell’ultimo lustro (12 film nel 2011).




Diversi spunti di riflessione emergono dal cinema americano. In primo luogo, i film di Hollywood mostrano una certa riluttanza nel raffigurare alcuni big killer. Il carcinoma mammario – ad alta incidenza tra i soggetti femminili – continua a non esser rappresentato in proporzione alla realtà (probabilmente, a causa della sua carica simbolica e sessualmente straniante, ed anche dell’età delle protagoniste: molto spesso le “vittime designate” sono giovani*), anche se negli ultimi anni si nota un’interessante inversione di tendenza. Di conseguenza, è assai raro il riferimento alla mastectomia (Elegy) e ancor più inconsueta la visione sullo schermo della stessa (con alcune eccezioni pregevoli, come The Family Stone, La puta y la ballena e Love is all you need).

Storicamente, sullo schermo predominano i tumori cerebrali, seguiti dalle leucemie, forse perché considerati “puliti” o perché in effetti più plausibili in soggetti di giovane età. Seguono quindi le patologie oncologiche in realtà più diffuse (carcinomi mammari, polmonari14 e gastrointestinali). La presenza dei tumori dello stomaco, nel cinema, si affaccia soprattutto negli anni Cinquanta, quando in effetti la loro incidenza era maggiore. Non a caso, uno dei primi e più rilevanti film per il manifestarsi di questa patologia è il nipponico Ikiru (Vivere, di A. Kurosawa 1952).

Nel rappresentare le diverse patologie oncologiche, il cinema non sempre è esatto ed esaustivo nel riferire la diagnosi, così come raramente vengono descritte nei particolari le cure. Mentre agli esordi la terapia d’elezione era quella chirurgica (Dark Victory), col tempo ha preso ovviamente il sopravvento la chemioterapia, nominata o descritta in moltissime opere (tra cui Terms of Endearment, Caro diario, Marvin’s Room, Guardami, Sweet November, Pieces of April, My Sister’s Keeper e Flight). I tumori più rappresentati sullo schermo sono riassunti nella tabella 3. In alcuni film si è dato conto anche delle terapie palliative (La prima cosa bella, Toutes nos envies, Les invasions barbares, Dying at Grace) e, molto più raramente, della radioterapia (Cléo de 5 à 7).




Tuttavia, il cinema ha scelto in alcuni casi di rappresentare con accuratezza anche gli effetti indesiderati di alcune terapie. La perdita dei capelli è evidente, o addirittura tematizzata, in diversi film (per es., in: Allacciate le cinture, Love is all you need, 50/50, Saç, A time for dancing, Dying Young, Turks Fruit). A dimostrazione che l’alopecia costituisce uno dei fattori di maggior disagio per la persona malata, specie se donna. Fortunatamente, molti progressi si sono compiuti nell’alleviare i disagi comportati, soprattutto, da chemio e radioterapia. Il cinema rende parzialmente conto di questa evoluzione, anche se negli anni è possibile apprezzare alcuni cambiamenti.

Ad esempio, quando si è scelto di rappresentare un tumore insidioso come il carcinoma ovarico, e per di più curato il più delle volte con derivati del platino altamente emetizzanti, non si è potuto evitare di mostrare le conseguenze della CINV (Chemotherapy-Induced Nausea and Vomiting). Molte pellicole ritraggono impietosamente le crisi di nausea e vomito di malati sottoposti a chemioterapia (dai recenti Allacciate le cinture e Biutiful, a Dying Young e Les invasions barbares).

Tuttavia, dall’intenso e dolente Wit (M. Nichols 2001) (figura 4), nel quale la protagonista Vivian (Emma Thompson) soffre per un tumore ovarico al IV stadio ed è afflitta continuamente da nausea e vomito, a The Big C (D. Hunt 2010-2013), serie ad episodi per la televisione, nel quale la protagonista è anch’ella affetta da un carcinoma dell’ovaio, passando attraverso altri due film dedicati alla stessa patologia (Mi vida sin mi, I. Coixet 2003 e Two weeks, S. Stockman 2007), si apprezza distintamente il progresso nelle terapie, così come nei protocolli di prevenzione dalla CINV.




L’età dei protagonisti malati sullo schermo non corrisponde alla realtà epidemiologica: nei film, la maggior parte delle persone malate è tra i 30 ed i 50 anni, con un picco intorno ai 48. D’altro canto, più in generale il cinema privilegia protagonisti giovani. Solo il 9% dei film considerati ha per protagonista un anziano di più di 70 anni. Di contro, spesso sono stati grandi attori a portare sulla scena l’oncologia geriatrica, con grande credibilità: ricordiamo Takashi Shimura (Ikiru, A. Kurosawa 1952), John Wayne (The Shootist, D. Siegel 1976), John Gielgud (Providence, A. Resnais 1977), Jack Lemmon (Dad, G.D. Goldberg 1989), Stefania Sandrelli (La prima cosa bella, P. Virzì 2011). Fortunatamente, non gode troppa fortuna il sottogenere del cancer movie pediatrico: storie di piccoli pazienti affetti, per lo più, da patologie onco-ematologiche, inclini a smuovere le emozioni più facili (come Letters to God, o l’italiano L’ultima neve di primavera). Alcuni film dedicati a bambini malati, tuttavia, hanno una loro dignità, presentando anche situazioni familiari complicate, come quella della donazione di midollo tra consanguinei affini (vedi l’australiano Matching Jack, o l’americano My Sister’s Keeper).

Un altro dato ricorrente nei cancer movies è che la malattia colpisce in prevalenza personaggi femminili. Il topos è: lei prima ammala e poi muore, lui si redime e vive nel ricordo di lei: tre volte su quattro, è lei la malata.

Occupandosi della coppia, il cinema ha anche indagato, sia pure con qualche riluttanza, la vita affettiva ed anche sessuale del paziente oncologico, piena di incertezze, preoccupazioni e disturbi quali il dolore, la stanchezza, la nausea, i cambiamenti nel corpo e nell’aspetto che alterano la sfera del desiderio e l’equilibrio stesso della coppia. Alcune pellicole si sono occupate più direttamente di quest’aspetto, rappresentando tutta la complessità psicologica e relazionale della vita sessuale di una persona malata di tumore, a partire dall’accettazione del proprio corpo mutato dalla malattia e dalle terapie (Y tu mama también, A. Cuarón 2000; Les corps impatients, X. Giannoli 2003; Mi vida sin mi, I. Coixet 2003; La puta y la ballena, L. Puenzo 2004; Elegy, I. Coixet 2009; Allacciate le cinture, F. Özpetek 2014).

Uno dei momenti cruciali della trattazione cinematografica della malattia oncologica è costituito dalla comunicazione della diagnosi. Il cinema ha rappresentato questo momento così difficile e delicato della relazione tra il curante e la persona malata nei modi più diversi. Cléo dalle 5 alle 7 (A. Varda 1962) mostra il paradigma della comunicazione insensibile e sbagliata, con il medico che, per comunicare la diagnosi, neppure scende dall’auto con la quale incontra casualmente la protagonista malata. Altre volte la diagnosi viene affidata ad oncologi raffigurati in chiave professionalmente difensiva (come in Wit, o in 50/50), ed altre ancora a terapeuti freddi e scostanti (come in My Life, B. J. Rubin 1993).

Ma il cinema è anche in grado di dar conto di una piena empatia tra curante e persona malata, come in Marvin’s Room (J. Zacks 1996), grazie ad un convincente Robert De Niro nella parte dell’oncologo curante, e in The Sunchaser (M. Cimino 1996), tra i rari cancer movie in cui il protagonista assoluto veste i panni dell’oncologo medico (per l’occasione, Woody Harrelson) (figura 5).

Discussione

Le più rilevanti questioni di politica sanitaria relative all’economia, alla ricerca, al sesso ed alla razza sono state a lungo assenti dalla filmografia. Tuttavia, negli anni, molti progressi sono stati fatti sia nella diagnosi sia nelle terapie, ed anche il grande schermo ha accompagnato quest’evoluzione. Oggi non solo i film europei, ma anche quelli di Hollywood riflettono con una certa precisione la politica contemporanea riguardo l’oncologia e, più in generale, la pratica medica. In larga misura, potremmo dire che la settima arte ha ripreso ad imitare la vita.

Oggigiorno trovano quindi riscontro problematiche rilevanti dell’oncologia, come l’epidemiologia e le concause ambientali, come in Erin Brockovich (S. Soderberg 2000)15 o in Michael Clayton (T. Gilroy 2007), il problema economico delle terapie in The Rainmaker (L’uomo della pioggia, F.F. Coppola 1997), la cura e la gestione dei sintomi (Wit, M. Nichols 2000), il miglioramento degli effetti collaterali e l’attenzione per la fine vita, in opere premiate dal successo della critica e del pubblico come Les invasions barbares (Le invasioni barbariche, D. Arcand 2003), Eternity and a Day (L’eternità e un giorno, T. Anghelopoulos 1998) e La prima cosa bella (P. Virzì 2010).

Anche tra i cortometraggi si segnala un’accresciuta attenzione per questa tematica, come testimoniato dal corto danese At Night (C.E. Christensen 2007), candidato all’Oscar 2008, e dall’italiano Insieme (A.M. Liguori 2013, presentato al Festival di Venezia, promosso da Salute Donna onlus e SIPO, Società Italiana di Psico-Oncologia, realizzato grazie al supporto non condizionato di MSD Italia).

Solo in casi sporadici il cancro è stato trattato in chiave paradossale: come in The Kingdom (L. von Trier 1994), dove un anatomo-patologo troppo innamorato della propria professione si fa trapiantare un gigantesco epatosarcoma “per poter studiarlo meglio”.

Spesso i film si rivelano una sorta di manifesto delle difficoltà affettive, ma anche delle virtualità sentimentali positive che l’ammalarsi di tumore può suscitare. Non si ammala mai solo una donna: ammala sempre anche una madre, o una sorella, una figlia, un’amica cara. Per cui la malattia porta spesso con sé un rivolgimento nelle relazioni sentimentali in seno alla famiglia, al gruppo, alla squadra, alla comunità. Come se il tumore costituisse per il malato e la sua cerchia più ristretta un lavacro dalle incrostazioni affettive, dai sedimenti che intralciano i rapporti, dai luoghi comuni che impediscono il discorso e lo scambio. A volte accade il contrario: la malattia può rafforzare le solitudini e sottolineare le distanze, ma spesso il periodo della malattia giova comunque alla riconsiderazione degli equilibri sentimentali del gruppo.

Alcune pellicole propongono storie credibili, addirittura esemplari su come affrontare il tumore e la sofferenza. Prescindendo dal valore estetico dei film, un’opera può essere molto significativa, pur non mettendo a fuoco in modo convincente la questione-cancro. E vale anche il contrario: alcune pellicole si fanno ricordare per come hanno trattato la materia oncologica, più che per il loro valore artistico.

Il film forse più significativo sulla relazione tra l’operatore sanitario e la persona malata è The Doctor (Un medico, un uomo, R. Haines 1991) (figura 6): un medico ammala di tumore alla laringe e prova nella propria carne l’inumanità delle cure, la povertà della relazione con i terapeuti, la solitudine di fronte alla diagnosi. Curato, si dedica all’educazione dei colleghi di reparto. Diverse associazioni di pazienti statunitensi hanno raccomandato di utilizzare il film nella formazione degli specializzandi in oncologia16,17.

Il più delle volte, la persona affetta dalla malattia oncologica assolve al ruolo di catalizzatore di sentimenti all’interno della coppia (Fiore di carne, Il mio angolo di paradiso, Love story) o della cerchia familiare (Nemiche amiche, L’ultimo sogno, La neve nel cuore, Big fish, Schegge di April, La custode di mia sorella), o ancora, e più raramente, di una piccola comunità, magari sportiva (come in Batte il tamburo lentamente e in L’ultima corsa), oppure di quartiere, come in Gran Torino. In quest’ultimo film, il vecchio Clint Eastwood ha un tumore ai polmoni e non esita a farsi uccidere da una gang, purché gli assassini vengano catturati ed il quartiere trovi pace: un esempio di come, a volte, il cinema hollywoodiano rappresenti il malato di cancro come la vittima predestinata che, in quanto tale, sceglie d’immolarsi per gli altri. Nel genere ricordiamo un altro titolo di Eastwood: in Space Cowboys (2000), uno dei protagonisti (Tommy Lee Jones) ha un tumore al pancreas e si sacrifica “per il bene dell’umanità”.







Conclusioni

Molto spesso al cinema la persona affetta dal tumore, ancor oggi, non supera la malattia; la sua morte è in un certo senso funzionale all’esito del plot, divenendo una sorta di sacrificio alla vita, il pegno che la vita paga affinché i sentimenti prevalgano, sublimando esistenze spesso zoppicanti e – prima dell’esordio del male – assai imperfette. Quest’esigenza è talmente forte che resiste anche ai progressi reali delle terapie: non è comune che in un film un malato oncologico sopravviva. La morte per cancro può divenire finanche metafora della fine tout court, come ne La grande bellezza (P. Sorrentino 2013), nel quale la spogliarellista Ramona, interpretata da Sabrina Ferilli (che nel nome stesso ha Roma), scompare enigmaticamente.

Stando ai giudizi espressi nei forum dei pazienti oncologici, alcuni film (pochi, per fortuna) trattano il cancro senza alcuna verosimiglianza con la vita ed i problemi vissuti dalle persone malate, in questi casi legittimamente aspri nelle loro critiche. Un caso paradigmatico è costituito da un film, The Buckett List (Non è mai troppo tardi, R. Reiner 2007), pure campione d’incassi anche grazie a due protagonisti noti come Jack Nicholson e Morgan Freeman e che tuttavia sfida il buon senso e urta la sensibilità delle persone malate, come rilevato ad esempio da un critico ascoltato come il compianto Roger Ebert18.

La tabella 4 riassume i limiti e le non verosimiglianze tra cinema e realtà oncologica.







Resta il fatto che il cinema svolge una funzione decisiva per ridurre lo stigma che ancora contrassegna la malattia oncologica. Perfino un film controverso come Le bruit des glaçons (B. Blier 2010), nel quale il protagonista (Jean Dujardin) riceve la visita del proprio… tumore, incarnato dal deuteragonista (Albert Dupontel), è stato premiato dalle critiche delle società oncologiche francesi che hanno invitato il pubblico a vederlo.

Al termine della ricerca, possiamo affermare che alcune opere, particolarmente riuscite, costituiscono esempi concreti del valore educativo del cinema. D’altra parte, «solo in tempi relativamente recenti, e comunque dopo una prolungata fase di ostracismo, sono state colte e pienamente valorizzate le potenzialità del cinema come possibile baricentro, o almeno come ingrediente, del processo formativo»19. Questi film circolano già, infatti, nei reparti di alcune oncologie italiane, grazie ad iniziative territoriali di organismi come la LILT (Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori), di società scientifiche come l’AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) e la SIPO (Società Italiana di Psiconcologia) e di associazioni di pazienti, come Aglaia.

Se spesso sullo schermo il negativo e il dolore subiscono una sostanziale anestetizzazione, quando il cinema tratta di tumore, il più delle volte, ciò non avviene. Non risulta dunque compromessa la possibilità per lo spettatore di elaborare in esperienza propria, personale quel che l’opera gli offre. Ciò fa sì che nelle storie cinematografiche che hanno al centro una problematica oncologica, il più delle volte chi guarda viene personalmente sollecitato. L’emozione può quindi svilupparsi in discorso20, con evidenti vantaggi per la socializzazione della questione-cancro che, da problema individuale o tutt’al più familiare, assume una dimensione collettiva, ultrapersonale, pubblica, contribuendo fattivamente a ridurre lo stigma nei confronti del cancro.

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