Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

«Ah, perfetto, perché neanch’io sono il signor Parenteau»

Gli aspetti della relazione tra i curanti e la persona malata restano costantemente e legittimamente al centro dell’attenzione. Il motivo è evidente: per quanti progressi si possano registrare, nuovi elementi intervengono a condizionarla. Basti pensare al ruolo dei social network, e più in generale di Internet, nel modificare il rapporto tra la persona sofferente e chi l’ha in carico.

Il cinema registra con una certa fedeltà anche questi cambiamenti. Intanto, denunciando le storture e gli aspetti paternalistici della relazione. Senza risalire alle visite ultra-sbrigative del dottor Guido Terzilli interpretato da Sordi ne Il medico della mutua (Luigi Zampa 1968), il registro comico continua a sottolineare il disagio e l’asimmetria del rapporto curante/curato, come ne Il cosmo sul comò (Marcello Cesena 2008), nel quale l’insopportabile ginecologa Alexandra Gastani Frinzi (interpretata dalla bravissima Angela Finocchiaro) porta all’esasperazione una coppia infilatasi nel calvario della fecondazione assistita.

Un film di quasi venticinque anni fa, The Doctor (Un medico, un uomo, Randa Haines 1991), tratto dall’esperienza di Ed Rosenbaum narrata nel libro dallo stesso titolo, metteva allo scoperto la supponenza e l’arroganza dei medici di un reparto americano di oncologia, gli intoppi burocratici, la solitudine e la disperazione del protagonista malato, Jack McKee (William Hurt). Il quale, spregiudicato cardiochirurgo quarantenne sulla cresta dell’onda, prima curava i pazienti come ingranaggi intercambiabili, non disdegnando battute agli assistenti anche nei momenti più drammatici di un intervento. Un giorno però gli viene diagnosticato un tumore alla laringe e di colpo passa dall’altra parte della barricata. E capisce.

Sopravvissuto, avvia un programma educativo per stimolare l’empatia tra medici e pazienti, mentre i suoi personali rapporti con le persone malate acquistano in comprensione e pietà. In una scena giustamente famosa, ricordando che ognuno ha un nome e non va identificato dal numero del letto, fa indossare ai medici del reparto camici da pazienti, lasciandoli per 48 ore degenti in corsia, sottoposti al fastidio delle analisi, agli orari e ai sapori del vitto ospedaliero.

Un altro film di grande spessore, Les invasions barbares (Le invasioni barbariche, Denys Arcand 2003), una vera polifonia dedicata al rispetto dell’altro, fa risuonare corde analoghe. Emblematica la scena in cui il protagonista (Rémy Girard), cinquantenne professore di storia, malato oncologico terminale, scambia queste battute con il primario del reparto:

«Mi riprometto di restare lucido fino alla fine».

«Splendido, signor Parenteau».

«Grazie mille, dottor Tube».

«Non sono il dottor Tube».

«Ah, perfetto, perché neanch’io sono il signor Parenteau».

Anche se la stagione della denuncia delle insufficienze della relazione non è stata mai archiviata, con gli anni Duemila le sceneggiature dei “medimovies” si sono arricchite di scene e dialoghi virtuali tra la persona malata e il computer (per esempio, tra i più recenti 50/50 di Jonathan Levine, 2011, e Toutes nos envies, di Philippe Lioret, 2012). Meglio il paziente che si è informato sulla rete o quello che confida nei curanti e sceglie di non sapere? La maggioranza dei medici sembra preferire comunque chi s’informa, anche se il diagnosta di Uno su due (di Eugenio Cappuccio, 2006) si rivolge ancora così a Fabio Volo, malato: «Adesso lei non faccia come tutti, e appena arrivato a casa non si butti sul computer per vedere che cos’ha».