Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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L’innovazione non è (sempre) nella tecnologia

“Cerca di immaginare cosa prova il malato”. Questa frase ha guidato per anni il lavoro del Center of Medical Humanities and Bioethics della University of Texas San Antonio fondato da Abraham Verghese1 che oggi, a Paolo Alto, porta avanti il progetto Stanford 25 per rivalutare la clinica al letto del paziente. Alle Scientific Sessions dell’American College of Cardiology, Verghese ha aperto il programma in plenaria rivolgendosi a 20.000 iscritti al congresso: un conto è il cuore del malato che il medico deve ovviamente cercare di guarire, “randomizzando, metanalizzando, cateterizzando”. Altro è il cuore spirituale del paziente, che chiede una attenzione diversa e certamente non minore: è la chiave per stabilire una connessione tra le persone che può instaurarsi attraverso le parole e il contatto.

Per prescrivere un’aspirina servono 9 clic e per ricoverare un paziente in ospedale ne occorrono 197. Un medico di emergenza passa il 46 per cento del proprio tempo al computer e uno specializzando trascorre almeno sei ore al giorno di fronte a uno schermo. La presenza così invadente della tecnologia riduce l’incontro tra il curante e il malato a un rituale di durata sempre più breve, dove i protagonisti interpretano ruoli obbligati, con costumi sempre uguali (per l’uno il camice, per l’altro una sorta di gonna in tessuto-non tessuto) e atteggiamenti convenzionali (sarà il medico ad avere sempre la mano sulla maniglia di una porta…).

La lettura di Verghese è stata molto apprezzata ma sembra un momento isolato in un diluvio di tweet e di post sui social media dedicati agli studi dagli acronimi sempre più scontati: dal PROMISE all’EMBRACE l’ottimismo non sembra mancare. Dopo il primo giorno, è dei ventidue “late breaking trial” che si leggerà sui quotidiani di tutto il mondo e si parlerà nei corsi accreditati sostenuti dai soliti grant “non condizionanti”. Del rapporto tra il medico e il malato si dirà magari commentando la novità del Patient Engagement Pavillion, lo spazio di presentazione di “programs, tools, and resources” utili a “soddisfare” i clinici e i pazienti: software, piattaforme, strumenti, app per migliorare gli stili di vita e – immancabilmente – per accorgersi prima possibile di quel qualcosa che non va.




Quello che il medico non vuole o non ha tempo di dire al paziente glielo riferisce lo smartphone? Eppure…, «the most fundamental, most valuable, most critical innovations have nothing to do with technology. They have to do with asking some very simple, very basic questions that we never ask. Asking people who are near the end of life what their goals are. Or making sure that clinicians wash their hands». Leggere l’intervista ad Atul Gawande curata da Robert M. Wachter e pubblicata su Quartz è un’esperienza rigenerante: l’assistenza al malato, le cure del paziente sono sempre migliori perché sta evolvendo il sistema di valori che le sostiene e le informa. Tutto il successo dipende dalla risposta a una domanda: “Quanto conosco questo paziente?”. Ed è una conoscenza che difficilmente potrà essere garantita dalla tecnologia: «I worry that we could become tyrannized by a combination of experts and sensors that have no close relationship to our priorities. That’s why I just keep coming back to the values».

Dalla tecnologia possiamo attenderci un contributo importante, soprattutto dalla disponibilità di dati. A patto – sostiene Gawande – che le celle del nostro foglio di Excel non diventino progressivamente più piccole finendo col fare riferimento a una manciata di casi individuali. Serve che questi processi siano governati: ed è proprio per questo che l’assenza di politiche sanitarie chiare è particolarmente grave.

Bibliografia

1. Verghese A. My own country. A doctor’s story. New York: Simon and Schuster, 1994.

2. Healthcare is massively better today because of doctors, not technology. Intervista a Atul Gawande. Quartz 2015; 24th February. http://goo.gl/HBbhmh

Sei cose per la salute della donna

Le celebrazioni dell’otto marzo sono storicamente dovute, anche se questa giornata appare sempre più costretta tra 364 giorni maschili. La sanità non fa eccezione, anzi: dalla discriminazione delle operatrici sanitarie (meno retribuite e sempre più distanti dalle posizioni dirigenziali) alla minore determinazione con cui sono trattate alcune malattie nel genere femminile. La lettura di due libri molto interessanti – Being mortal di Atul Gawande1 e Less medicine, more health di Gilbert Welch2 – suggerisce di mettere in fila sei consigli per la salute delle donne.

Non sempre far presto significa fare meglio: la diagnosi precoce è spesso solo inutilmente anticipata e la donna non ne trae vantaggio ma solo danno. Avere a cuore la propria salute non implica sottoporsi a qualunque controllo. La donna ha il diritto di decidere in maniera informata su utilità e rischi degli screening, sulla base di una valutazione del rischio individuale, della storia familiare e del proprio stato di salute. «Cancer screening is not a public health imperative, it’s a choice», sostiene Gilbert Welch.

Sono 222 milioni le donne che non hanno accesso a contraccettivi. Tredici milioni di adolescenti diventano madri ogni anno. 125 milioni di donne hanno subito mutilazioni sessuali. Una donna su tre nei Paesi poveri sposa prima dei 18 anni. La sessualità deve riflettere la maggiore libertà di cui la donna deve godere.

Nel mondo, ogni anno 300 mila donne muoiono per complicanze del parto. Anche in Italia, troppe donne sono male o poco informate e l’eccesso di parti cesarei è una conseguenza sia della scarsa consapevolezza delle donne, sia della ricerca di profitto da parte di chi gestisce la sanità pubblica o privata.

Secondo i dati rilasciati in questi giorni dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, una donna su 3 più giovane di 50 anni ha subito una violenza da parte del proprio compagno. Il disagio psichico nella donna è superiore a quello maschile. Melanconia e depressione successiva alla maternità colpiscono più di 10 donne su 100 che hanno appena avuto un figlio. Il consumo di alcol e tabacco nelle donne è in aumento: 4% delle morti nel genere femminile è attribuibile al bere e la BPCO è in costante crescita.




Il salario delle donne è inferiore a quello degli uomini a parità di mansioni svolte. Questa differenza è presente anche nella sanità: negli USA il gap è di circa il 17%. La British Medical Association dichiara che i medici maschi guadagnano il 40% più delle loro colleghe. La salute passa soprattutto da una migliore situazione economica.

L’attesa di vita delle donne è maggiore ma non sempre è una buona notizia. Non di rado, la donna muore fragile e sola.

Le donne sono tra le più informate anche sulla propria salute. Questo desiderio di conoscenza ha diritto di essere premiato da un’informazione indipendente ed equilibrata che non induca ansia, impossibili aspettative, medicalizzazione o maggiori e ingiustificati consumi di medicina. Solo attraverso altre donne la troppa informazione può farsi conoscenza, sapere e saggezza.

Bibliografia

1. Gawande A. Being mortal. Illness, medicine, and what matters in the end. London: Profile Books, 2014.

2. Welch G. Less medicine, more health. Boston: Beacon Press, 2014.

La rivoluzione dell’Obama Care

L’Affordable Care Act statunitense sta causando una rivoluzione nel sistema sanitario nordamericano: in primo luogo, mettendo in discussione il sistema di rimborso a prestazione e premiando piuttosto il risultato degli interventi sanitari. L’Economist1 sottolinea come la maggiore attenzione per gli esiti delle cure rappresenti di per sé una chiave per disincentivare prestazioni superflue o eccessivamente costose: «The upshot is that there are growing numbers of consumers seeking better treatment for less money. Existing health-care providers will have to adapt, or lose business». A una più prudente domanda di cure fa riscontro l’apertura di molti “urgent-care centre” dove chiedere assistenza senza affollare i pronto soccorso dei centri ospedalieri. Molti ospedali devono risolvere il “dilemma dell’innovatore”: come ottimizzare l’organizzazione per rispondere con minori costi alla più intensa domanda di salute. Sta anche nascendo una rete intermedia di agenti che mettono in relazione i pazienti con il medico o le équipe sanitarie: è il caso di Groundrounds.com/ servizio di “medical guidance” di particolare successo o di Doximity, un social network che mettere in rete alcune decine di migliaia di medici americani.

Bibliografia

1. Shock treatment. A wasteful and inefficient industry is in the throes of great disruption. The Economist, 7 marzo 2014.

Il medico può piangere?

È accettabile per un medico piangere di fronte a un paziente o a un familiare? Bella domanda, che si affaccia soprattutto nella mente di specializzandi e giovani medici. Molto meno di frequente rimbalza sulle riviste scientifiche. Fortuna che c’è la rete, dove di cose come questa si discute. Anne Gulland, che gestisce il forum Doc2Doc di The BMJ, ha sollevato il problema lo scorso anno. Ammettendo che sì, si piange.

Se ne è tornato a parlare quando la fotografia del medico californiano in lacrime contro un muretto ha fatto il giro del mondo. Eppure, le lacrime sono poco professionali: «Even though humanity is the cornerstone of medicine, depersonalisation has somehow crept into the physician-patient relationship and crying is considered incompatible with the image of a good physician, who is supposed to be strong, confident and fully in charge. Thus, crying has been equated to weakness and at times, incompetence», scrivevano Sonal Pruthi e Ashish Goel sull’Indian Journal of Medical Ethics1.

La fotografia del medico in ginocchio è stata ripresa da centinaia di organi di informazione e un post sul blog KevinMD ha sollevato 150 commenti in pochissimi giorni. Eccone uno tra i tanti: «When it comes to our work, nothing is harder – and I mean nothing – than telling a loved one that their family member is dead. Give me a bloody airway to intubate. Give me the heroin addict who needed IV access yesterday, but no one can get an IV. Give me the child with anaphylaxis. But don’t give me the unexpected death… We can only do so much, and we can only hope to do our best. But it’s that moment, when you stop resuscitation, and you look around, you look down at your shoes to make sure there’s no blood on them before talking with family, you put your coat back on and you take a deep breath, because you know that you have to tell a family that literally the worst thing imaginable has happened. And it’s in that moment that I feel. And I feel like the guy in this picture»2.

Ancora. «Ieri è morto un mio paziente di 17 anni. Mi sono chiuso in bagno a piangere molte volte nella giornata. Ho pianto sulle scale e sui pianerottoli. La vita è una cosa molto fragile e il dolore di perdere qualcuno che stai provando ad aiutare è una ferita che non se ne va». Un’altra testimonianza: «Una dottoressa del Pronto Soccorso era in lacrime per la morte di un bambino e le hanno detto che stava tenendo un comportamento poco professionale. Ma a chi dava fastidio che lei piangesse? I medici veri piangono».




Eppure, intervistato dal New York Times, un oncologo del Memorial Sloan Kettering Cancer Center ha risposto: «Non è terapeutico per il malato e può esaurire emotivamente il medico»3. La stessa inchiesta del quotidiano americano forniva però dei numeri che sembrerebbero dimostrare che la realtà è un’altra: «At a recent meeting of the Society of General Internal Medicine, Dr. Anthony D. Sung of Harvard Medical School and colleagues reported that 69 percent of medical students and 74 percent of interns said they had cried at least once. As might be expected, more than twice as many women cried as men».

Il medico resiste e, per alcuni, è una questione di esperienza o, se vogliamo, di allenamento, come leggiamo sul blog della British Medical Association: «Years on, I wonder now if I have developed the ability to be less human. If non-doctors had to hear the heartache stories that I do, could they maintain a dry eye, a dry heart. I tell myself that I am acting in a thoroughly professional and detached way and that emotional involvement with patients’ suffering will have a detrimental effect on me»4.

Ma i dubbi restano, se l’autore dell’articolo conclude: «Si può essere compassionevoli senza provare emozione?».

Bibliografia

1. Pruthi S, Goel A. Doctors do cry. Indian J Med Ethics 2014; 11: 249-51.

2. Wible P. Heart-wrenching photo of a doctor crying goes viral. Here’s why. KevinMD 2015; March, 20th. http://goo.gl/VYrbz8

3. Lerner BH. At bedside, stay stoic or display emotions? New York Times 2008, April 22nd. http://goo.gl/FOtWdF

4. Dawlatly S. When did you last cry over a patient? BMA blog 2014, March 18th. http://goo.gl/edtlcx