Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Il prezzo dei farmaci oncologici non dipende dalla loro innovatività

Il costo dei farmaci oncologici aumenta. Negli Stati Uniti, la spesa media per le cure in caso di malattia neoplastica supera oggi i 100 mila dollari, al punto che il cancro è diventato la principale causa di bancarotta delle famiglie americane. C’è qualcosa che non torna nel ragionamento di chi sostiene che i prezzi così alti dei medicinali siano indispensabili per sostenere la ricerca, dal momento che i profitti che l’industria farmaceutica riesce a conseguire difficilmente possono essere paragonati a ciò che avviene in altri comparti industriali.

In un quadro così preoccupante, uno degli aspetti positivi è che di questa tensione si discute non poco, non soltanto sugli organi di informazione rivolti al pubblico generale, ma anche sui media specialistici. Uno studio di Mailankody e Prasad1 pubblicato sul JAMA Oncology ha valutato i farmaci oncologici approvati dalla Food and Drug Administration tra il 2009 e il 2013, analizzando se la decisione fosse stata motivata da dati riguardanti l’overall survival (OS) o il progression-free survival (PFS). In totale, 51 nuovi prodotti per 63 indicazioni terapeutiche.

Quali conclusioni? I prezzi dei medicinali oncologici crescono più velocemente di quelli in altre aree della medicina. Ancora: non ci sono particolari differenze nel costo dei 21 prodotti che hanno – come dire? – inaugurato una nuova classe farmacologica rispetto ai medicinali che si sono aggiunti a prodotti simili già approvati. Pertanto, i due ricercatori del National Cancer Institute di Bethesda concludono che il prezzo dei farmaci è svincolato dal grado di novità che può essere assegnato ai prodotti. In sostanza, sembra che il prezzo sia deciso più sulla base della valutazione di quanto i pazienti e il sistema sanitario siano in grado di sostenere, che della complessità del processo di sviluppo e produzione.

Qualcosa potrebbe cambiare se i trial regolatori prevedessero la valutazione di Patient Reported Outcomes (PRO). In altre parole, se gli eventuali benefici percepiti dai malati nel corso o al termine di una terapia sperimentale fossero registrati e considerati dalle agenzie regolatorie. Ne ha discusso un altro lavoro di nuovo pubblicato sul JAMA Oncology2, che ha visto collaborare ricercatori universitari, della FDA e di industrie impegnate nella ricerca oncologica. Lo studio sollecita una serie di cambiamenti, sia per garantire migliori standard di qualità negli strumenti di valutazione dei PRO, sia nella collaborazione tra istituzioni pubbliche e industria, anche per pianificare attività formative utili a far conoscere di più l’importanza degli esiti riportati di malati.

Coinvolgere maggiormente i pazienti e i familiari potrebbe rivelarsi una buona idea. Lo sostiene anche il presidente dell’American Society of Clinical Oncology, Peter Yu, citato in un articolo uscito sul Journal of National Cancer Insitute: «We need to encourage these discussions at the national policy level and at the patient level, because we know that patients and doctors may assume that FDA approval signals a significant improvement over standard therapies»3. Troppe conseguenze indesiderate, sostengono in tanti: è ora che la FDA alzi l’asticella e che le valutazioni di farmaci che promettono vantaggi molto marginali diventino più severe.

Bibliografia

1. Mailankody S, Prasad V. Five years of cancer drug approvals: innovation, efficacy, and costs. JAMA Oncol Published online April 02, 2015. doi:10.1001/jamaoncol.2015.0373.

2. Basch E, Geoghegan C, Coons S, et al. Patient-Reported Outcomes in cancer drug development and US regulatory review: perspectives from industry, the Food and Drug Administration, and the patient. JAMA Oncol Published online April 16, 2015. doi:10.1001/jamaoncol.2015.0530.

3. Delude CM. Expensive cancer therapies: unintended effects. J Natl Cancer Inst 2015; 107: dju497. doi:10.1093/jnci/dju497.




Progression-free survival: una misura sufficiente?

Il non-small cell lung cancer (NSCLC) è la seconda neoplasia più frequentemente diagnosticata negli Stati Uniti ed è la maggiore causa di morte legata ai tumori: circa 200 mila nuovi casi ogni anno e oltre 150 mila decessi. La mortalità a cinque anni è di poco superiore al 15% e solo del 2% nei pazienti allo stadio 4 di malattia. Sono necessari nuovi e più efficaci trattamenti; anche per l’esigenza di dare risposte migliori ai pazienti, la Food and Drug Administration ha deciso di approvare due inibitori del gene ALK (anaplastic lymphoma kinase) sulla base di risultati precoci, raccolti in fase 1 di sperimentazione. Per crizotinib (l’altro è ceritinib) sono stati successivamente prodotti altri risultati da studi di fase 3.

La metodologia di approvazione ha destato qualche perplessità. Sul JAMA Oncology, Lakdawalla et al.1 hanno discusso il valore incrementale della decisione di favorire un accesso molto precoce alle terapie sulla base di dati riguardanti il solo progression-free survival (PFS). «Granting early access to novel therapies on the basis of PFS data – hanno scritto gli autori in conclusione della loro analisi – can provide value to patients in need of life-extending therapy, but at the risk of reimbursing novel therapies that later prove ineffective or harmful». In definitiva, i decision maker dovrebbero considerare con molta attenzione l’equilibrio tra i rischi e le opportunità di un early access fondato, in definitiva, su esiti surrogati come il PFS.

Commentando il lavoro, Shyr et al.2 ricordano come nel processo di approvazione da parte della FDA le considerazioni relative ai costi delle terapie siano “un tabù” dal momento che la decisione è assunta sulla base del raggiungimento degli esiti specificati nel protocollo dello studio. È un approccio che si è dimostrato fino a oggi impermeabile alle sollecitazioni di chi – scrivono gli editorialisti – ha più volte posto domande puntuali ai decisori statunitensi: quali criteri dovrebbero essere considerati nel calcolo del valore insito nell’accesso a terapie nuove? I risultati della ricerca di Lakdawalla evidenziano che – se consideriamo un qualsivoglia PFS – la perdita mensile del servizio sanitario è valutabile in 170 mila dollari per paziente trattato, laddove la convenienza per il sistema diverrebbe certa qualora l’approvazione fosse condizionata a un dimostrato PFS superiore ai tre mesi.

Le nuove targeted therapies, però, potrebbero rendere necessaria una valutazione di costo-opportunità più analitica e, di conseguenza, più complessa, dal momento che – per esempio – a relativi benefici in termini di sopravvivenza potrebbe fare riscontro il vantaggio di minori effetti collaterali del trattamento e di conseguenza ricoveri, visite specialistiche meno frequenti e minori difficoltà nella gestione della malattia da parte del nucleo familiare. L’impatto sociale e familiare – sostengono gli editorialisti – è destinato ad assumere un’importanza sempre maggiore nel processo di valutazione dei medicinali, soprattutto qualora la componente economica diventasse uno dei criteri considerati dalla FDA nel percorso di approvazione dei nuovi farmaci.

Ma – visti i relativi vantaggi promessi dalle terapie – proprio la sempre maggiore rilevanza delle conseguenze sociali della malattia potrebbe suggerire una sorta di comparative effectiveness research tra interventi medici e un supporto di tipo diverso, capace di dare un sostegno in certi casi più utile di una terapia solo potenzialmente vantaggiosa.

Bibliografia

1. Lakdawalla DN, Chou JW, Linthicum MT, et al. Evaluating expected costs and benefits of granting access to new treatments on the basis of progression-free survival in non-small-cell lung cancer. JAMA Oncol Published online March 19, 2015. doi:10.1001/jamaoncol.2015.0203.

2. Shyr Y, Horn L, Berry L. Are we making progress in lung cancer using progression-free survival as a surrogate end point? JAMA Oncol. Published online March 19, 2015. doi:10.1001/jamaoncol.2015.0407.




Il punto sulla sovradiagnosi

Il BMJ ha dedicato alla sovradiagnosi una serie di articoli (Digital theme issue: Overdiagnosis, marzo 2015): «Anche se si è d’accordo sul fatto che troppa medicina è un problema reale e provoca danni, rimangono molte incertezze su come e dove tracciare i confini tra ciò che è appropriato e ciò che non lo è, in ogni caso singolo […]. Oltre a essere contro la troppa medicina, bisogna cercare di individuare alternative basate sulle prove», si legge nell’editoriale che presenta il numero speciale BMJ1. Secondo Stacey Carter (Università di Sydney) et al.2, la sfida della sovradiagnosi inizia dalla sua corretta definizione: per fare chiarezza Carter ha inserito nel suo articolo una tabella con parole chiave nell’ambito della “troppa medicina”, con definizioni ed esempi… Sempre sul BMJ3, un contributo pubblicato nella sezione delle Analyses valuta rischi e benefici dei programmi di screening dell’aneurisma dell’aorta addominale offerti in Svezia, Regno Unito e Stati Uniti, mentre Alexandra Barratt4 (Università di Sydney) cerca di fare un bilancio di 45 anni di screening per il tumore al seno. Qual è il giusto rapporto tra rischi e benefici?

Dipende, e l’ultima parola dovrebbe essere del paziente, che però va correttamente informato. Ann Van den Bruel (Università di Oxford) et al.5 hanno condotto un’indagine online su un campione rappresentativo della popolazione britannica su rischi e benefici dello screening per i tumori del colon, della mammella e della prostata e presentando diversi scenari relativi ai rischi di sovradiagnosi. Si è osservata un’ampia varietà di risposte: da persone che non tollererebbero in nessun caso la sovradiagnosi, a quelle che sono disposte a correre i rischi legati al trattamento, e non quelli legati al tumore stesso.

È una novità, quella dell’overdiagnosis, che è tornata alla ribalta soprattutto grazie all’impegno dei clinici della Darmouth University che – oltre ad aver prodotto una serie di libri di grande interesse – alimentano il confronto organizzando un congresso annuale già molto frequentato. Si può dire che Gilbert Welch e i suoi collaboratori abbiano sistematizzato quei sospetti che già Molière segnalava: «Un homme en bonne santé est un malade qui s’ignore», scriveva. In tempi più recenti, il preside della Johns Hopkins University ha pubblicamente sostenuto che «a normal person is someone who has not had enough tests». Lo ha ricordato Paul Glasziou nella sua relazione a EvidenceLive, congresso recentemente svolto a Oxford: più che a un aumento di patologie epidemiche assistiamo a un’epidemia di diagnosi precoci che molte volte non giova alla salute della persona.

È un insieme di evidenze che sottolinea la difficoltà di praticare la medicina in modo appropriato e la complessità delle scelte che i professionisti sanitari devono compiere: la consapevolezza è un primo imprescindibile passo.

Bibliografia

1. Godlee F. Too much medicine. BMJ 2015; 350: h1217.

2. Carter SM, Rogers W, Heath I, et al. The challenge of overdiagnosis begins with its definition. BMJ 2015; 350: h869.

3. Johansson M, Hansson A, Brodersen J. Estimating overdiagnosis in screening for abdominal aortic aneurysm: could a change in smoking habits and lowered aortic diameter tip the balance of screening towards harm? BMJ 2015; 350: h825.

4. Barratt A. Overdiagnosis in mammography screening: a 45 year journey from shadowy idea to acknowledged reality. BMJ 2015; 350: h867.

5. Van den Bruel A, Jones C, Yang Y, et al. People’s willingness to accept overdetection in cancer screening: population survey. BMJ 2015; 350: h980.

Come riportare i dati del singolo paziente

Il crescente interesse per le sintesi delle evidenze formalizzate in revisioni sistematiche e meta-analisi ha spinto il gruppo di ricercatori che partecipano alla stesura delle checklist EQUATOR (Enhancing the QUAlity and Transparency Of health Research) e PRISMA (Preferred Reporting Items for Systematic Reviews and Meta-Analyses) a preparare nuove specifiche indicazioni per gli studi che prendono in considerazione i cosiddetti Individual Participant Data (IPD)1. Il termine participant sta a indicare anche eventuali unità omogenee prese in considerazione da uno studio, come divisioni ospedaliere, scuole, unità di cure primarie. Il lavoro di preparazione della nuova checklist ha coinvolto non solo tutti i ricercatori del network ma anche i membri del gruppo Cochrane per lo studio della metodologia delle revisioni e gli iscritti alla Society for Research Synthesis Methods. L’elenco di ciò che non deve mancare in una revisione o meta-nalisi che consideri gli IPD risulterà prezioso non solo per i ricercatori che con sempre maggiore frequenza si trovano a gestire dati dei singoli pazienti ma anche per chi dovrà consultare i documenti di sintesi: poter contare su documenti strutturati in modo coerente e omogeneo, infatti, garantisce una consultazione più facile e un più agevole confronto con altri articoli simili.

Tra gli elementi indispensabili: l’abstract strutturato, la pubblicazione del protocollo e la registrazione nel database PROSPERO, l’esplicitazione dei criteri di eleggibilità e di data collection; la valutazione del risk of bias e la valutazione accurata dell’eterogeneità individuale della risposta al trattamento.

Bibliografia

1. Stewart LA, Clarke M, Rovers M, et al. Preferred reporting items for a systematic review and meta-analysis of individual participant data: the PRISMA-IPD Statement. JAMA 2015; 313: 1657-65.