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«It takes at least two to tango»: bisogna essere in due per ballare il tango. Questa – come dire? – avvertenza fu usata nel titolo di uno dei primi e oggi più citati articoli sullo shared decision-making (Charles C, Gafni A, Whelan T. Soc Sci Med 1997; 44: 681-92) e può essere ancora utile per farsi un’idea più completa su una questione – quella della condivisione delle scelte sulla salute – di cui molto si parla e poco si capisce. Che il paziente debba essere il primo protagonista del proprio percorso di salute e di malattia non è più in discussione. Ne va della dignità non soltanto sua, di persona malata, ma dell’intero sistema. Lo ricorda Davide Mazzon nel suo contributo (pag. 593), ma è anche una questione di opportunità, perché l’adesione convinta o comunque consapevole del malato è un elemento che ha un significativo impatto sull’esito delle terapie o, nei casi più gravi, su un più sereno o meno drammatico svolgimento del fine vita.

Lo shared decision-making costa fatica, anche emotiva, a entrambe le parti. Presuppone competenze non trascurabili che non possono prescindere da un contesto che le abbia favorite: una cornice fatta di formazione, apprendimento, pratica e ricerca (Towle A, Godolphin W. BMJ 1999; 319: 766-71). È necessaria anche la facilitazione da parte del sistema sanitario e dell’organizzazione, altrimenti nulla è possibile. Perché lo shared decision-making possa realmente essere messo in atto è necessaria una salda reciproca fiducia e il superamento della convinzione che forse maggiormente condiziona l’assistenza sanitaria: “The doctor knows best”. In assenza di una comunicazione aperta e priva di remore può accadere quello che leggiamo nell’articolo di Claudia Bozza, Elisa Agostinetto, Lorenzo Gerratana e Fabio Puglisi (pag. 601). È comprensibile che quasi il 90% delle persone che soffrono di cancro cerchi sollievo (se non la guarigione) in una o più tra le tante opportunità alternative o complementari (CAM). Ciò che sorprende e lascia interdetti è che una persona su tre non comunica al proprio medico di aver deciso di tentare la via delle CAM e in molti casi la “ammissione” avviene soltanto se il medico fa una esplicita domanda in sede di anamnesi.

Non esistono soluzioni semplici per problemi evidentemente complessi. Sebbene siano talvolta non sufficientemente robusti – a causa delle dimensioni del campione delle ricerche o per la debolezza metodologica –, alcuni dati riportati dagli oncologi dell’ospedale di Udine fanno riflettere. L’istruzione (o, avremmo detto una volta, “la cultura”) non è un fattore protettivo dall’uso di CAM ma, al contrario, favorente. Molto dolente, poi, la relazione tra gravità dello stadio di malattia, istruzione e ricorso a cure alternative: talvolta, costa troppo anche la ricerca di un’illusione.

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