In questo numero

È stato pubblicato il Programma Nazionale della Ricerca da parte del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Abbastanza corposo (un centinaio di pagine ma per fortuna alcune sono bianche), ha una parte introduttiva in cui vengono presentati dati utili, in forma sintetica, riguardanti la numerosità e la produttività dei ricercatori dei diversi Paesi. In Italia non siamo messi benissimo: sono pochi e, rispetto a altre nazioni, colpisce la proporzione tra chi fa la ricerca e chi la amministra. Non che non servano dei “manager” in questo ambito e lo dimostra anche il documento del MIUR: ma, evidentemente, in altri contesti si riescono a raggiungere risultati con un apparato burocratico snello, a sostegno di una popolazione di studiosi preparata e adeguata.

Quello “editoriale” è un osservatorio per certi aspetti privilegiato, perché permette di distinguere i settori caratterizzati da maggiore vivacità, come anche le aree in cui i finanziamenti industriali alla ricerca sono diventati ormai prevalenti, così che l’out­put – beninteso, talvolta di buona o ottima qualità – finisce con l’essere inevitabilmente condizionato dagli obiettivi di marketing delle aziende sponsor. La partnership tra pubblico e privato è ormai quasi generalmente auspicata come via d’uscita alla crisi economica. Da qualcuno è considerata una scelta … inevitabile e solo da pochi una sorta di patto col diavolo che sarebbe stato meglio evitare. Non può essere, comunque, l’unica “soluzione” e la traduzione della ricerca in brevetti da commercializzare non può essere la sola finalità della sperimentazione istituzionale.

L’agenda della ricerca dovrebbe essere definita dalla Politica, tenendo bene in mente le esigenze del Paese. In campo sanitario, la stella polare dovrebbe essere rappresentata dai bisogni di salute, dalla domanda di un’assistenza sanitaria forse meno “ricca” di prestazioni mediche invadenti ma supportata da interventi di carattere sociale. Allo stesso tempo, una ricerca “nazionale” dovrebbe prestare maggiore attenzione al monitoraggio dell’attività svolta e alla sua valutazione: in Italia, le esperienze dei registri sono numerose e significative – lo dimostra anche l’articolo di Marina Torre e Emilio Romanini a pagina 218 – e rappresentano un eccellente esempio di ricerca sul quale investire.

Infine, come sottolinea Chiara Rivoiro nel suo Editoriale, essendo la sanità un essenziale terreno di conquista, è molto importante tutelare l’attività di ricerca dalla illegalità e dalla corruzione, assai più presenti di quanto non si possa pensare. Falsificazione di dati, la loro duplicazione, l’occultamento dei risultati degli studi non graditi a chi li ha commissionati, la non pubblicazione o la mancanza di trasparenza rientrano a pieno titolo nelle pratiche illegali, e hanno un impatto drammatico sia sull’assistenza, sia sugli assetti del sistema in generale: basti pensare a come la falsificazione di dati e pubblicazioni possa influire sugli avanzamenti di carriera del personale sanitario o sulla determinazione del “valore” dei singoli professionisti.

In conclusione, quella che dovremmo perseguire è una Ricerca con la iniziale maiuscola e priva di red flags, quelle bandierine rosse che continuano purtroppo a connotare i contesti nei quali lavoriamo.

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