Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Il sistema di pricing per le terapie di ultima generadazione per l’HCV in Europa

La crisi economica globale ha determinato una forte pressione sulla spesa sanitaria non solo dei Paesi sviluppati, ma anche in quelli in via di sviluppo. Alcuni governi hanno posto in essere varie strategie di contenimento dei costi per far sì che la spesa farmaceutica fosse sostenibile: fra queste, le valutazioni economiche sono divenute, soprattutto negli ultimi anni, una tecnica largamente utilizzata per raggiungere l’efficienza nell’allocazione di risorse scarse.

Nel lavoro di Van de Vooren, Curto e Garattini (Pricing for forthcoming therapies for hepatitis C in Europe: beyond cost-effectiveness? Eur J Health Econ 2015; 16: 341-5), gli autori, prendendo come esempio il nuovo farmaco per l’epatite C, analizzano criticamente le valutazioni economiche pubblicate in Europa per verificare se questo tipo di tecnica contribuisca al raggiungimento dell’efficienza e conduca effettivamente a scelte ponderate e razionali.

L’epatite C è causata dall’esposizione a sangue infetto dal virus HCV. La gravità della patologia assume forme di media intensità fino a condizioni croniche che durano tutta la vita e che possono portare a cirrosi o cancro. Il 75-85% dei nuovi infetti sviluppa un’infezione cronica e il 60-70% malattie croniche legate al fegato, il 5-20% di questi contrae la cirrosi e l’1-5% muore per cirrosi/cancro al fegato. La diagnosi è spesso imprecisa perché la maggior parte dei soggetti infetti risulta asintomatica: in Europa i dati di prevalenza sono quindi molto scarsi e presentano un’elevata variabilità a seconda delle zone geografiche (superiore al 3% in Italia, poco più dell’1% in Francia).

Il trattamento attuale per la forma cronica di HCV consiste in un’iniezione sub cutanea settimanale di peg interferone in combinazione con due dosi giornaliere di ribavirina. L’interferone non è sempre ben tollerato a causa dei suoi effetti collaterali (anemia, trombocitopenia, disfunzioni alla tiroide) e quindi molti pazienti non completano il ciclo di terapia. Le due nuove molecole immesse nel mercato nel corso del 2011, boceprevir e telaprevir, sembrano molto promettenti nel trattamento dell’HCV e molti altri principi attivi, appartenenti allo stesso gruppo terapeutico, stanno per ottenere l’autorizzazione di immissione in commercio.

La revisione della letteratura è stata condotta consultando PubMed per selezionare le valutazioni economiche, in lingua inglese, per il trattamento dell’HCV con le nuove molecole boceprevir e telaprevir, nel periodo gennaio 2011-marzo 2014. Dai 52 articoli inizialmente selezionati sono stati inclusi nella revisione sei studi condotti in quattro paesi (Italia, Portogallo, Spagna e Regno Unito). Le tipologie di valutazione economica utilizzate sono l’analisi di costo efficacia e l’analisi di costo utilità. I lavori comparano la terapia boceprevir/telaprevir con il trattamento standard, a eccezione di un solo articolo in cui l’alternativa terapeutica è il “do nothing”. Tutti gli articoli mostrano la nuova terapia con boceprevir e telaprevir come favorevole anche se quasi tutti i lavori si basano su valutazioni realizzate da panel di esperti.




Sebbene le nuove terapie sembrino promettenti e più efficaci rispetto al trattamento tradizionale, l’effettiva utilità delle valutazioni economiche rimane ancora incerta dal punto di vista delle autorità sanitarie, come già sottolineato dal NICE in una sua valutazione separata per quanto concerne le due nuove molecole. Assumendo che i principi attivi di ultima generazione saranno ancora più efficaci (poiché potranno essere somministrati anche senza interferone), gli autori si chiedono se le analisi future si focalizzeranno su sottogruppi specifici di pazienti così da determinare un vero e proprio valore aggiunto nel processo decisionale, in particolare per quanto concerne la definizione del sistema di prezzi.

Gli autori auspicano che le autorità sanitarie, al momento di stabilire i prezzi di rimborso di tali farmaci, prendano in considerazione gruppi specifici di pazienti da trattare, valutandone gli effettivi bisogni e stabilendo, in questo modo, quali categorie di soggetti hanno la possibilità di aspettare e quali, invece, hanno necessità di iniziare quanto prima la terapia con le molecole di ultima generazione per evitare complicanze, anche gravi.

Letizia Orzella

Agenzia Nazionale
per i Servizi Sanitari Regionali, AgeNaS

Le vie dell’impact factor sono infinite

È probabilmente uno dei maggiori scandali della medicina degli ultimi anni. Il chirurgo Paolo Macchiarini ha effettuato diversi interventi di sostituzione della trachea presso il Karolinska Institutet causando drammatiche sofferenze ai pazienti, senza peraltro modificare il corso della malattia. Licenziato dal centro svedese, il suo operato ha determinato anche più di una clamorosa dimissione da parte di esponenti di rilievo dei comitati di gestione della prestigiosa istituzione scandinava, che si sono sentiti corresponsabili dell’accaduto se non altro per non aver sufficientemente vigilato sugli standard etici dei professionisti attivi nell’ospedale.

La storia ha un risvolto anche editoriale perché Macchiarini ha pubblicato la propria casistica su riviste internazionali importanti. Sebbene sia indagato, e con prove a carico apparentemente molto gravi, riviste come The Lancet non accettano di ritirare o di mettere sostanzialmente in discussione gli articoli pubblicati. Se ne occupa da diverse settimane Leonid Schneider nel suo blog For better science in cui è riportata la dichiarazione del media relations manager del settimanale inglese: «There are a number of enquiries related to the Macchiarini case, including the investigation into scientific misconduct which was re-opened and an external investigation into KI’s handling of the case. We will respond to the findings of the current investigations once they have reached a verdict».

Garantismo all’ennesima potenza, dunque, in linea con un editoriale uscito nel settembre del 2015 che indicava nella governance complessiva del Karolinska la principale e forse unica responsabile di eventuali disfunzioni, sollevando il chirurgo da qualsivoglia addebito, come testimoniava anche un articolo che non ammetteva repliche: «There are several lessons to be drawn from this case. First, responsibility for investigating allegations of research fraud falls to the institution where the work in question was completed. Although Karolinska has exonerated Macchiarini, the means by which it did so - a flawed initial inquiry completed by a single individual with widely disseminated, damaging, and mistaken findings - suggests that the university needs to review its procedures for investigating allegations of misconduct. Dragging the professional reputation of a scientist through the gutter of bad publicity before a final outcome of any investigation had been reached was indefensible»1. E proseguiva: «Second - as the Karolinska report concludes-, “what had been a unified and effective research environment… gradually disintegrated”. The breakdown in relations between Macchiarini’s team and a collaborating group contributed to the internal warfare at the Karolinska. But who had responsibility for the oversight of that research environment? A research culture that has gone sour should be a cause for urgent inquiry by university authorities. Yet no one acted to prevent the damaging events that followed».

La posizione di The Lancet nella storia del chirurgo italiano è in linea con quella che la stessa rivista sta mantenendo a proposito di un altro articolo uscito nel 2011 che rendicontava il PACE trial centrato sulla valutazione di diverse terapie per la sindrome da fatica cronica. Una lettera aperta alla rivista di sei ricercatori estranei allo studio criticava fortemente alcune scelte compiute nell’arruolamento dei pazienti: «An analysis in which the outcome thresholds for being “within the normal range” on the two primary measures of fatigue and physical function demonstrated worse health than the criteria for entry, which already indicated serious disability. In fact, 13 percent of the study participants were already “within the normal range” on one or both outcome measures at baseline, but the investigators did not disclose this salient fact in the Lancet paper. In an accompanying Lancet commentary, colleagues of the PACE team defined participants who met these expansive “normal ranges” as having achieved a “strict criterion for recovery”»2.

In un post scherzoso sul blog Alerted and Oriented, Charles Ornstein ha finto di intervistare gli editor di alcune importanti riviste mediche internazionali e alla domanda “Quale potrebbe essere il titolo alternative della sua rivista?” l’editor di The Lancet avrebbe risposto: «The Journal of Medical Controversies». Promettendo anche che proprio la ricerca di questo tipo di discussione sarebbe continuato a essere al centro della politica editoriale della rivista. Dopotutto, avrebbe ammesso scherzosamente l’editor del settimanale, l’articolo fraudolento di Andrew Wakefield sulla relazione tra vaccinazioni e autismo continua a essere all’origine di una buona metà dell’impact factor di The Lancet

Bibliografia

1. Editorial. Paolo Macchiarini is not guilty of scientific misconduct. Lancet 2015; 386: 932.

2. http://www.virology.ws/2015/11/13/an-open-letter-to-dr-richard-horton-and-the-lancet/




Le autonomie e gli obblighi nella collaborazione col privato

Quando si cita il conflitto di interessi si pensa quasi sempre al vantaggio personale che un medico o un farmacista possono trarre dal rapporto con un’industria. La cronaca propone di frequente notizie che creano imbarazzo non solo ai protagonisti ma anche alle intere categorie i cui esponenti sono coinvolti. Nella maggior parte dei casi, però, si tratta di ladri di polli: prescrizioni non motivate dal punto di vista clinico ma “giustificate” da vacanze congressuali o da comparsate a eventi ECM retribuite con bonifici effettuati dai provider che si prestano a fare da intermediari.

Ben più rilevanti, invece, sono i conflitti di interesse che condizionano le decisioni e le attività delle istituzioni e degli enti assistenziali. In molti casi, l’agenda della ricerca è dettata da finalità che hanno poco a che fare con le esigenze dei cittadini. In un commento uscito sul British Journal of Dermatology1, Luigi Naldi individua nel prevalente finanziamento industriale delle attività di ricerca un problema grave. I benefici che le università possono trarre dalla cosiddetta partnership pubblico-privato sono troppo appetibili per rinunciarvi. È davanti agli occhi di tutti, però, una situazione difficilmente sostenibile: ricercatori qualificati e produttivi, il cui stipendio è pagato da enti pubblici, sono “costretti” da una progressiva riduzione dei finanziamenti istituzionali a dedicarsi ad attività di ricerca richieste da sponsor industriali, con l’obiettivo esplicito dell’ente di beneficiare di royalty e vantaggi economici.

La necessità di conseguire un risultato a ogni costo, per rientrare nell’investimento sostenuto, influenza negativamente anche i meccanismi di valutazione della ricerca, finendo per enfatizzare il rilievo di risultati anche modesti. Mantenere una condotta eticamente rigorosa accettando la prospettiva di un’alleanza organica tra pubblico e privato è una sfida difficile da vincere.

Bibliografia

1. Naldi L. Conflicts of interests among academic dermatologists: freedom or constraint? Br J Dermatol 2016; 174: 878-80.

La lunga odissea del blockbuster per il cuore

La grande attesa dei farmaci blockbuster cardiovascolari presentati con molta enfasi nei maggiori congressi internazionali degli ultimi mesi non si sta traducendo in un successo di vendite. I PCSK9 – evolucumab e alirocumab – sono stati proposti negli Stati Uniti al prezzo di 14 mila dollari l’anno per paziente trattato. Dall’approvazione ottenuta la scorsa estate all’ultimo febbraio, il volume di affari generato è di poco inferiore ai 30 milioni di dollari. C’è prudenza tra i medici americani per medicinali che hanno dimostrato di ridurre drasticamente i livelli di colesterolo, senza però che gli studi svolti abbiano sottolineato un impatto su endpoint non surrogati, come il manifestarsi di eventi cardiovascolari o la mortalità.

Amgen ha annunciato che i risultati di un primo studio di outcome (FOURIER - Further Cardiovascular Outcomes Research with PCSK9 Inhibition in Subjects with Elevated Risk) saranno noti a novembre di quest’anno al congresso dell’American Heart Association. Insomma: un’attesa lunga quasi quanto il nome del trial. Lo studio su alirocumab, invece, è ancora più indietro e non per caso si chiama Odissey: non sarà presentato prima del marzo 2018, di nuovo in occasione di una kermesse come il convegno dell’American College of Cardiology.

La situazione dell’associazione valsartan-sacubitril è invece un po’ diversa, forse più complessa. Nel primo trimestre 2016 le vendite sono state pari a circa 17 milioni di dollari, inferiori alle attesa per un farmaco indicato per lo scompenso cardiaco. Quattro articoli sul prodotto sono usciti sul Journal of the American College of Cardiology (JACC) – Heart Failure e la posizione più favorevole è quella di Milton Packer, co-principal investigator dello studio PARADIGM-HF. Il cardiologo della Baylor University di Dallas continua incessantemente a raccomandare l’inclusione del prodotto nelle linee-guida sul trattamento dello scompenso (la sua “passione” traspare dalla scelta di un titolo quantomeno irrituale)1, ma in un secondo editoriale Arthur Feldman (Temple University di Filadelfia) suggerisce cautela per i rischi associati alla prescrizione: insorgenza di demenza e di degenerazione maculare2. Christopher O’Connor della Duke University ha una posizione equidistante, non sottovalutando anch’egli i possibili effetti indesiderati del medicinale3. La costo-efficacia di Entresto è discussa nel quarto lavoro4, evidenziando una situazione limite, con un costo di 50 mila dollari per ogni anno di vita guadagnato con la terapia.

Bibliografia

1. Packer M. Love of angiotensin-converting enzyme inhibitors in the time of cholera. JACC Heart Fail 2016; 4: 403-8.

2. Feldman AM. Neprilysin inhibition in the time of precision medicine. JACC Heart Fail 2016; 4: 409-14.

3. O’Connor CM, Fiuzat M, Lindenfeld J. Are we really in love with old therapies? JACC Heart Fail 2016; 4: 415-6.

4. King JB, Shah RU, Bress AP, Nelson RE, Bellows BK. Cost-effectiveness of sacubitril-valsartan combination therapy compared with enalapril for the treatment of heart failure with reduced ejection fraction. JACC Heart Fail 2016; 4: 392-402.

L’influenza di Madison Avenue sul Bronx

Se fai parte dell’1 per cento più ricco della popolazione puoi aspettarti di vivere in media 14,6 anni di più se sei un maschio e 10,1 se sei una femmina. Beninteso, rispetto a chi fa parte dell’1 per cento più sfortunato, situato dunque all’estremo opposto della scala sociale. In termini assoluti, nel primo caso ci si può aspettare di vivere 87,3 e 88,9 anni e nel secondo 72,7 e 78,8 anni. Uno statunitense povero campa quanto un abitante del Sudan o del Pakistan e, invece, di migliorare, la forbice tra i più e i meno avvantaggiati si sta ampliando.

Fin qui, numeri forse sorprendenti ma tendenze prevedibili. La sorpresa che nasce dall’ampio studio pubblicato sul JAMA1 è nell’aver determinato che le persone meno abbienti che vivono in città dove gli investimenti pubblici per il welfare sono più rilevanti soffrono meno la loro condizione di svantaggio. In altri termini, a parità di reddito il povero che vive a New York o a Los Angeles vive più a lungo di quello che abita in un’area metropolitana in cui non siano messe in atto politiche di sanità pubblica aggressive.

Divieto di fumare in pubblico, promozione dell’esercizio fisico, semplice presenza di una parte della popolazione attenta agli stili di vita più salutari: anche per causa di un effetto di emulazione nei confronti delle persone più benestanti, gli abitanti dei quartieri poveri possono avere dei vantaggi.

Bibliografia

1. Chetty R, Stepner M, Abraham S, et al. The association between income and life expectancy in the United States 2001-2014. JAMA 2016; 315: 1750-66.