Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Anatomia degli errori

Quali sono gli errori più comuni nella medicina di emergenza? Quali le cause? Sulla rivista Emergency Medicine, Pat Croskerry1 (Department of Emergency Medicine, Dalhousie University, Halifax Infirmary, Canada) ha presentato una serie di articoli sulla sicurezza e sul ruolo degli errori diagnostici nella medicina di emergenza. Un aspetto, quest’ultimo, inizialmente sottovalutato dal report dell’Institute of Medicine (IOM) To err is human: building a safer health system: mentre gli errori nelle terapie sono citati 70 volte nel rapporto, quelli diagnostici sono menzionati solo 3 volte. Forse perché, ipotizza Croskerry, è più difficile individuarli e comprenderne le cause. Il nuovo rapporto dello IOM (ora National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine) Improving diagnosis in health care, colma questa lacuna.

Tra i fattori cui imputare gli errori diagnostici vanno considerati i cosiddetti “bias cognitivi”, in altre parole gli errori metodologici inconsapevoli che ci conducono a decisioni sbagliate. Il primo passo per individuarli è proprio essere consapevoli della possibilità che possano condizionare i nostri comportamenti professionali e le decisioni che prendiamo. A tal fine può essere utile uno studio come quello pubblicato su Emergency Medicine di Nnaemeka Okafor (Department of Emergency Medicine, The University of Texas, Houston) et al.2: 84 medici e 35 operatori sanitari nell’arco di quasi 5 anni hanno individuato e registrato, da circa 150 mila visite al pronto soccorso, 509 incidenti (incidents), dei quali 209 (42%) dovuti a errori diagnostici. I principali riguardavano la sepsi (9,6%), la sindrome coronarica acuta (9,1%), le fratture (8,6%) e le lesioni vascolari (8,6%).
Quali le cause principali? Tra i fattori che hanno contribuito alle diagnosi errate, quelli di natura cognitiva (n=317), di sistema (n=192) e quelli inevitabili (non-remedial) (n=106). Tra i fattori cognitivi una buona parte riguardava verifiche (41,3%) ed elaborazioni imperfette (30,6%) delle informazioni; tra i fattori imputabili al sistema: il carico di lavoro (34,4%) e le procedure inefficienti (40,1%). Tra i fattori “non rimediabili”: le presentazioni atipiche (31,3%) e l’impossibilità da parte del soggetto di fornire un’anamnesi. Danni di entità rilevante sono stati associati a 34 (16,3%) sui 209 incidenti riportati.

La ricerca di Okafor et al. rende evidente quale sia la complessità delle cause delle errate diagnosi: quasi la metà dei casi era dovuta alla combinazione di fattori cognitivi e di sistema. Alla complessità delle cause, suggeriscono gli autori, dovrebbero corrispondere interventi su più livelli, da quello organizzativo a quelli a livello cognitivo, per esempio con l’uso di checklist. Un ultimo dato emerso dallo studio è stata l’ampia disponibilità del personale medico nel riportare gli errori diagnostici, investendo oltretutto molto tempo per ricercarne le cause. Una volta individuate le cause, è stato possibile sviluppare e applicare strategie di intervento appropriate, a vantaggio della sicurezza dei pazienti.

Bibliografia

1. Croskerry P. Our better angels and black boxes. Emerg Med J 2016; 33: 242-4.

2. Okafor N, Payne VL, Chathampally Y, et al. Using voluntary reports from physicians to learn from diagnostic errors in emergency medicine. Emerg Med J 2016; 33: 245-52.




Appendicite: antibiotici o chirurgia?

L’appendicite acuta senza complicazioni viene tradizionalmente gestita con l’appendicectomia. Tuttavia, c’è un interesse crescente per il trattamento con antibiotici. Diversi studi hanno infatti evidenziato che il trattamento medico è associato a un numero inferiore di complicazioni rispetto all’intervento chirurgico. Una meta-analisi di cinque revisioni sistematiche, pubblicata sul World Journal of Surgery1, ha confrontato gli esiti dei due approcci: l’esito primario messo a fuoco dalla sintesi erano le complicazioni; gli esiti secondari studiati erano l’efficacia del trattamento, la durata del ricovero ospedaliero e il tasso di nuovi ricoveri.

I cinque trial randomizzati coinvolgevano 1430 partecipanti (727 trattati con antibiotici e 703 con appendicectomia). Ecco i principali risultati. In primo luogo, una riduzione del rischio del 39% dei tassi globali di complicazioni nei soggetti trattati con antibiotici rispetto a quelli sottoposti a intervento chirurgico (RR 0,61, 95 % CI 0,44-0,83, p=0,002). Secondo, l’assenza di differenza significativa nella durata del ricovero ospedaliero. Terzo, 123 dei 587 soggetti inizialmente trattati con successo con gli antibiotici sono stati nuovamente ricoverati con sintomi che suggerivano una recidiva dell’appendicite. Ancora, l’incidenza di complicazioni non è risultata superiore nei soggetti che si sono sottoposti ad appendicectomia dopo il mancato successo del trattamento antibiotico (10,8%), rispetto a quelli che sono stati sottoposti subito all’intervento chirurgico (17,9%).

Questo, in ordine cronologico, è l’ultimo di una serie di articoli che hanno recentemente confrontato i due trattamenti. La rivista JAMA Surgery ha dedicato, quest’anno, un editoriale al tema2, vista l’ampia risonanza del trial finlandese che, nel 2015, aveva confrontato l’uso di antibiotici e l’intervento chirurgico nell’appendicite acuta (APPAC trial)3-5. Alla luce di tali risultati, concludono gli editorialisti, in caso di appendicite acuta, l’intervento chirurgico non può più essere considerato l’unica opzione terapeutica, e che di questo si dovrà tenere conto.

Bibliografia

1. Rollins KE, Varadhan KK, Neal KR, Lobo DN. Antibiotics versus appendicectomy for the treatment of uncomplicated acute appendicitis: an updated meta-analysis of randomised controlled trials. World J Surg 2016 May 19. [Epub ahead of print]

2. Hasday SJ, Chhabra KR, Dimick JB. Antibiotics vs surgery for acute appendicitis. Toward a patient-centered treatment approach. JAMA Surg 2016; 151: 107-8.

3. Salminen P, Paajanen H, Rautio T, et al. Antibiotic therapy vs appendectomy for treatment of uncomplicated acute appendicitis: the APPAC randomized clinical trial. JAMA 2015; 313: 2340-8.

4. Livingston E, Vons C. Treating appendicitis without surgery. JAMA 2015; 313: 2327.

5. Salminen P, Grönroos JM. Treatment of uncomplicated acute appendicitis. Reply. JAMA 2015; 314: 1403-4.




Clostridium molto difficile

Pubblicato su JAMA Surgery1, uno studio statunitense ha analizzato morbilità e mortalità di pazienti con infezione da Clostridium difficile contratta successivamente a intervento chirurgico. Lo studio retrospettivo osservazionale è stato condotto su 468.386 soggetti sottoposti a chirurgia, i cui dati sono raccolti nella banca dati del Veterans affairs surgical quality improvement program. La popolazione valutata nello studio risultava composta per lo più da pazienti anziani di sesso maschile. Gli interventi erano stati eseguiti presso 134 Veterans health administrations surgery programs. A 30 giorni dall’intervento si registrava un tasso di CDI dello 0,4%, con variazioni a seconda del programma chirurgico (0,0%-1,4%) e della specializzazione chirurgica (0,0%-2,4%). I pazienti con CDI avevano tassi superiori di morbilità postoperatoria (80% vs 7,1%) e di mortalità a 30 giorni (5,3 vs 1%), e ricoveri postoperatori più lunghi (17,9 giorni vs 3,6 giorni). Quali i fattori di rischio? I tassi di CDI erano superiori nelle procedure di emergenza, nelle procedure di complessità superiore, nei soggetti più fragili, con un ricovero preoperatorio più lungo, con esposizione maggiore agli antibiotici.

Il dato più rilevante che emerge dallo studio, fa notare l’editoriale che commenta la ricerca2, è «l’aumento di 12 volte della morbilità e di 5 volte della mortalità associate alla presenza di CDI […]. Ciò può anche suggerire che le persone che sviluppano tale infezione hanno una risposta immunitaria compromessa e fanno parte di una popolazione vulnerabile ad altre infezioni nosocomiali». Risultati che sottolineano «l’importanza del controllo dell’infezione, delle strategie di prevenzione, inclusa una corretta gestione dell’uso degli antibiotici (antimicrobial stewardship)».

A questo proposito è stata recentemente presentata l’esperienza del­l’AORN Antonio Cardarelli di Napoli3. Negli ultimi anni (a partire dal 2011), è stato evidenziato un aumento di casi nelle unità operative aziendali, e il Comitato infezioni ospedaliere e il relativo gruppo operativo, nell’ambito del programma di antimicrobial stewardship, hanno elaborato nel 2014 il “Protocollo operativo sulla sorveglianza e il controllo delle infezioni da Clostridium difficile”, con l’obiettivo di ridurne l’insorgenza. In conformità a quanto indicato nel documento, il farmacista, componente del gruppo di lavoro, ha effettuato un monitoraggio dei fattori predisponenti di casi segnalati nell’anno 2014, ponendo l’attenzione sulla terapia antibiotica allo scopo di limitare i trattamenti inappropriati e quindi le diarree clostridio correlate. L’analisi delle terapie antibiotiche (in profilassi medica nell’80% dei casi) ha rilevato che i principi attivi più coinvolti sono il ceftriaxone (38%) o i chinolonici (ciprofloxacina o levofloxacina 29%), spesso associati (nel 90% dei pazienti) agli inibitori di pompa protonica che rappresentano una categoria di farmaci favorente l’infezione. L’applicazione del protocollo nell’anno 2014 ha portato a una riduzione dei casi: i pazienti coinvolti nel 2015 sono diminuiti del 34% rispetto all’anno precedente.

Bibliografia

1. Li X, Wilson M, Nylander W, et al. Analysis of morbidity and mortality outcomes in postoperative Clostridium difficile infection in the Veterans health administration. JAMA Surg 2016; 151: 314-22.

2. Waltz PK, Zuckerbraun BS. The high stakes of postoperative Clostridium difficile infection. JAMA Surg 2016; 151: 322.

3. Monti I, Serio SC, Russo C et al. Antimicrobial stewardship per la sorveglianza e il controllo delle infezioni da Clostridium difficile. Boll SIFO 2016; 62: 77-80.




Le proprietà del succo di mela

Il succo di mela potrebbe essere una valida alternativa alle soluzioni elettrolitiche orali, in bambine e bambini con una leggera gastroenterite con una disidratazione minima? Sembra di sì, secondo uno studio pubblicato sul JAMA1. In un trial clinico, 647 bambine/i canadesi di età compresa tra 6 mesi e 5 anni, con gastroenterite lieve e una minima disidratazione, sono stati randomizzati a ricevere succo di mela diluito o altri liquidi di loro gradimento (n=323), o in alternativa una soluzione elettrolitica orale al sapore di mela di colore simile a quella utilizzata nel gruppo di intervento (n=324). Alle bambine e ai bambini del secondo gruppo era stato detto che la soluzione veniva somministrata per compensare le perdite di liquidi dovute a vomito o a diarrea e veniva scoraggiata l’assunzione di altri fluidi. Tutte le pazienti e i pazienti dei due gruppi avevano ricevuto 2 litri del liquido assegnato, da utilizzare nel reparto di emergenza dove erano stati ricoverati e a casa, dopo la dimissione.

Le bambine/i cui era stato somministrato il succo di mela diluito sperimentavano un fallimento del trattamento meno spesso dei soggetti dell’altro gruppo (16,7% vs 25%). Inoltre, meno bambine/i tra quelli assegnati al gruppo del succo di mela hanno avuto bisogno di reidratazione per endovena (2,5% vs 9%).

«Tali risultati», scrivono le autrici e gli autori della ricerca, «mettono in discussione le raccomandazioni sulla somministrazione routinaria di soluzioni elettrolitiche orali di mantenimento quando inizia la diarrea». E concludono: «Nelle bambine e nei bambini con gastroenterite lieve e disidratazione minima, una reidratazione per via orale con succo di mela diluito, seguito dalle loro bevande preferite, in confronto alle soluzioni elettrolitiche orali, ha comportato meno fallimenti nel trattamento», e quindi è un’alternativa appropriata.

Bibliografia

1. Stephen B. Freedman. Effect of dilute apple juice and preferred fluids vs electrolyte maintenance solution on treatment failure among children with mild gastroenteritis. JAMA 2016; 315: 1966-74.