Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Biologici, biosimilari e questione di coerenza

Come fa un’azienda “A” a protestare contro la produzione di biosimilari dei propri farmaci biologici, quando a sua volta sta avviando la procedura per l’approvazione da parte della Food and Drug Administration della propria versione biosimilare del biologico dell’azienda “B”? E come può succedere che un’altra grande azienda farmaceutica stia facendo lo stesso, con la sua copia di un biologico dell’azienda “A”? Sembra uno scioglilingua e invece si tratta del nuovo scenario che riguarda il mondo dei farmaci biologici.

Lo fa notare il giornalista scientifico Max Nisen sul sito di notizie Bloomberg Gadfly: «Le aziende farmaceutiche e biotech sostenevano che i biosimilari non sarebbero mai stati copie più economiche dei loro prodotti, e che non sarebbero stati prescritti perché sono prodotti completamente diversi»1. Ora queste stesse aziende sono entrate a far parte del “gioco dei biosimilari”. E i loro prodotti “sono eccellenti”.

Il biosimilare, lo ricordiamo, è «un medicinale sviluppato in modo da risultare simile a un medicinale biologico che è già stato autorizzato (il così detto “medicinale di riferimento”). I medicinali biosimilari, dunque, differiscono dai farmaci generici che hanno strutture chimiche più semplici e che sono considerati identici ai loro medicinali di riferimento. Il principio attivo di un biosimilare e quello del suo medicinale di riferimento sono di fatto la stessa sostanza biologica, tuttavia possono essere presenti differenze minori dovute alla loro natura complessa (sono proteine) e alle tecniche di produzione. Come il medicinale di riferimento, il biosimilare presenta un certo grado di variabilità naturale. Un biosimilare viene approvato quando è stato dimostrato che tale variabilità naturale ed eventuali differenze rispetto al medicinale di riferimento non influiscono sulla sicurezza o sull’efficacia» (Definizione EMA del 2012, riportata dall’AIFA)2.

Prodotti che, in alcuni casi, si legge nel Secondo Concept Paper AIFA sui “Farmaci biosimilari” (reso disponibile per consultazione pubblica fino al ١٥ settembre ٢٠١٦), in quanto ottenuti «da processi produttivi più innovativi rispetto a quelli del farmaco di riferimento», possono «presentare profili di qualità, per esempio in termini di impurezze e di aggregati, persino migliori rispetto all’originatore».




«Sarà dura per le aziende», dice Nisen, «dirsi a favore di alcuni biosimilari e, allo stesso tempo, opporsi ad altri, che sono in competizione con i propri farmaci biologici». E tra poco, aggiunge, sarà difficile sostenere che biosimilari e generici sono completamente diversi. I dati dal mondo reale, conclude, aiuteranno i medici a prendere decisioni sulla prescrizione di biosimilari con più serenità.

Per un approfondimento, vi segnaliamo il “Secondo concept paper AIFA sui farmaci biosimilari” del 15 giugno 20163: dopo aver chiarito le differenze tra farmaci biologici e biosimilari, espone la normativa vigente nell’Unione Europea in merito ai medicinali biosimilari. Nel nuovo documento troviamo le novità che dovrebbero portare a un più chiaro e semplice utilizzo dei biosimilari riguardo ai seguenti punti chiave:

non si fa più menzione dei pazienti naïve, ossia di quelli fino a oggi mai esposti ai farmaci biologici. Nella passata edizione sembrava che questi farmaci andassero riservati solo a chi non era mai stato esposto prima a questi medicinali;

il garante della sovrapponibilità terapeutica è l’EMA. Una volta che quest’ultima riconosce la biosimilarità, la partita sul se e come i biosimilari sono da considerarsi sovrapponibili per efficacia e sicurezza va considerata chiusa;

lo stesso vale per l’estrapolazione delle indicazioni terapeutiche. In pratica se un farmaco originatore ha più indicazioni approvate, è l’EMA che dà il via libera, affinché queste possano essere trasferite al suo biosimilare;

lo spostamento tra un biologico e un biosimilare deve essere gestito dal medico prescrittore. Tuttavia, l’AIFA considera che i biosimilari costituiscono un’opzione terapeutica il cui rapporto rischio-beneficio è il medesimo di quello dei corrispondenti originatori di riferimento, come dimostrato dal processo regolatorio di autorizzazione. Tale considerazione vale anche per i pazienti già in cura, nei quali l’opportunità di sostituzione resta affidata al giudizio clinico;

non vengono richieste particolari “informazioni di riguardo” per il paziente esposto ai nuovi farmaci biosimilari. Se l’EMA li considera sovrapponibili, bisogna fidarsi.

Un documento ampio, del quale qui ci limitiamo a riportare le conclusioni: «I medicinali biosimilari rappresentano, dunque, uno strumento irrinunciabile per lo sviluppo di un mercato dei biologici competitivo e concorrenziale, necessario alla sostenibilità del sistema sanitario e delle terapie innovative, mantenendo garanzie di efficacia, sicurezza e qualità per i pazienti e garantendo loro un accesso omogeneo e tempestivo ai farmaci innovativi, pur in un contesto di razionalizzazione della spesa pubblica».

Bibliografia

1. Nisen M. With biosimilars, Big Pharma fights itself, Bloomberg Gadfly, 12/07/16 (http://www.bloomberg.com/gadfly/articles/2016-07-12/biosimilars-get-more-generic-thanks-to-big-pharma).

2. AIFA. Consultazione pubblica sul secondo concept paper AIFA sui farmaci biosimilari, 15/06/2016 (http://www.agenziafarmaco.gov.it/it/content/consultazione-pubblica-sul-secondo-concept-paper-aifa-sui-%E2%80%9Cfarmaci-biosimilari%E2%80%9D).

3. AIFA. Secondo concept paper AIFA sui farmaci biosimilari, 15/06/2016 (http://www.agenziafarmaco.gov.it/sites/default/files/Secondo_Concept_Paper_AIFA_BIOSIMILARI.pdf).

Peer review corrotta e inaffidabile: come la scienza

«Chiunque sia coinvolto nella peer review porta con sé pregiudizi, incomprensioni e lacune nella propria conoscenza e perciò nessuno dovrebbe stupirsi che la revisione critica sia spesso un processo distorto o poco efficiente». Drummond Rennie sembra esserne certo: una delle cose che ha più studiato nella sua vita professionale – la revisione critica – è da salvare. Nominato deputy editor del New England Journal of Medicine nel 1977, Rennie ha attraversato 40 anni di tempeste e successi dell’editoria medico-scientifica, testimone di non poche nefandezze, alcune delle quali raccontate su Nature del 5 luglio 20161. I limiti dello strumento sono noti: la peer review non funziona se l’obiettivo è proteggere le riviste dai falsi e dalla cattiva condotta dei ricercatori. Non è sufficiente neanche se la finalità è evitare che gli studi proposti dagli autori alle riviste siano loro sottratti da revisori senza scrupoli.

I diversi congressi dedicati alla peer review hanno avuto Rennie tra i più appassionati organizzatori e sono serviti per valutarne opportunità e limiti, considerarne il costo, stimare la probabilità di disaccordo tra revisori e la frequenza con cui si verificano casi di cattiva condotta. Dal primo congresso di Chicago del 1989, sono stati condotti diversi trial: per mettere alla prova la peer review cieca (autore sconosciuto al revisore oltre che viceversa), la peer review successiva alla pubblicazione (post publication), l’open peer review (accettazione dei lavori proposti solo sulla base del rispetto di criteri formali e una sorta di discussion on going aperta a tutti i lettori e così via). Non è stato ottenuto alcun risultato utile a chiarire le perplessità o a preferire l’una alle altre alternative e, quando viene affrontato il discorso, quasi sempre si finisce a commentare come Churchill a proposito della democrazia: «It is the worst form of government, except for all the others».




Secondo Rennie, la strada da battere è uniformarsi agli standard delle organizzazioni (vedi l’attività della Cochrane) e delle istituzioni (prende a esempio il Meta-Research Innovation Center di Stanford diretto da John P. Ioannidis) che nel raccomandare rigore propongono checklist e percorsi minimamente flessibili che autori, direttori delle riviste e revisori dovrebbero seguire. C’è chi è convinto, invece, che il problema sia “più a monte”: «Peer review is an expensive, inefficient, ineffective, and easily abused waste of time, but it keeps a lot of people employed», twittava Richard Smith il 13 luglio 2014. La ragione per cui viene conservata è la stessa per cui si evita di mettere in discussione la pubblicazione dei risultati della ricerca nelle riviste scientifiche: un quadro realistico è offerto da una editor di BioMed Central. “From my viewpoint, journal publishing and peer review are definitely here to stay, but editors and publishers need to make sure that authors and readers understand the benefits that it brings. The process must be as pain-free and efficient as possible for authors, reviewers and editors alike»2. Vedremo.

Bibliografia

1. Rennie D. Let’s make peer review scientific. Nature 2016; 53: 31-3.

2. Kowalczuk M. Are journals ready to abolish peer review? http://blogs. biomedcentral.com/bmcblog/ 2014/04/11/are-journals-ready-to-abolish-peer-review-2/

Conflitto di interessi: la trasparenza conviene

A parole, il mondo dell’editoria scientifica è stato tra i primi a dedicare attenzione ai conflitti di interessi. Bill Clinton succedeva a George W. Bush, un pazzo fanatico della Graf accoltellava la Seles e i direttori delle più famose riviste di medicina preparavano un documento destinato a diventare un riferimento obbligato per regolare i “competing interests”1: era il 1993. Dopo oltre 20 anni, quella linea di indirizzo è ancora valida, commentano Roberta Rampazzo e Andrea Messori sul BMJ2. «Eppure, in molti paesi – e tra questi l’Italia – la pratica di dichiarare i propri conflitti di interesse è poco diffusa, in particolare perché è percepita spesso come un’incombenza burocratica invece di una forma di validazione scientifica». Inoltre, se a livello di commissioni ministeriali e di governo nazionale è una procedura adeguatamente rispettata, in ambito regionale è una prassi largamente disattesa.

Il modello di disclosure dell’International Committee of Medical Journal Editors potrebbe essere utilizzato dalle commissioni terapeutiche regionali per raccogliere le dichiarazioni dei propri membri. Una rapida survey condotta da Rampazzo e Messori su dieci regioni italiane ha dato risultati sconfortanti: solo nel Lazio, in Emilia-Romagna e in Veneto è obbligatorio compilare la dichiarazione e solo nella prima delle tre regioni è messo a disposizione un modulo predefinito, tale da vincolare maggiormente chi lo compila.




C’è da scommettere che i clinici e i ricercatori più riservati o reticenti nel dichiarare i propri interessi privati avrebbero un atteggiamento differente se sapessero delle ricerche di Sunita Sah. Medico e bioeticista, Sah insegna alla Cornell University e studia i processi decisionali soprattutto in rapporto alla trasparenza dell’informazione e all’influenza delle dichiarazioni di conflitto di interesse. Come spiega in un articolo uscito sul New York Times3, la presenza di una disclosure influenza il modo in cui ci accostiamo al contenuto che ci viene proposto e, fin qui, potevamo aspettarcelo. Se leggendo un articolo vediamo l’autore dichiarare l’assenza di conflitto di interessi ci accostiamo al contenuto rinfrancati.

Ma la cosa interessante è che se vediamo ammettere in modo trasparente un’attività di consulenza o il ricevimento di somme di denaro da parte di industrie, ci accostiamo al contenuto con maggiore fiducia rispetto a quella che avremmo nei confronti di un articolo privo di dichiarazione di conflitto di interessi. Bel problema, direbbe una persona onesta: se accompagnato da una disclosure, un punto di vista fraudolento o condizionato fa comunque più presa sul lettore rispetto a un articolo “indipendente”.

Questione complicata che può trovare un’unica, impossibile, soluzione: se diversi anni fa Richard Smith sosteneva che la disclosure fosse la soluzione più comune, oggi l’unica strada percorribile è quella di non avere conflitti di interesse.

Bibliografia

1. International Committee of Medical Journal Editors. http://www.icmje.org/conflicts-of-interest/

2. Rampazzo R, Messori A. Disclosing potential conflicts of interests in 2016: state of the art in Italy. BMJ 2016;354:i3730.

3. Sah S. The paradox of disclosure. New York Times 2016; 8 luglio.