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Il numero dei ricercatori in medicina e biologia cresce costantemente da molti anni. Le ragioni vanno dall’aumento della scolarizzazione nelle nazioni emergenti ai finanziamenti che, nonostante tutto, molti Paesi continuano a garantire alla ricerca pubblica. A questo straordinario impegno, però, non corrispondono i risultati che sarebbe lecito attendersi. «La produttività della ricerca è in rapido declino», osservano Nicholas Bloom, Charles I. Jones, John van Reenen e Michael Webb in un lavoro pubblicato sul web in versione preliminare1. Un’analisi che prende in esame diversi indicatori: per esempio, l’andamento del numero di “anni di vita salvati” dal 1975 a oggi per ciascuna sperimentazione clinica o per il numero di pubblicazioni indicizzate. Ancora, il numero di molecole approvate dalla Food and Drug Administration o la mortalità a cinque anni dei pazienti con diagnosi di cancro dal 1970 a oggi, sempre in rapporto all’aumento degli studiosi impegnati nella ricerca. Si studia di più ma si ottiene di meno rispetto a un tempo. Perché? Difficile dirlo. Una ragione può essere la complessità sempre maggiore delle sfide che ci si trova davanti o la tentazione di dedicarsi prioritariamente alla soluzione dei problemi più semplici. Ma sono solo ipotesi.

Aumentano i ricercatori, e la conseguenza diretta – questa sì – è la proliferazione degli articoli scientifici. Un diluvio sostenuto dalla nascita costante di nuove case editrici e di riviste non a caso definite predatrici, perché ignorando qualsiasi ambizione culturale fanno semplicemente leva sul bisogno di pubblicare. Sono oggi 1155 gli editori scientifici “predatori” rispetto ai 23 di 5 anni fa2. Come ottenere visibilità in questo mare di cose inutili o non vere? (vedi pag. 6) Uno studio uscito su PLoS One3 – riferito agli studi sui cambiamenti climatici ma forse generalizzabile – mostra che le riviste di maggiore impatto e i ricercatori più autorevoli scelgono la strada della narrazione: «This effect is closely associated with journal identity: higher-impact journals tend to feature more narrative articles, and these articles tend to be cited more often. These results suggest that writing in a more narrative style increases the uptake and influence of articles in climate literature, and perhaps in scientific literature more broadly».

Lo storytelling emerge come strumento di disseminazione della scienza e va di pari passo con la presenza attiva dei ricercatori sui social media, con le opportunità ma anche i rischi che ne discendono (vedi pag. 13). Storytelling e social: strumenti delicati e non sempre facili da usare, però, soprattutto negli anni della post-verità. Nel momento in cui uno studioso accetta la sfida, deve oltrepassare un confine, accettando di mettersi in discussione perché la comunicazione non è mai unidirezionale e impone il confronto e il dialogo. A chi gli chiedeva quale fosse il suo mestiere, il critico d’arte e scrittore John Berger rispondeva di essere, per l’appunto, uno storyteller, specificando: «If I’m a storyteller it’s because I listen. For me, a storyteller is like a passeur who gets contraband across a frontier»4.

Se vuole comunicare, il ricercatore deve sconfinare e, soprattutto, essere pazientemente capace di ascoltare e di mettere in discussione le proprie certezze.

Bibliografia

1. http://www-leland.stanford.edu/~chadj/IdeaPF.pdf

2. http://scholarlyoa.com/

3. Hillier A, Kelly RP, Klinger T. Narrative style influences citation frequency in climate change science. PLoS ONE 2016; 11: e0167983.

4. https://www.theguardian.com/books/2016/oct/30/john-berger-at-90-interview-storyteller

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