Dal mild cognitive impairment alla demenza:
qual è il ruolo della sanità pubblica?

Nicola Vanacore1, Alessandra Di Pucchio1, Eleonora Lacorte1, Ilaria Bacigalupo1,
Flavia Mayer1, Giulia Grande2, Matteo Cesari3, Marco Canevelli4

1Centro Nazionale per la Prevenzione delle Malattie e la Promozione della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Roma; 2Centro di Ricerca e Trattamento dei Disturbi Cognitivi, Dipartimento di Scienze Biomediche e Clinica, Ospedale “Luigi Sacco”, Università di Milano; 3Gerontopole, Università di Tolosa III-Paul Sabatier, Tolosa, Francia; 4Dipartimento di Neurologia e Psichiatria, Sapienza Università di Roma.

Pervenuto su invito il 21 aprile 2017.

Riassunto. Il mild cognitive impairment (MCI) è un’entità nosologica proposta da Petersen nel 1999 con la finalità di identificare la fase precoce della demenza. I nuovi criteri diagnostici di demenza, sia quelli promossi dall’International Working Group (IWG) sia quelli definiti dal National Institute of Aging (NIA), hanno successivamente introdotto un nuovo modello che inizia con una fase preclinica, prosegue con una fase prodromica, per poter poi evolvere in una fase franca di demenza. Tra la fase preclinica e quella prodromica è stata inclusa la condizione del disturbo soggettivo cognitivo (SCD). La maggior parte dei clinici considera il MCI e il SCD come delle patologie e non come fattori di rischio di demenza. In questo contesto, urge applicare un paradigma di sanità pubblica. Una diagnosi di SCD o MCI presenta numerose incertezze e confonde l’aspetto della ricerca con quello della pratica clinica. Un gran numero di soggetti con SCD e MCI non andrà mai incontro a una franca demenza e una quota di loro può anche ritornare a un profilo cognitivo normale. La comunicazione di queste diagnosi a un soggetto ha implicazioni etiche che non si possono ignorare. La diffusione di queste diagnosi nella popolazione generale ha le caratteristiche del fenomeno dell’over-diagnosis e, conseguentemente, dell’over-treatment. I nuovi criteri, inoltre, implicano l’uso di biomarcatori che non sono ancora validati per l’uso nella pratica clinica corrente. A oggi, non sono ancora disponibili studi di popolazione condotti con i nuovi criteri diagnostici di demenza. Ciò implica che probabilmente le nuove stime saranno più del doppio di quelle attuali e includeranno anche soggetti che non andranno incontro a una franca demenza. In questo incerto contesto epidemiologico, appare urgente implementare programmi di sanità pubblica per la prevenzione primaria e secondaria delle demenze. Inoltre, le sperimentazioni cliniche sui farmaci nel MCI attualmente utilizzano endpoint basati su biomarcatori non validati, sollevando la questione della validità esterna dei risultati. Appare urgente elaborare una linea-guida pubblica che supporti il medico nell’identificare tutte le possibili cause di un deterioramento cognitivo in persone che sono prevalentemente in età avanzata, con pluripatologie e politrattamenti farmacologici. Infine, l’ampia diffusione della valutazione neuropsicologica nella pratica clinica corrente richiede un’accurata validazione di tale strumento.

Parole chiave. Demenza, mild cognitive impairment, sanità pubblica.

From mild cognitive impairment to dementia: what is the role of public health?

Summary. Mild cognitive impairment (MCI) is a nosological entity proposed by Petersen in 1999 with the objective of identifying an early stage of dementia. The new diagnostic criteria for dementia, both those promoted by the International Working Group (IWG) and those defined by the National Institute of Aging (NIA), subsequently introduced a new model that starts with a preclinical phase, then proceeds with a prodromal phase, and ends with a phase of dementia. The condition known as subjective cognitive disorder (SCD) is included between the preclinic and the prodromal phases. Most clinicians improperly consider MCI and SCD as diseases, and not as risk factors for dementia. This ambiguous scenario requires the application of a public-health standard. A diagnosis of either SCD or MCI comes with several uncertainties, raising issues pertaining to both the research setting and clinical practice. A large proportion of subjects with either SCD or MCI will never progress to dementia, and part of them may even revert to a normal cognitive profile. Thus, communicating of these diagnoses to a subject has ethical implications that cannot be underestimated. The frequency of these diagnoses in general population is starting to show the characteristics of both the phenomena of over-diagnosis, and consequently over-treatment. Moreover, the new criteria require the use of biomarkers, that are not yet validated for the use in clinical practice. No population studies are currently available performed based on the new diagnostic criteria for dementia. This means that future estimates will probably be more than twice the current ones, and will include also subjects that will not progress to dementia. This undefined framework, thus, urges the implementation of public-health programs aimed at both the primary and secondary prevention of dementias. Moreover, clinical trials on drugs in MCI currently use endpoints based on non-validated biomarkers, thus raising the issue of the external validity. A public guideline would thus be crucial to support clinicians in identifying all the possible causes that can determine a cognitive decline people that are mainly elder, with multiple comorbidities, and taking multiple medications. Moreover, the widespread use of neuro-psychological assessment tools in current clinical practice requires an accurate validation of these instruments.

Key words. Dementia, mild cognitive impairment, public health.




Definizione del mild cognitive impairment

Fin dagli anni ’60 si è tentato di definire una specifica categoria nosologica caratterizzata dalla presenza di un deficit cognitivo isolato in soggetti di età adulta-anziana non affetti da demenza. Ciò al fine di poter identificare una fase di transizione dall’invecchiamento fisiologico a quello patologico che potesse essere utile alla comprensione della fase precoce della storia naturale delle demenze. Nel corso degli ultimi decenni, sono state quindi proposte diverse possibili categorie quali Benign Senescent Forgetfulness, Age Associated Memory Impairment (AAMI), Age Associated Cognitive Decline (AACD), Cognitive Impairment No Dementia (CIND) e infine Mild Cognitive Impairment (MCI). Con quest’ultima entità, proposta da Petersen nel 1999, si definisce una condizione caratterizzata da disturbo soggettivo di memoria (preferibilmente confermato da un familiare), deficit di memoria (rispetto a valori normativi corretti per età e scolarità) documentato dai test cognitivi; assenza di altri deficit cognitivi; normali abilità nelle attività quotidiane; assenza di demenza1.

Successivamente Petersen ha modificato questi criteri inserendo nell’operazionalizzazione del MCI anche una condizione di minima compromissione nelle attività di vita quotidiana, rendendo quindi tale entità sempre più simile a uno stadio inziale della demenza2. Il costrutto del MCI è stato poi successivamente ridefinito in una Consensus Conference tenutasi a Stoccolma nel settembre del 2003 in quattro specifiche entità in rapporto alla compromissione o integrità della memoria: single-domain amnestic MCI (caratterizzato dall’esclusivo deficit mnesico); single-domain non-amnestic MCI (con compromissione di una singola funzione cognitiva ma non della memoria); multi-domain amnestic MCI (definito dal coinvolgimento di multipli domini cognitivi inclusa la memoria); multi-domain non-amnestic MCI (multipli domini cognitivi esclusa la memoria)3. L’eziopatogenesi di queste quattro entità viene attribuita a fattori degenerativi, vascolari, metabolici, traumatici, psichiatrici o di altra natura3.

Epidemiologia del mild cognitive impairment

La ricerca del termine “MCI” identifica su PubMed 34.282 articoli, con un incremento dal 1999 al 2016 del 929%4. Le stime di prevalenza del MCI negli studi di popolazione sono piuttosto variabili (dal 3% al 42%), secondo la definizione utilizzata, gli strumenti adottati, i valori normativi per dicotomizzare le variabili di interesse e le caratteristiche dello studio utilizzato5.

Recentemente, un consorzio internazionale (Cohort Studies of Memory in an International Consortium-COSMIC) ha tentato di armonizzare le evidenze prodotte dagli studi di popolazione applicando criteri uniformi di MCI. È stata così stimata una prevalenza del MCI pari al 5,9% nella popolazione con età superiore ai 60 anni, con un incremento per fasce d’età dal 4,5% tra 60 e 69 anni al 5,8% tra 70 e 79 anni fino al 7,1% tra gli 80 e gli 89 anni6. La sintomatologia depressiva rappresenta senza dubbio uno dei più rilevanti fattori che concorrono a determinare questa eterogeneità. In una revisione sistematica di 57 studi che avevano arruolato 20.892 persone con MCI, è stata calcolata una prevalenza complessiva di depressione (sulla base di criteri cognitivi o di valutazioni funzionali) pari al 32% (IC95%: 27%-37%) con una rilevante differenza tra i 29 studi condotti in ospedale (40%; IC95%: 32%-48%) rispetto ai 28 effettuati nella popolazione generale (25%; IC95%: 19%-30%)7. Esistono invece pochissimi studi sull’incidenza del MCI nella popolazione generale che riportano stime comprese tra 5,1 e 168 casi per 1000 anni persona8.

Tuttavia, la misura epidemiologica più interessante dal punto di vista clinico e di sanità pubblica è senza dubbio il tasso annuale di incidenza di demenza in soggetti con MCI o tasso di conversione. In una meta-analisi di 41 studi di coorte di soggetti con MCI con un follow-up di almeno 3 anni si rileva che meno della metà dei soggetti progredisce a demenza. Il tasso annuo di conversione (corretto per dimensione dello studio) da MCI a demenza, demenza di Alzheimer e demenza vascolare era rispettivamente del 9,6%, 8,1% e 1,9% nel contesto clinico e del 4,9%, 6,8% e 1,6% negli studi di popolazione9. In questo quadro epidemiologico alquanto complesso ed eterogeneo, sono state recentemente pubblicate due meta-analisi miranti a studiare la spontanea regressione del MCI a un normale profilo cognitivo (NC)10,11.

Nella prima meta-analisi sono stati inclusi studi longitudinali condotti su soggetti con MCI pubblicati dal 1999 al novembre del 2015. Sono stati inclusi studi con un follow-up ≥2 anni, che riportavano il numero di soggetti con MCI che convertivano alla condizione di NC. Gli studi sono stati qualitativamente valutati con la scala QUIPS (Quality in Prognostic Studies). Sono stati inclusi 25 studi con una qualità complessiva moderata. Il tasso di conversione complessivo dal MCI a NC è stato del 18% (IC95%: 14%-22%) con una differenza che va dall’8% (IC 95%: 4%-11%) negli studi condotti in ambito clinico al 25% (IC95%: 19%-30%) in quelli condotti nella popolazione generale. Se si considerano solo gli studi di migliore qualità, il tasso di conversione dal MCI a NC raggiunge il 26%10. In una seconda meta-analisi condotta su 25 studi il tasso di conversione dal MCI a NC era del 24% con un valore del 14% riportato negli studi di popolazione rispetto al 31% rilevato in quelli condotti in ambito clinico11.

I fattori associati a una più frequente reversione alla normalità sono risultati essere: la presenza di comorbilità urologiche, respiratorie e psichiatriche12; punteggi più alti di Mini-Mental State Examination (MMSE) e più basso di Clinical Dementia Rating (CDR) e Functional Activities Questionnaire (FAQ); la diagnosi di MCI a singolo dominio non amnesico; e un profilo di APOE diverso dall’ε413.

Nuovi criteri per la diagnosi di demenza

Nonostante il MCI appaia ancora oggi come una “entità in cerca di identità” che deve quindi essere maggiormente caratterizzata dal punto di vista biologico, neuropsicologico, clinico ed epidemiologico, dal 2007 il costrutto di MCI è inserito nei nuovi criteri diagnostici di demenza, sia quelli promossi dall’International Working Group14 sia quelli definiti dal National Institute of Aging (NIA)15,16.. I nuovi criteri (seppure con qualche differenza nella tipologia del MCI e nel ruolo dei biomarcatori nella pratica clinica corrente) introducono implicitamente un nuovo paradigma di demenza di Alzheimer. Si introduce, cioè, un concetto di malattia che inizia con una fase preclinica, si sviluppa con una prodromica (“MCI due to AD”) per poter infine evolversi in una fase finale di demenza conclamata. A rendere più complesso lo spettro delle diverse fasi della demenza, si introduce, tra la fase preclinica e prodromica, l’ambigua condizione del disturbo soggettivo cognitivo (subjective cognitive decline - SCD) che identifica un soggetto con una percezione di un declino cognitivo in presenza di una valutazione neuropsicologica nella norma17.

In maniera simile, l’introduzione del DSM-5 ha portato in seguito a una classificazione dei disturbi cognitivi in “mild neurocognitive disorder” (che potrebbe richiamare il costrutto del MCI) e in “major neurocognitive disorder” (che include le diverse tipologie di demenza). È interessante notare, tuttavia, che il “mild neurocogntive disorder” ha delle caratteristiche fenotipiche diverse dal MCI (allargando lo spettro sintomatologico a manifestazioni non necessariamente cognitive) e sembra essere meno frequente nella popolazione generale18. In generale, questo importante cambiamento nosologico ha condotto la maggior parte dei clinici a considerare nella loro pratica il MCI e successivamente anche il SCD come una patologia da identificare e trattare nella pratica quotidiana, piuttosto che come una condizione di rischio di demenza.

Un punto di vista di sanità pubblica

In questo scenario caratterizzato da ambiguità e contraddizioni, urge applicare un approccio pragmatico e paradigmatico di sanità pubblica su SCD, MCI e demenze:

1. Le condizioni cliniche di SCD o MCI presentano numerose incertezze e confondono l’aspetto della ricerca con quello della pratica clinica. Dalla letteratura esistente, si evince come un gran numero di soggetti con SCD e MCI non andrà incontro all’insorgenza di demenza (come comunemente si è lasciato intendere per decenni applicando i criteri ICD o DSM). Anzi, una quota rilevante di soggetti con queste condizioni può anche ritornare spontaneamente a un profilo cognitivo normale10,11. Presentare queste condizioni sottoforma di diagnosi ha implicazioni etiche che non si possono ignorare. Etichettare una persona con queste “diagnosi” di ambigua valenza clinica può facilmente portare stress e ansia, potenzialmente generando un aumento di esami e approfondimenti diagnostici spesso non necessari19,20. Queste diagnosi “incerte” possono anche causare discriminazione o stigmatizzazione dell’individuo. È abbastanza comprensibile da tutto ciò come le entità nosologiche di SCD, MCI e demenza nella popolazione generale siano fortemente esposte al rischio di generare over-diagnosis (con una tendenza alla misclassificazione della miriade di condizioni mediche e sociali associate al deficit cognitivo) e conseguentemente determinare l’over-treatment del soggetto. Differentemente, il SCD o il MCI dovrebbero essere considerati possibili fattori di rischio di insorgenza della demenza ed espressioni più ampie di una fragilità cognitiva e fisica21. L’approccio epistemologico dovrebbe essere quello di considerare la funzione cognitiva come un processo continuo che viene suddiviso in costrutti categorici solo per comodità clinica (SCD, MCI). La categorizzazione delle variabili implica necessariamente la scelta arbitraria delle soglie tra ciò che è fisiologico e quello che è patologico. Tutte queste artificiali categorizzazioni non pregiudicano il carattere multidimensionale e longitudinale della traiettoria della funzione cognitiva21.

2. I nuovi criteri per porre diagnosi di demenza di Alzheimer proposti dall’International Working Group14 e di “MCI due to AD” proposti dal NIA16 implicano l’uso di biomarcatori liquorali e di neuroimaging. Questi criteri tendono a confondere un’attività specifica di ricerca con l’uso di una metodologia nella pratica clinica corrente. Ciò si traduce nella paradossale promozione di procedure diagnostiche nella pratica clinica ancor prima che queste vengano validate appropriatamente in ambito di ricerca, rendendole quindi inappropriate. In una revisione sistematica della Cochrane condotta su 1172 soggetti con MCI identificati in 15 studi è stato rilevato che nel corso di un follow-up fino a 4 anni, 430 convertono a demenza di Alzheimer e 130 ad altre forme di demenza22. Le conclusioni della revisione sottolineano l’insufficienza e l’eterogeneità delle evidenze disponibili che conducono a uno stato di incertezza per quanto riguarda il valore dei biomarcatori liquorali nella diagnosi della malattia di Alzheimer nella pratica clinica corrente. Inoltre, viene sottolineato il rischio nella pratica clinica di una misdiagnosis e di una over-diagnosis di demenza e conseguentemente di un over-treatment22.

3. Nel 2015, vi erano circa 46 milioni di persone affette da demenza al mondo; si stima che nel 2050 questo valore incrementerà fino a 131,5 milioni. Questi dati sono stati ottenuti considerando gli studi epidemiologici che hanno utilizzato i criteri ICD e DSM23. A oggi, non sono ancora disponibili studi di popolazione condotti con i nuovi criteri per la diagnosi di demenza. Esiste la possibilità concreta che le nuove stime potranno essere più del doppio di quelle attuali, includendo soggetti con disturbi cognitivi di ambigua definizione e che non andranno mai incontro a una franca demenza. In questo incerto contesto epidemiologico appare urgente implementare programmi di sanità pubblica per la prevenzione primaria e secondaria delle demenze. Sono stati individuati sette fattori di rischio potenzialmente modificabili associati all’insorgenza della demenza di Alzheimer, quali il diabete, l’ipertensione in età adulta, l’obesità in età adulta, il fumo, la depressione, la bassa scolarizzazione e l’inattività fisica24. Si stima che circa il 30% dei casi di demenza di Alzheimer siano potenzialmente attribuibili all’insieme di questi fattori24. Sono inoltre disponibili evidenze che la progressione da MCI a demenza possa essere evitabile grazie a una regolare stimolazione fisica e mentale e il controllo dei fattori di rischio cardiovascolari25.

4. Su clinicaltrial.gov sono in corso o terminati 421 studi sul MCI e farmaci26. Di questi, 103 (24%) hanno utilizzato anche un biomarcatore come end-point primario e/o secondario26. Esistono quindi perplessità sull’uso di biomarcatori non validati nella ricerca clinica finalizzata all’individuazione di nuove terapie e sul conseguente tema della validità esterna dei risultati di questi studi clinici. In particolare, risulta quanto meno prematuro giudicare il successo o meno di un determinato intervento sulla base della variazione di un biomarcatore in un contesto (le demenze) che ancora presenta ampie zone d’ombra circa i meccanismi fisiopatologici di base.

5. Appare urgente elaborare una linea-guida pubblica che aiuti il medico a orientarsi su tutte le possibili cause di un deterioramento cognitivo di una persona, soprattutto in età avanzata, con pluripatologie e politrattamenti farmacologici27. In questo senso, è importante prevedere una corretta informazione ed educazione diretta verso i professionisti del settore medico come anche dei media e della popolazione generale. Gli eccessi attuali nell’ambito delle demenze sono spesso frutto di una cattiva lettura dei dati. Molto spesso l’aspetto emotivo ha il sopravvento sul rigore scientifico, tanto da rendere giustificato l’ingiustificabile.

6. L’ampia diffusione della valutazione neuropsicologica nella pratica clinica corrente, soprattutto quando si cerca di definire un deficit cognitivo lieve nella popolazione anziana, richiede che i test neuropsicologici siano validati su campioni consistenti e rappresentativi28. Per fare questo, non si può ignorare la multidimensionalità del disturbo cognitivo e adottare approcci che possano identificare in cause non neurologiche (e molto spesso ambientali) la natura del problema.

7. Bisogna prendere coscienza delle ricadute a livello scientifico/di ricerca che l’abbassamento della soglia patologica determina. Quando il cut-point diagnostico si abbassa, aumenta la popolazione “da trattare”, e si include un numero esponenzialmente maggiore di “falsi positivi”. Questi individui subiscono i problemi di una diagnosi inesistente (in termini di stress, ansia, costi da sostenere, trattamenti inutili se non dannosi…). Allo stesso tempo, in ambito di ricerca, si riduce l’effect size di trattamenti potenzialmente efficaci poiché l’eterogeneità della popolazione target diluirà gli eventuali risultati positivi.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

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