Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

In Treatment: se l’analisi finisce




Tra gli ultimi e più controversiali testi di Sigmund Freud va annoverato senz’altro Analisi terminabile e interminabile (1937). Quando una psicoanalisi può considerarsi finita? E chi lo stabilisce? Un argomento assai complesso, tra quelli che hanno arricchito la terza serie italiana di In Treatment. La serie si è chiusa, ed in Italia non ne sono previste altre. Come a dire: l’analisi è comunque terminabile. Come se alla terapia psicoanalitica potesse mettersi un punto. Davvero? A tener desto l’interrogativo, si è incaricata la brillante sceneggiatura dei 35 episodi trasmessi quest’anno, per la regia di Saverio Costanzo e Edoardo Gabbriellini. Per bocca del primo protagonista, il dottor Pietro Mari, lo psicoanalista freudiano interpretato dall’eccellente Sergio Castellitto. Il quale finisce la puntata della sesta settimana congedandosi dalla collega Adele − Giovanna Mezzogiorno, che ultimamente aveva svolto la funzione di suo supervisore − chiedendole di chiudere la porta dietro le sue spalle, una volta uscito: in quella stanza d’analisi lui non tornerà più. Né aprirà più il proprio studio per pazienti vecchi e nuovi. Tuttavia, Adele ha l’ultima parola, confermandogli invece che il suo studio per lui resterà sempre aperto. L’analisi, allora, finisce o non finisce? Quel che è certo è che Mari è stanco. Fin dalla prima annata il pubblico, via via più appassionato e fidelizzato, si è chiesto se il vero paziente – l’analizzante, direbbe Lacan – non fosse lui, più che le persone che gli si sedevano davanti, nel divano che in TV ha rimpiazzato il lettino, che troppe resistenze e antipatie avrebbe suscitato. Dopo la seconda serie, Mari si era già concesso una pausa salutare. Gli analisti non sono macchine, la realtà esterna e le turbolenze interne e familiari erano divenute troppo intense: un divorzio tardivo, le crisi adolescenziali dei due figli, la morte del padre ed il timore di un Parkinson avevano rafforzato una deriva personale già evidente. Pietro non era più convinto del proprio “mestiere”, del proprio ruolo, per quanto s’impegnasse e riuscisse anche a risultare efficace e convincente con i suoi pazienti. Almeno, a giudizio di alcuni soci della Società Psicoanalitica Italiana che in questi tre anni hanno seguito la serie, commentandola dal sito ufficiale della SPI (www.spiweb.it/cinema-serie-tv/1028-in-treatment-terza-stagione). La psicoanalisi ha passato il secolo. Ha amici e detrattori, ma dà ancora prove continue di vitalità, continuando a rivoluzionare sé stessa, a mettersi perennemente in gioco, senza rispetto per le ortodossie. Se non si è fatta l’esperienza analitica, è difficile farsene un’idea: nessun estraneo può entrare nella stanza di un terapeuta. Non si può ascoltare e non si può nemmeno riferire, nel merito, quello che si dicono paziente e analista. Però, la finzione scenica consente un “come se”, avvicinando il setting analitico a chi ne ha curiosità. Così, dopo che nella precedente annata il vero protagonista era stato il confronto tra l’analista ed i suoi pazienti (vedi Recenti Prog Med 2016; 107: 55-56), quest’anno il dottor Mari ha raccolto e messo in piazza − nella finzione − le confidenze ed i problemi di quattro nuovi incontri: una nota attrice di mezza età, Rita (Margherita Buy in gran forma e perfettamente in parte), Riccardo (un sorprendente Domenico Diele), un sacerdote cattolico trentenne ed in profondissima crisi esistenziale, un adolescente omosessuale e problematico in rottura col mondo (Luca, Brenno Placido) e Bianca (Giulia Michelini), una giovane donna del popolo, in crisi con il marito violento. Vero o verosimile? Il dibattito, e la polemica, sul cinema-verità sono ormai troppo datati. Come disse François Truffaut, «si può far pagare la gente per mostrare loro una menzogna organizzata, ma non per mostrar loro della verità vera» (“Artsept”, n° 2, 1963). Il bello di In Treatment è che non ha avanzato pretese di verità. Ha aperto uno scorcio e offerto un punto di vista particolare sull’esperienza psicoanalitica. Il finale, con l’estrema difficoltà dello stesso psicoanalista Pietro Mari a proseguire la propria analisi con Adele, ha mostrato come meglio non si potrebbe quella che probabilmente è la difficoltà più acuta del setting psicoanalitico attuale: come ha spiegato Roberto Goisis in gergo tecnico, è la difficoltà a mentalizzare, ad attivare la funzione riflessiva su sé stessi. L’analista deve districarsi tra piani eccessivamente razionali, derive filosofiche, difese intellettuali e la lusinga di un incontro tra cervelli, e non tra emozioni. Il paziente riconosce, prima o poi, di avere un problema. Quel che gli appare più difficile superare è la voglia disperata e narcisisticamente orientata di risolverlo in tempi brevi. Dal terapeuta si vuole, anzi, si pretende, una risposta efficiente, ma soprattutto rapida. Senza tener conto poi di transfert e controtransfert, che pure hanno un peso, evidente peraltro nel racconto del problematico rapporto tra Mari e la sua supervisore Adele, in attesa di un bambino. Ma la giovane collega, per quanto entusiasta e interessata a capire il più possibile un terapeuta più anziano ed autorevole, non cede alla pressione di Mari, ferma nel tentativo di dare un senso a quanto accade pensando, piuttosto che agendo. Mettendo così in pratica uno dei più grandi strumenti di cui l’analista dispone. Soprattutto se si è metabolizzato fino in fondo l’insegnamento lacaniano secondo il quale il folle non è solo il mendicante che si crede un re, ma anche un re che si crede un re. O uno psicoanalista che si crede uno psicoanalista. Vero, dottor Mari?