Informazioni: dalle riviste

Attuali problemi di terapia dell’asma bronchiale
Recenti linee guida sul trattamento dell’asma bronchiale (AB) hanno stabilito che i corticosteroidi per inalazione (ICS: “inhaled corticosteroids”, secondo l’acronimo d’uso internazionale), considerati molto efficaci e, in linea generale, innocui, sono i farmaci di prima scelta per i pazienti con sintomatologia persistente, pur riconoscendo che, a causa di effetti collaterali sistemici avversi, in caso di trattamenti prolungati debbono essere adoperati alle dosi minime efficaci. È noto al riguardo che, per limitare l’esposizione dei pazienti agli ICS, sono consigliati altri farmaci come i b-agonisti adrenergici a lunga durata d’azione (LABA: “long-acting b-agonists”) oppure gli antagonisti dei recettori per i leucotrieni (“LTRA: “leucotriene-receptor antagonists”). Questi consigli hanno trovato conferma nell’osservazione che l’uso di ICS a basse dosi, associato a un LABA, risulta efficace negli asmatici nei quali la malattia non è bene controllata, garantendo inoltre una minore esposizione agli ICS.
Recenti studi hanno indicato che, sebbene LABA e ICS producano effetti simili sulla funzione polmonare, gli ICS consentono una maggiore soppressione dei marcatori biologici che sono associati all’infiammazione delle vie aeree e una più efficace prevenzione di eventuali insuccessi della terapia (Lazarus SC, Bouschley HA, Fahy JV, et al. Long-acting beta 2-agonist monotherapy vs continued therapy with inhaled corticosteroids in patients with persistent asthma: a randomized controlled trial. JAMA 2001; 285: 2583). Diversamente da questo profilo clinico gli LTRA possiedono proprietà antinfiammatorie, come indicato dalla soppressione dei marcatori dell’infiammazione asmatica delle vie aeree, anche nei pazienti precedentemente trattati con ICS associati a LABA (Curie GP, Lee DK, Huggert K, et al. Effects of monteleukast on surrogate inflammatory markers in corticosteroid-treated patients with asthma. Am J Respir Crit Care Med 2003; 167: 1232).
È stata recentemente studiata l’associazione di LABA e LTRA al fine di ottenere una utile azione sinergica nei pazienti con AB, tenendo presente che, mentre i LABA migliorano la funzione polmonare, gli LTRA esplicano effetto antinfiammatorio (Deykin A, Wechsler ME, Boushey HA, et al, for the National Heart, Lung and Blood Institute’s Asthma Clinical Research Network. Combination therapy with a long-acting b-agonist and a leukotriene antagonist in moderate asthma. Am J Resp Crit Care Med 2007; 175: 228).
Gli autori hanno confrontato il decorso clinico dei pazienti trattati con LTRA associati a LABA con quello  dei pazienti trattati con ICS e LABA nell’AB moderata. In uno studio clinico randomizzato gli autori hanno esaminato 192 pazienti di ambo i sessi con AB moderata, di età da 12 a 65 anni, che presentavano un volume espiratorio massimo al primo secondo (VEMS o FEV1: “forced expiratory volume in 1 second”) pari almeno al 40% del previsto e che dimostravano una iperreattività alla metacolina oppure un miglioramento del VEMS di almeno il 12% dopo somministrazione di un broncodilatatore b-agonista. I pazienti che non facevano uso di un ICS o di un LTRA all’inizio dello studio presentavano un VEMS meno dell’80% del valore previsto. Sono stati esclusi soggetti che fumavano più di 10 “pacchetti” di sigarette l’anno o che avevano cessato di fumare negli ultimi 12 mesi; inoltre sono stati esclusi pazienti con malattie respiratorie o con riacutizzazioni asmatiche nelle ultime 6 settimane. È stata confrontata l’efficacia clinica di un trattamento regolarmente condotto per 14 settimane mediante associazione di monteleukast e salmeterol con un trattamento mediante associazione di betametasone e salmeterol. Come punto di riferimento (“end point”) per la valutazione dell’efficacia dei due trattamento è stato considerato il tempo di comparsa di un insuccesso della terapia.
Gli autori hanno osservato che, nei pazienti con AB moderata da loro studiati, l’associazione LTRA/LABA si è  dimostrata inferiore rispetto all’associazione ICS/LABA, per quanto si riferisce a insuccesso terapeutico, condizioni funzionali polmonari e livello dei marcatori dell’infiammazione e che la differenza tra i due trattamenti, per quanto concerne la protezione del paiente da insuccessi della terapia, si è rivelata “sostanziale”: infatti, relativamente al tempo trascorso prima dell’insuccesso terapeutico, la percentuale di pazienti nei quali si è avuto un migliore controllo dell’AB con l’associazione ICS/LABA è stata superiore di 3/5 rispetto a quella dei soggetti trattati con l’associazione LTRA/LABA.
Da questi risultati gli autori deducono che l’associazione LTRA/LABA non dovrebbe sostituire quella ICS/LABA. Inoltre è stato rilevato che la differenza osservata tra i due trattamenti si è ripetuta per ciò che riguarda i punti di riferimento secondari (VEMS prima e dopo broncodilatazione, picco di flusso espiratorio antimeridiano (PEFR), sintomatologia, necessità di ricorso a terapia di pronto intervento e soppressione dei marcatori dell’infiammazione). Gli autori sottolineano che il relativo miglioramento del PEFR ottenuto con l’associazione ICS/LABA rispetto a quella LTRA/LABA, appare significativo perché corrisponde all’entità delle differenza degli insuccessi terapeutici. Gli autori ritengono pertanto che, nonostante le razionali motivazioni che suggeriscono l’associazione LTRA/LABA, i loro risultati indichino che il sinergismo prodotto da queste due classi di farmaci nella fisiopatologia dell’AB sia inferiore al sinergismo prodotto dall’associazione ICS/LABA, come dimostrato dalla protezione dei pazienti dagli insuccessi terapeutici, dal miglioramento della funzione polmonare e dall’effetto sui marcatori dell’infiammazione.
Un contributo al problema del trattamento dell’AB è stato pubblicato contemporaneamente a quello di Deykin et al (loc cit) allo scopo di valutare l’efficacia clinica di basse dosi di teofillina e di un LTRA (monteleukast) in pazienti con AB poco controllata che non tollerano (o non accettano) corticosteroidi (The American Lung Association Asthma Clinical Research Centers. Clinical trial of low-dose theophylline and monteleukast in patients with poorly controlled asthma. Am J Respir Crit Care Med 2007; 175: 235).
Gli autori, di fronte ad asmatici con malattia poco controllata e nei quali appare inefficace il trattamento corticosteroideo, hanno fatto ricorso alla teofillina che, come noto, ha avuto il suo momento di successo nella terapia dell’AB, ma che in seguito è caduta in disuso con l’introduzione degli ICS, dei LABA e degli LTRA. Gli autori ricordano che la teofillina ha evidenti proprietà antinfiammatorie e immunomodulatrici, anche a basse concentrazioni (<10 mg/L) e può essere agevolmente somministrata per via orale.
È stato condotto uno studio clinico a doppio cieco su 489 pazienti con AB poco controllata, assegnati con criterio random al placebo o alla teofillina (300 mg pro die) o al monteleukast (10 mg pro die); tutti i partecipanti allo studio sono stati seguíti per 24 settimane, misurando la frequenza degli episodi di insufficiente controllo dell’AB (EIC) definiti, come punto di riferimento primario, da riduzione del picco di flusso espiratorio, da aumento dell’uso di LABA e di corticosteroidi per os e dalla necessità di ricorso al medico. Come punti di riferimento secondari sono stati considerati la funzione polmonare, i sintomi asmatici e la qualità di vita. Gli autori sottolineano di avere scelto teofillina e monteleukast perché sono somministrabili per via orale e quindi per migliorare la collaborazione del paziente.
Il principale risultato di questo studio è stato che né la teofillina, né il monteleukast hanno presentato vantaggi nel ridurre la frequenza degli EIC e l’intensità dei sintomi asmatici e nel migliorare la qualità di vita. Peraltro è stato rilevato che teofillina e monteleukast migliorano i dati spirometrici prima della broncodilatazione, ma solamente la teofillina ha migliorato il VEMS dopo broncodilatazione.
Gli autori concludono ritenendo che il trattamento associato con teofillina e monteleukast dei pazienti con AB poco controllata non riduce gli EIC, pur migliorando lievemente la funzione polmonare. Secondo gli autori, negli asmatici con malattia poco controllata, che non possono o non vogliono essere trattati con corticosteroidi, basse dosi orali di teofillina possono rappresentare un’alternativa e meriterebbero di essere più diffusamente adoperate.

Nel commentare i risultati di questi due stidi Barnes (Barnes N. Spoilt for choice? Am J Respir Crit Care Med 2007; 175: 208) si domanda che cosa si deve fare di fronte a un paziente che non può assumere ICS e osserva che questi studi, purtroppo, non confermano quanto consigliato nei confronti dei corticosteroidi per inalazione a basse dosi, poiché sia l’associazione LTRA/LABA che l’uso di LTRA da soli non sembrano offrire vantaggi, mentre la teofillina rivela una molto debole attività. Secondo l’autore il medico pratico, in queste situazioni, deve fare tutto ciò che è in suo potere per convincere il paziente a prendere ICS, perché qualunque altra terapia si rivela inferiore.
Barnes (loc citi) si domanda inoltre che cosa fare quando un asmatico trattato con basse dosi di corticosteroidi non è adeguatamente controllato e risponde, criticamente, che, sebbene alcuni studi abbiano dimostrato l’efficacia dell’aggiunta di un LABA a basse dosi di ICS, deve essere tenuto presente che tale aggiunta potrebbe rappresentare una giustificazione a provare e studiare questa classe di farmaci (sic!). L’autore ritiene che, in queste situazioni, si dovrebbe in primis ricercare la dose più adatta di ICS prima di passare ad altri farmaci. Se, nonostante ciò, il controllo della malattia è ancora insufficiente, si può aggiungere un LABA, verificando dopo un adeguato periodo di tempo se la nuova terapia ha avuto effetto.
Polemicamente l’autore conclude le sue osservazioni ritenendo che questi due studi dimostrino che “gli studi clinici su terapie farmacologiche non dovrebbero essere eseguiti dalle industrie farmaceutiche”, ma che i governi dovrebbero riconoscere che queste ricerche meritano un intervento pubblico.
Inibitori della renina nella terapia dell’ipertensione
L’introduzione nella terapia dell’ipertensione degli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina I in angiotensina II (ACE-I) e dei bloccanti il recettore per l’angiotensina (ARB) ha confermato il ruolo essenziale della renina nella patogenesi di questa malattia. Inumerosi studi clinici che si sono susseguiti sull’uso di queste due classi di farmaci ne hanno dimostrato l’effetto antipertensivo sia in monoterapia che in associazione. Tuttavia alcune esperienze cliniche hanno rivelato che questi farmaci possono mostrare effetti incerti anche in associazione e ai massimi dosaggi (Makos JP, de Lourdes Rodriguez M, Ismerim VL. Effects of dual blockade of the renin angiotensin system in hypertensive type 2 diabetic patients with nephropathy. Clin Nephrol 2005; 64: 180. Nakao N, Seno H, Kasuga H, et al. Effects of combination treatment with losartan and trandolapril on office and ambulatory blood pressure in non-diabetic renal disease: a COOPERATE-ABP substudy. Am J Nephrol 2004; 24: 543). Il minore effetto antipertensivo dell’associazione di ACE-I e ARB, osservato in alcune particolari condizioni, è stato spiegato con una ridotta controregolazione inibitoria del rilascio della renina a seguito dell’inibizione farmacologica della produzione o dell’azione dell’angiotensina (Fisher ND, Hollenberg NK. Renin inhibition: what are the therapeutic opportunities? J Am Soc Nephrol 2005; 16: 592).
Queste osservazioni hanno indotto a studiare l’effetto antipertensivo di inibitori diretti della renina. Attualmente il primo di questa classe di farmaci approvato per la terapia dell’ipertensione è stato l’aliskiren e in un recente studio randomizzato e a doppio cieco è stato valutato il suo effetto, da solo o associato con l’ARB valsartan, in un gruppo di 1797 pazienti ipertesi (Oparil S, Yarows SA, Patel S, et al. Efficacy and safety of combined use of aliskiren and valsartan in patients with hypertension: a randomized, double-blind trial. Lancet 2007; 370: 221). I pazienti sono stati assegnati con criterio random ad assumere aliskiren, 150 mg pro die, per os (n = 437) o valsartan, 160 mg pro die, per os (n = 455) o l’associazione di 150 mg di aliskiren e 160 mg di valsartan pro die, per os (n = 446) o placebo (n = 450); il trattamento è durato 4 settimane a queste dosi ed è stato proseguito a dosi raddoppiate per altre 4 settimane. È stato considerato come punto di riferimento (“end point”) primario il valore medio di pressione diastolica in posizione seduta raggiunto all’inizio dello studio e dopo 8 settimane.
È stato osservato che l’associazione aliskiren più valsartan ai massimi dosaggi ha consentito di ottenere una riduzione clinicamente significativa della pressione diastolica, più evidente di quella ottenuta in monoterapia con i due farmaci da soli. Inoltre il trattamento associato si è dimostrato innocuo e tollerato come quello in monoterapia e con il placebo.
Questi risultati confermano quelli ottenuti in un precedente studio, nel quale sono state valutate varie associazioni di aliskiren e valsartan (Pool JL, Schmieder RE, Azizi M, et al. Aliskiren, an orally effective renin inhibitor provedes antihypertensive efficacy alone and in combination with valsartan. Am J Hypertens 2007; 20: 11).
Gli autori ricordano che circa il 60% dei pazienti esaminati aveva un’ipertensione allo stadio 2 e circa la metà era obesa, con indice di massa corporea 30 kg/m2; a questo proposito gli autori sottolineano che, sebbene sia stato osservato che l’obesità può associarsi a un basso livello di renina, nei pazienti studiati il duplice intervento sul sistema della renina con ARB e un inibitore diretto della renina ha consentito di ottenere una riduzione della pressione maggiore che in monoterapia.
Nel corso del loro studio gli autori hano osservato un incremento, che definiscono sinergico e reattivo, della concentrazione plasmatica della renina durante la terapia associata, e che è indicativo della diminuzione dell’effetto dell’angiotensina II a livello di cellule iuxtaglomerulari, con conseguente riduzione del meccanismo di controregolazione negativa mediante il quale l’angiotensina II inibisce il rilascio della renina. Tuttavia gli autori riferiscono di avere osservato un’inibizione dell’attività della renina del 46% nei soggetti trattati con l’associazione aliskiren/valsartan, nonostante l’aumento della renina circolante.
Un aumento della potassiemia oltre 5,5 mmol/L (ma non oltre 6 mmol/L) è stato osservato più frequentemente nel gruppo trattato con l’associazione aliskiren/valsartan; la maggior parte di questi aumenti è stata transitoria e la potassiemia è tornata nei limiti normali dopo l’ottava settimana. Su questo punto gli autori ritengono necessari ulteriori studi a lungo termine.
Nel concludere, gli autori ritengono che i risultati ottenuti forniscano la base per ulteriori ricerche intese a potenziare gli effetti di un trattamento a lungo termine con l’associazione aliskiren/valsartan o con altri ARB, al fine di ottenere benefici che vadano oltre la riduzione dei valori pressori.

Nel commentare questi risultati Birkenhäger e Staessen si soffermano sull’iperpotassiemia segnalata da Oparil et al (loc cit) nei pazienti trattati con l’associazione aliskiern/valsartan (Birkenhäger WH, Staessen JA. Dual inhibition of the renin system by aliskiren and valsartan. Lancet 2007; 370: 195), concordando nel ritenere che questo è un problema da tenere presente nei futuri studi su questo argomento. Gli autori ritengono, in proposito, che sia utile sperimentare l’associazione di aliskiren con un diuretico o con un calcio-antagonista, che entrambi riducono la potassiemia e inoltre contrastano l’aumento reattivo della renina plasmatica prodotto dagli inibitori della renina. Gli autori ritengono che, al momento attuale, la doppia inibizione del sistema della renina trovi applicazione limitata in ipertesi selezionati, ad alto rischio di complicanze e nell’ipertensione resistente.
A questo proposito gli autori ricordano che sono in corso studi in fase 3 su pazienti ad alto rischio, con ipertrofia ventricolare sinistra, insufficienza cardiaca e/o insufficienza renale e che questi studi stanno mettendo in evidenza la difficoltà di identificare le differenze tra i vari schemi terapeutici e che, in realtà, nessun tipo di trattamento farmacologico è scevro di complicanze, specialmente per quanto concerne l’eventualità di iperpotassiemia anche grave e di insufficienza renale (Raebel MA, McClure DL, Simon SR, et al. Laboratory monitoring of potassium and creatinine in ambulatory patients receiving angiotensin converting enzyme inhibitors and angiotensin receptor blockers. Pharmacoepidemiol Drug Saf 2007; 16: 55). Per quanto riguarda lo studio di Oparil et al. (loc cit) gli autori ritengono che probabilmente un migliore successo, con minori probabilità di complicanze, potrebbe essere ottenuto associando un diuretico o un calcio-antagonista ai farmaci sperimentati.
Iperuricemia e sindrome metabolica
Il concetto di “sindrome metabolica” (SM) è stato sottoposto negli ultimi anni a una revisione critica, basata soprattutto sulla dimostrazione che questa sindrome non comporta un rischio cardiovascolare superiore a quello della somma dei suoi componenti e che è dubbia l’importanza dell’insulinoresistenza come fattore unificante. Ciò ha portato a ritenere che la SM, piuttosto che una sindrome, rappresenti un raggruppamento (“cluster”, nella letteratura medica di lingua inglese) di condizioni patologiche frequentemente associate e che il suo trattamento non differisca da quello dei suoi componenti (Vancheri F, Burgio A, Dovico R. Dal “quartetto letale” alla “sindrome metabolica”. Osservazioni sull’importanza clinica di questa sindrome. Recenti Prog Med 2007; 98: 192). Ciò nonostante la ricerca clinica ha continuato ad approfondire le conoscenze e l’importanza dei singoli componenti della sindrome, valutando anche la possibilità di includervi altri fattori.
Alcuni recenti studi hanno segnalato una significativa associazione tra l’iperuricemia e i componenti della SM (Fam AG. Gout and the insulin resistance syndrome. J Rheumatism 2002; 29: 1350) e, in particolare, hanno messo in evidenza che la clearance renale dell’urato è in rapporto inverso con l’entità dell’insulinoresistenza, inducendo a ritenere che, per questo motivo, l’iperuricemia è frequente nei pazienti con SM, nei quali, come detto, l’insulinoresistenza è un elemento essenziale della sindrome.
Nell’ambito del Third National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES III) è stata determinata la prevalenza della SM in 8669 soggetti di ambo i sessi e di almeno 20 anni di età, con differenti livelli di uricemia (Choi HK, Ford ES. Prevalence of the metabolic syndrome in individuals with hyperuricemia. Am J Med 2007; 120: 442).
Gli autori hanno osservato un aumento della prevalenza della SM in soggetti con iperuricemia; tale prevalenza ha raggiunto il 70% nei soggetti con i più alti livelli uricemici (10 mg/dL), 4 volte superiore a quella dei soggetti con i più bassi livelli uricemici (<6 mg/dL); questo differente aumento dell’uricemia è persistito dopo correzione per età, sesso, uso di alcolici, indice di massa corporea, ipertensione e diabete.
Per spiegare la correlazione tra iperuricemia e SM gli autori fanno riferimento alla riduzione dell’escrezione renale dell’urato esplicata dall’insulina, sia nei soggetti sani che negli ipertesi, mediante il riassorbimento dell’urato ottenuto con la stimolazione dello scambiatore dell’anione urato URAT1; inoltre l’insulina stimola l’anione cotrasportatore dipendente da Na+ che si trova sulla membrana dell’orletto a spazzola del tubulo renale prossimale.
Gli autori ritengono che i risultati da loro ottenuti inducano un alto livello di sospetto diagnostico di SM di fronte a soggetti con iperuricemia e di adottare adeguate misure terapeutiche come controllo del peso ed esercizio fisico.
Recentemente le ricerche sui rapporti tra iperuricemia e SM sono state estese negli Stati Uniti a bambini e adolescenti, nei quali, come noto, è stata osservata con crescente frequenza l’esistenza della SM (Duncan GF, Li SM, Zhou XH. Prevalence and trends of a metabolic syndrome phenotype among U.S. adolescents 1999-2000. Diabetes Care 2004; 27: 2438) al fine di verificare se l’iperuricemia possa essere inclusa tra i fattori che si ritiene facciano parte della SM (Ford ES, Li C, Cook S, et al. Serum concentration of uric acid and the metabolic syndrome among US children and adolescent. Circulation 2007; 115: 2526).
Anche questo studio è stato condotto nell’ambito dello studio NHANES III e ha riguardato 1370 soggetti di ambo i sessi, di età compresa tra 12 e 17 anni. La prevalenza della SM nei soggetti esaminati è variata dal 1% al 10,1% in rapporto al valore uricemico; delle componenti della SM, quelle che sono risultate prevalentemente associate con l’iperuricemia sono state obesità addominale, ipertrigliceridemia e iperglicemia; l’associazione con l’ipertensione è stata definita “di confine” (“borderline”); viene sottolineata la mancata associazione con basso livello di colesterolo HDL; inoltre l’associazione si è rivelata indipendente da sesso, etnia e livello di proteina C-reattiva.
Gli autori ritengono che l’avere osservato iperuricemia in bambini e adolescenti che presentano caratteristiche di SM deve attrarre l’attenzione su questo parametro di laboratorio, tenenendo presenti i risultati di recenti studi che hanno dimostrato una correlazione tra concentrazione sierica di acido urico e rischio cardiovascolare (Baker JF, Krishnar E, Chen L, et al. Serum acid and cardiovascular disease: recent developments and where they do leave us? Am J Med 2005; 118: 816). Tuttavia gli autori pensano che, nonostante i molti studi che hanno evidenziato il ruolo di fattore di rischio cardiovascolare dell’acido urico, sia doveroso sottolineare che, al momento attuale, l’esatto contributo di questo metabolita al rischio di sviluppare una cardiopatia sia ancora incerto sia nella popolazione adulta che in quella infantile.
Recenti studi sui marcatori di danno cardiovascolare
La misura dello spessore dell’intima e della media (IMT, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “intima-media thickness”) e la valutazione delle placche delle carotidi sono considerate indici di arteriosclerosi, poiché l’IMT delle carotidi è correlato con molti eventi cardiovascolari e la presenza di placche carotidee è associata a rischio di danno coronarico e cerebrovascolare. L’accresciuto interesse sviluppatosi negli ultimi anni per la stratificazione del rischio cardiovascolare ottenibile mediante tecniche per immagini associate ai convenzionali fattori di rischio ha indotto a ritenere importante lo studio della correlazione tra IMT e placche delle carotidi, da un lato, e, dall’altro, il loro indipendente, cumulativo contributo alla valutazione del rischio cerebrovascolare e coronarico (Vasan R. Biomarkers of cardiovascular disease: molecular basis and practical considerations. Circulation 2006; 113: 2335).
Negli ultimi anni, oltre a queste tecniche per immagini, nella valutazione del rischio cardiovascolare si è fatto largo uso della misura del livello plasmatico della proteina C-reattiva (CRP: “C-reactive protein”) il cui incremento è ritenuto un fattore di rischio cardiovascolare. È stato peraltro osservato che, sebbene, in linea generale, un aumento della CRP sia associato ad aumento di IMT e alla presenza di placche carotidee, tuttavia è stato rilevato un differente significato di questi marcatori, perché, ad esempio, l’associazione tra CRP aumentata a ictus ischemico  è apparsa più evidente in presenza di aumento di IMT (Cao JJ, Thach C, Manolio TA, et al. C-reactive protein, carotid intima-media thickness and incidence of ischemic stroke in the elderly. Circulation 2005; 108: 166). Questi rilievi hanno indotto a ritenere necessario verificare se l’associazione tra aumentata CRP e malattie cardiovascolari sia influenzata dalla presenza di lesioni arteriosclerotiche carotidee dimostrate dall’ecografia. A questo fine è stata verificata l’ipotesi secondo la quale l’aumento della CRP, in assenza di aumento di IMT e di placche, abbia un minore significato predittivo di danno cardiovascolare; è stato pertanto studiato il significato dell’aumento di IMT, della presenza di placche e dell’aumento di CRP, da soli o in associazione, nella valutazione del rischio di infarto miocardico, ictus ischemico e obitus per cause cardiovascolari e per tutte le cause; è stato inoltre valutato il ruolo della CRP e della lesioni arteriosclerotiche carotidee nella predizione di eventi cardiovascolari (Cao JJ, Arnold AM, Manolio TA, et al. Association of carotid artery intima-media thickness, plaques and C-reactive protein with future cardiovascular diseases and all cause mortality. The Cardiovascular Heart Study. Circualation 2007; 116: 32).
Sono stati esaminati 5020 adulti di età uguale o superiore a 64 anni, esenti, all’inizio dello studio, da malattie cardiovascolari e seguíti fino per 12 anni per verificare l’incidenza di eventi cardiovascolari e della mortalità per tutte le cause, dopo avere effettuato la valutazione ecografica dell’IMT e della presenza di placche nelle carotidi e la misura del livello plasmatico di CRP.
È stato osservato che, quando il livello di CRP è stato elevato (>3 mg/dL) nei soggetti con lesioni arteriosclerotiche carotidee rilevabili all’ecografia, vi è stato un rischio di obitus per cause cardiovascolari del 72% (95% CI: 1,46-2,01) e di obitus per tutte le cause del 52% (95% CI: 1,37-1,68).  Peraltro l’aumento della CRP, in assenza di lesioni arteriosclerotiche rilevabili all’ecografia, non ha comportato un aumento del rischio di eventi cardiovascolari e di mortalità per tutte le cause. La percentuale dell’aumento del rischio attribuibile all’associazione di CRP aumentata e lesioni arteriosclerotiche è stata del 54% per malattie cardiovascolari e del 79% per obitus per tutte le cause. Nel complesso è stato osservato che l’aggiunta della misura della CRP o delle lesioni arteriosclerotiche carotidee ai fattori di rischio convenzionali determina un “modesto” aumento della possibilità di prevedere un evento cardiovascolare.
Gli autori ricordano che l’IMT e le placche delle carotidi sono entrambi indici di arteriosclerosi, pur comportando differenti significati predittivi, nonostante la loro stretta correlazione. Infatti l’IMT, sia delle carotidi comuni che delle carotidi interne, può essere considerata una misura “quantitativa” dell’arteriosclerosi, mentre la valutazione ecografica delle placche carotidee rappresenta una misura “qualitativa” del processo arteriosclerotico. Peraltro la presenza di entrambi questi marcatori si associa a rischio cardiovascolare ed è in rapporto con l’esito degli eventi cardiovascolari, consentendo di valutare sia la quantità che la qualità delle lesioni arteriosclerotiche; infatti in questo studio l’identificazione di placche a più alto rischio si è associata a più elevata IMT. Gli autori hanno osservato che il rischio di mortalità per tutte le cause correlato ad aumento della CRP è apparso differente in rapporto alla gravità delle lesioni arteriosclerotiche dei soggetti più anziani. Infatti l’aumento di CRP non è risultato associato ad aumentato rischio cardiovascolare e di mortalità per tutte le cause nei soggetti con lievi lesioni arteriosclerotiche, come già rilevato dagli autori in una loro precedente ricerca (vedi sopra). È stato tuttavia osservato un significativo aumento di rischio quando la CRP è aumentata in soggetti con evidenti lesioni arteriosclerotiche.
Secondo gli autori questi rilievi indicano che esistono complesse correlazioni tra infiammazione, arteriosclerosi subclinica e cardiovasculopatie clinicamente conclamate. Pertanto gli autori ritengono che basarsi  soltanto sulla misura della CRP può trarre in inganno in una popolazione a basso rischio con minime lesioni arteriosclerotiche e ciò in accordo con quanto recentemente osservato da altri autori (Cook NR, Buring JE, Ridken PM. The effect of including C-reactive protein in cardiovascular risk predictions models for women. Ann Intern Med 2006; 145: 21).
Nel commentare questi risultati Koening rileva che, al momento attuale, non disponiamo di sicura dimostrazione del valore predittivo di eventi cardiovascolari di una procedura attuabile nella pratica clinica, soprattutto nei confronti di soggetti a rischio cosiddetto “intermedio” (dal 10 al 20% entro 10 anni) (Koenig W. Cardiovascular biomarkers. Added value with an integrated approach? Circulation 2007; 116: 3). L’autore osserva, a questo proposito, che l’associazione di biomarcatori ematici con marcatori morfologici di lesioni arteriosclerotiche subcliniche appare attraente, perché consente di integrare le informazioni funzionali con quelle strutturali e di valutare l’“attività sistemica” delle malattie cardiovascolari; senonché su questo problema esistono opinioni contrastanti per quanto concerne il marcatore più utile e per quanto tempo lo è, e quale associazione di marcatori è più adeguata nella pratica medica. Inoltre, secondo l’autore, esistono difficoltà nell’elaborazione statistica dei risultati acquisiti e quindi della loro piena attendibilità. In questo contesto l’autore colloca il contributo di Cao et al (loc cit) che hanno dimostrato un differente significato dei marcatori esaminati. Koenig (loc cit) rileva che, a tutt’oggi, la valutazione mediante i tradizionali fattori rappresenta la base per una razionale stratificazione del rischio cardiovascolare. L’autore rileva in proposito che lo studio di Cao et al (loc cit) è stato condotto su anziani e ciò non consente di trasferire i risultati a una popolazione più giovane. L’autore conclude ritenendo che, nonostante l’interesse suscitato dalla valutazione dei singoli marcatori, un approccio promettente a questi problemi possa essere rappresentato, in futuro, dall’applicazione di molteplici marcatori, dei quali sia rigorosamente dimostrata l’utilità.

Seguendo queste premesse, in un recente studio, per valutare la prognosi di pazienti con insufficienza cardiaca, sono stati misurati i livelli sierici della troponina C cardiaca (cTnt) e dei peptidi natriuretici, peptide natriuretico tipo B (BNP) e N-terminale del propeptide natriuretico B (NT-proBNP) (Miller WL, Hartman KA, Burritt MF, et al. Serial biomarkers measurements in ambulatory patients with chronic heart failure. The importance of change over time. Circulation 2007; 116: 249).
Gli autori hanno effettuato queste misure in serie, ogni tre mesi, per un periodo di osservazione di due anni, su 190 pazienti con insufficienza cardiaca cronica (ICC), classificati nelle classi III e IV secondo la New York Heart Association (NYHA), che si trovavano in condizioni cliniche stabili, per determinare il valore prognostico di questi marcatori nel controllo di pazienti ambulatoriali. Gli autori sottolineano di avere scelto questa procedura per identificare le variazioni di questi marcatori nel corso della malattia. Come punti di riferimento (“end points”) primari sono stati considerati obitus, necessità di trapianto cardiaco e ricovero in ospedale.
Gli autori confermano il notevole valore prognostico di questi marcatori, osservato in precedenti studi di altri autori. È stato infatti rilevato che l’aumento di cTnt (in particolare >0,03 ng/mL) e del valore di BNP oltre il 95° percentile è risultato associato ad aumento del rischio, a breve termine, di obitus o di aggravamento, tale da richiedere il trapianto. In particolare, le variazioni del livello sierico di cTnt hanno indicato variazioni della gravità del rischio, in quanto gli aumenti hanno corrisposto ad aumento del rischio e le diminuzioni ad una diminuzione della sua gravità; pertanto il livello della cTnt ha valore prognostico sia all’inizio di una condizione patologica cardiovascolare che durante il suo decorso. Per contro la misura del BNP ha rivelato un diverso comportamento di questo marcatore; infatti gli incrementi del livello di BNP al di sopra dei valori normali hanno indicato un più alto rischio cardiovascolare, ma, una volta manifestatisi, non hanno presentato variazioni in rapporto a diminuzione di rischio. Pertanto, secondo gli autori, il monitoraggio prolungato del BNP non sembra avere valore di indice di variazioni di rischio durante il decorso della malattia; peraltro gli autori riconoscono che ciò può essere dovuto al fatto che la popolazione studiata era in condizioni cliniche stabili e non presentava episodi di scompenso cardiovascolare acuto. Nel complesso gli autori ritengono che un valore di cTnt >0,3 ng/mL, riscontrato più volte nel corso della malattia comporti un rischio da 4 a 8 volte maggiore di obitus o di trapianto cardiaco, mentre un valore elevato di BNP comporta un rischio di 4 volte più elevato di prognosi infausta.
Trattamento dell’artrite reumatoide in fase iniziale
Negli ultimi anni si è verificato un miglioramento nel decorso dell’artrite reumatoide (AR) dovuto in gran parte ai nuovi criteri di terapia consistenti essenzialmente nel mirare alla soppressione del processo infiammatorio fin dalle fasi iniziali di malattia, avvalendosi dell’associazione di farmaci capaci di modificare questo processo, i cosiddetti DMARD (“disease modifyng antirheumatic drugs”) (vedi questa Rivista, vol. 88, marzo 1997, pag 107 e vol. 98, ottobre 2007, pag. 542). È stato inoltre rilevato che il rallentamento della progressione del danno articolare e il mantenimento della capacità funzionale sono anche dovuti a un più stretto controllo dell’attività della malattia e a migliore collaborazione dei pazienti nel seguire le prescrizioni terapeutiche.
Tuttavia ancora oggi non è stato definitivamente stabilito se un trattamento con l’associazione di DMARD, corticosteroidi e farmaci biologici come gli antagonisti del fattore di necrosi tumorale, possa essere consigliato come trattamento iniziale in tutti i pazienti con AR oppure se debba essere riservato soltanto a quelli che non rispondono a una precedente monoterapia.
Allo scopo di valutare l’efficacia di quattro schemi terapeutici oggi più frequentemente seguíti, sono stati studiati pazienti con AR iniziale attiva, confrontando i risultati con quelli ottenuti con monoterapia (Goekoop-Ruiterman YPM, de Vries-Bouwstra JK, Alaart CF, et al. Clinical and radiographic outcomes of four different treatment strategies in patients with early rheumatoid arthritis (the BEST study): a randomized controlled trial. Arthritis Rheum 2005; 52: 3381. Goekoop-Ruiterman YPM, de Vries-Bouwstra JK, Alaart CT, et al. Comparison of treatment strategies in early rheumatoid arthritis. A randomized trial. Ann Intern Med 2007; 146: 406).
I pazienti sono stati divisi in quattro gruppi: 1) monoterapia sequenziale (inizio con metotrexato seguíto da sulfasalazina, leflunomide, metototrexato più infliximab, oro con metilprednisolone, metrotrexato con ciclosporina e prednisone, azatioprina con prednisone), 2) inizio con metotrexato seguíto da metotrexato con sulfasalazina, metotrexato con sulfasalazina e idrossiclorochina, metotrexato con sulfasalazina, idrossiclorochina e prednisone, metotrexato con infliximab, metotrexato con ciclosporina e prednisone, leflunomide, azatioprina con prednisone, 3) inizio con l’associazione di metotrexato, sulfasalazina e prednisone ad alte dosi progressivamente decrescenti seguíta da metrotrexato con ciclosporina e prednisone, oro con metilprednisolone, azatioprina con prednisone, 4) inizio con l’associazione di metotrexato e infliximab, seguíta da sulfasalazina, leflunomide, metotrexato con ciclosporina e prednisone, oro con metilprednisolone, azatioprina e prednisone.
Oltre al controllo trimestrale, nei pazienti trattati con infliximab è stata controllata l’attività di malattia ogni 8 settimane.
È stato osservato che in tutti i gruppi, dopo il primo anno di terapia, si è ottenuta una remissione clinica dal 29 al 36% dei casi. Tale miglioramento è stato ottenuto durante il secondo anno in tutti i gruppi dal 38 al 46% dei casi. Tuttavia nei pazienti dei gruppi 3 e 4 è stato osservato, durante il primo anno di terapia, un minore livello di attività di malattia rispetto ai pazienti dei gruppi 1 e 2 e, dopo due anni, una minore progressione del danno articolare dimostrato dalla radiografia. Inoltre nei gruppi 3 e 4 si è verificata meno frequentemente una grave progressione della malattia. È stato rilevato che la tradizionale associazione lineare tra danno articolare all’inizio della terapia e progressione della malattia è stata osservata nei pazienti del gruppo 1, ma meno frequentemente in quelli del gruppo 2 e non si è verificata nei pazienti dei gruppi 3 e 4.
Concludendo gli autori ritengono che nei pazienti con AR iniziale è necessario mirare alla soppressione dell’attività reumatoide e del danno articolare e sottolineano l’importanza dell’intenso monitoraggio dei pazienti. A questo fine, secondo gli autori, alte dosi di prednisone progressivamente decrescenti, metotrexate e sulfasalazina oppure infliximab e metotrexate rappresentano la scelta terapeutica migliore.
Gli autori ritengono che la differenza nell’attività di malattia durante il primo anno ha probabilmente un notevole impatto socio-economico per quanto riguarda la ripresa di un attività dei pazienti. Inoltre, dopo due anni, è stato rilevato che l’intensa soppressione dell’attività reumatoide può consentire una attenuazione del danno articolare e il raggiungimento di una forma più lieve di AR.
Gli autori hanno osservato che il vantaggio terapeutico di una terapia iniziale associata non ha comportato un aumento di effetti tossici collaterali, pur rendendo necessario un attento e prolungato controllo dei pazienti. A questo proposito gli autori ritengono che il rischio di riattivazione di un’infezione tubercolare nei soggetti trattati con inibitori del fattore di necrosi tumorale giustifichi uno screening adeguato e un corretto trattamento.
Nel commentare questi risulati O’Dell (O’Dell J.R. The BeST way to treat early rheumatoid arthritis? Ann Intern Med 2007; 146: 459) osserva che essi confermano la necessità di uno stretto e prolungato controllo del paziente e che tutti i pazienti debbano ricevere DMARD fino a ottenere una riduzione dell’attività reumatoide o una remissione, tenendo presente che alcuni soggetti migliorano con una monoterapia, mentre altri hanno bisogno di farmaci biologici in aggiunta di quelli convenzionali.Secondo l’autore i futuri studi dovranno essere indirizzati a ricercare il modo per differenziare i vari gruppi di pazienti già all’inizio della malattia.