Dalla letteratura

CoViD-19: ce la siamo cercata?

C’è chi, quando sente parlare di CoViD-19, invita piuttosto a preoccuparsi del cambiamento climatico. Inutile provocazione. Di fronte a numeri così importanti di persone malate e di morti, lo scetticismo del “benaltrista” è fuori luogo. Ma è altrettanto vero che la tragedia di questi mesi è una conseguenza di uno sviluppo che non ha avuto rispetto per il progresso. Emergenze simili potrebbero accadere – se non sono già accadute – in campo ambientale o umanitario: le politiche economiche sono all’origine di gran parte di quello che ci sta facendo soffrire. E di cui ormai abbiamo davvero paura. Finalmente. “I want you to panic”, come ha confessato Greta Thurnberg.




I “mercati bagnati” cinesi sono spazi dei poveri e lo stesso si può dire di un’alimentazione fatta di animali di scarto e della promiscuità tra di essi e le persone. Poveri che sono forza lavoro ammassata in metropoli di cui ignoriamo il nome fino al giorno in cui diventano il centro di un mondo che muore. C’era una bella mostra al festival di Cortona (https://bit.ly/3ax3HXd) di quest’anno sulle nuove città cinesi: megalopoli anonime abbellite artificialmente da alberi piantati a schiera, dormitori di persone che contano solo per l’essere forza lavoro. “Le società non investono più in cose che contano, ma costruiscono muri, eserciti, forze di polizia segrete, sorvegliano i propri cittadini e così via. E se pensi che io stia esagerando, fai il favore e dai un’occhiata all’America”. I post di Umair Haque ricordano che chi è ricco danneggia anche la propria qualità di vita e la possibilità di poter godere di un’esistenza migliore: di questo passo, “niente cure per il cancro, nessuna frontiera da scoprire, nessuna grande innovazione”1.

“Non è una punizione divina”, ha scritto Laurie Penny su Wired. “Le epidemie non stanno cercando di punire nessuno. Lo stiamo facendo da soli”3 con il modello economico e politico che abbiamo scelto per il mondo nel quale viviamo male: “L’epidemia di coronavirus – ha scritto pochi giorni fa l’economista Mario Pianta – ha reso concreti i costi, anche economici, provocati dall’assenza di regole globali sulla tutela della salute – dai mercati di animali vivi in Cina alla capacità di individuare rapidamente un’epidemia – e di sistemi sanitari e di welfare sviluppati in tutti i Paesi. Lo stesso problema si prospetta per i molti disastri ambientali – presenti e futuri – provocati dal cambiamento climatico e dalle resistenze al cambiamento nelle politiche e nelle decisioni delle imprese”4.

“Il coronavirus è uno stress-test per la specie. È una prova della nostra capacità di far fronte a catastrofi su scala planetaria e questa volta probabilmente stiamo per farcela”: da Los Angeles, Laurie Penny è ottimista, anche se prosegue così: “Quasi. Non a pieni voti, soprattutto considerando quanto tempo ci è voluto per chiudere gli aeroporti e non senza molto dolore, stress e perdite, ma quest’anno la civiltà non sta per crollare. Le reti di mutuo soccorso si stanno replicando furiosamente su piattaforme di social media animate e sovraccariche. I vicini che non si sono mai scambiati più di qualche frase si chiedono a vicenda come stanno e di cosa hanno bisogno e, a volte, imbarazzati, si domandano pure come si chiamano. Sarà terribile, ma poi finirà, e quando lo farà, avremo costruito la nostra resistenza”. Magari fosse così.

Mario Pianta la pensa diversamente: “Una politica all’altezza di questi problemi mondiali dovrebbe riscrivere radicalmente le regole della globalizzazione. La protezione della salute, del welfare, del lavoro e dell’ambiente dev’essere assicurata da standard internazionali, vincolanti per gli accordi di liberalizzazione dei flussi di capitali e di merci. Le proposte politiche condivise avanzate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, dalle conferenze sul cambiamento climatico devono acquisire una nuova priorità politica e ottenere le risorse necessarie. Gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, sottoscritti da tutti i governi, offrono un quadro ulteriore in cui collocare tali priorità”. Questa può essere una conclusione.

Bibliografia

1. Haque U. (How) We need to fix the world. Medium 2020; 11 marzo (https://bit.ly/2UxbU8f).

2. Ambrosino F. Non si vive meglio negli Stati più ricchi ma in quelli più egualitari. Senti chi parla 2020; 20 novembre (https://bit.ly/39ySIep).

3. Pennie L. Panic, pandemic, and the body politic. Wired 2010; 14 marzo (https://bit.ly/2UPhDFb).

4. Pianta M. Le conseguenze economiche del coronavirus. Sbilanciamoci 2020; 13 marzo (vhttps://bit.ly/2QZ1QSW).

CoViD-19, epidemiologi
e urgenza di studiare

In Italia, la CoViD-19 ha colpito almeno inizialmente le regioni a reddito medio più alto: Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. Forse anche per questo hanno iniziato a girare in Rete dei meme che sottolineavano l’interclassismo di questa epidemia, che nel nostro Paese sembra non far distinzione tra appartenenti a differenti fasce di reddito e a gruppi sociali. Forse non è così semplice. Vedremo se la pandemia scuoterà alle fondamenta i sistemi sociali ed economici iniqui ma, intanto, una lettura attenta di quello che sta succedendo svela dei cambiamenti di scenario che potrebbero essere destinati a conservarsi anche quando la CoViD-19 avrà perduto la propria forza dirompente.

“I sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti attorno al concetto di assistenza centrata sul paziente, ma un’epidemia richiede un cambiamento di prospettiva verso un concetto di assistenza centrata sulla comunità”. Non potevano essere più chiari i medici dell’ospedale di Bergamo nel loro articolo scritto per Catalyst, il media di approfondimento del New Enlgand Journal of Medicine1. “Ciò che stiamo apprendendo dolorosamente è che abbiamo bisogno di esperti in sanità pubblica ed epidemie, ma questo non è stato al centro del lavoro dei decisori a livello nazionale, regionale e ospedaliero. Ci manca la competenza sulle condizioni epidemiche, guidandoci ad adottare misure speciali per ridurre i comportamenti epidemiologicamente negativi”.

Manca la competenza, scrivono i medici che lavorano in prima linea sul fronte dell’assistenza sanitaria. Ma non manca la competenza clinica, anzi: fa difetto la capacità di interpretare e rispondere coerentemente a una crisi di sanità pubblica. Eppure l’Italia è una nazione che ha sempre espresso delle eccellenze in campo epidemiologico di livello internazionale: almeno a giudicare dai riconoscimenti e dagli incarichi affidati a nostri ricercatori in altre nazioni del mondo. Ciononostante, l’epidemiologia italiana – se possiamo parlare di “epidemiologia italiana” – non è sembrata e non sembra ancora unita nel suggerire risposte e vie d’uscita alla crisi che stiamo vivendo. “Basti pensare che il famoso contact tracing, uno strumento che si è rivelato decisivo nel contrasto all’epidemia in diverse nazioni asiatiche, qui da noi nessuno sa come vada effettuato in concreto”, ci dice un’epidemiologa pregandoci di non esporla alle critiche dei colleghi. “La famosa digital epidemiology di cui si parla da anni anche in Italia è una perfetta sconosciuta, in punto pratico: con qualche eccezione, se ne occupano con competenza i fisici e gli informatici – e di italiani ne abbiamo di caratura internazionale – che vengono ovviamente guardati dall’alto in basso dagli epidemiologi italiani che hanno peraltro abbandonato anche la tradizione della shoe-leather epidemiology, quella che ti metteva in gioco chiamandoti a lavorare sul territorio, se necessario bussando alle porte delle case: oggi, nel migliore dei casi, l’epidemiologo è una figura consulenziale dei decisori sanitari o, nella peggiore delle eventualità, l’ideale ospite di trasmissioni televisive”.




Torniamo a Bergamo: “Questo focolaio è più che un fenomeno di terapia intensiva, piuttosto è una crisi di salute pubblica e umanitaria. Richiede il coinvolgimento di scienziati sociali, epidemiologi, esperti di logistica, psicologi e assistenti sociali. Abbiamo urgentemente bisogno di agenzie umanitarie che riconoscano l’importanza dell’impegno locale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha espresso profonda preoccupazione per la diffusione e la gravità della pandemia e per i livelli allarmanti di immobilità nelle attività. Tuttavia, sono necessarie misure coraggiose per rallentare l’infezione. Il blocco è fondamentale: il distanziamento sociale ha ridotto la trasmissione di circa il 60% in Cina. Ma si verificherà probabilmente un ulteriore picco quando le misure restrittive saranno allentate per evitare un grave impatto economico. Abbiamo fortemente bisogno di un punto di riferimento condiviso per comprendere e combattere questo focolaio. Abbiamo bisogno di un piano a lungo termine per la prossima pandemia”.

Sarebbe fondamentale che l’epidemiologia italiana ritrovasse il tempo per leggere, rinunciando almeno un poco all’urgenza del parlare. Dovendo a breve contribuire a prendere decisioni importanti, una delle letture obbligate è lo studio sul delicato equilibrio tra necessità di “allentare il blocco dei cittadini nelle case” e conservare i benefici ottenuti con il distanziamento sociale2.

Travolti dall’emergenza della pandemia ci sono anche buone notizie: stiamo dimenticando alcune recenti ossessioni della medicina degli ultimi anni. Qualcuno sa dov’è finita la real world evidence per caso? Come anche la famosa patient-centred medicine… Se una cosa stiamo tornando a imparare è che la salute e la medicina devono essere centrate sul territorio e su una visione di sanità pubblica.

Bibliografia

1. Nacoti M, Ciocca A, Meng AG, et al. At the epicenter of the Covid-19 pandemic and humanitarian crises in Italy. Catalyst. NEJM 2020; 21 marzo.

2. Prem K, Liu Y, Russell T, et al. The effect of control strategies that reduce social mixing on outcomes of the COVID-19 epidemic in Wuhan, China. Lancet Public Health 2020; 25 marzo.

Il populismo degli esperti
di cui non sentiamo bisogno

“CoViD-19 sta causando la terza grande crisi del periodo post-guerra fredda, dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e il crollo finanziario del 2008. Questa crisi potrebbe costare un pedaggio maggiore rispetto alle altre due e ha dimostrato i limiti del populismo come metodo di governo. La competenza conta. Le istituzioni contano. C’è qualcosa come la comunità globale. Una risposta illuminata, anche se impopolare, conta. Il sistema deve funzionare nuovamente”. Questa è la conclusione di un articolo molto centrato uscito il 4 marzo 2020 su The Atlantic1.

Un altro articolo del 5 marzo di The Atlantic obbliga a una diversa riflessione ugualmente importante che riguarda la responsabilità dell’assunzione delle decisioni. Una citazione di Henry Kissinger è particolarmente significativa: “Le questioni più difficili sono quelle di cui non è possibile dimostrare la necessità quando si decide. Agisci sulla base di una valutazione che nella natura delle cose è un tirare a indovinare, circa qualcosa di cui l’opinione pubblica verrebbe a conoscenza solo quando sarebbe troppo tardi per agire, quando già la catastrofe ci avrebbe travolti”.

Nell’articolo di Simone Pieranni su il manifesto del 5 marzo3 “si dice che i cinesi abbiano un’anima taoista (quasi sempre sottovalutata in Occidente) e un abito confuciano. L’anima la mostrano spesso nella determinazione a non obbedire, alla legittima aspirazione alla ribellione, alla ‘revoca del mandato’ (la storia cinese è piuttosto ricca di rivolte); il vestito è il riconoscimento di un sistema gerarchico (dalla famiglia allo Stato) in grado di governare non solo gli uomini, ma la natura stessa”. Osservare quanto sta accadendo in Cina ci permette – scrive Pieranni – di valutare la “sua potenzialità di creare nuove dialettiche, nuove forme di governamentalità, all’interno di sistemi non democratici”.

Nuove forme di dialettica e di governo di cui sentiamo un terribile bisogno anche da noi.

Pieranni cita Bruce Aylward, il dirigente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che – dopo aver maturato una grande esperienza nel contrasto al virus Ebola – è rientrato da poche ore dalla Cina e ha rilasciato un’intervista a The New York Times caratterizzata proprio da quei punti interrogativi e da quella incertezza esperta di cui parlava un tempo Kissinger. Ecco una domanda chiave, particolarmente rilevante per l’attualità italiana: “Chiudere le scuole è inutile? No. È ancora un punto interrogativo. Se una malattia è pericolosa e vedi grandi concentrazioni di persone, devi chiudere le scuole. Sappiamo che causa problemi, perché non appena lasci i bambini a casa metà della forza lavoro di un paese deve restare a casa per prendersi cura di loro. Ma con i bambini non si rischia”.

Imitare la risposta cinese probabilmente efficace richiede velocità, denaro, immaginazione e coraggio politico, precisa Aylward. Ma c’è un ingrediente che ha dimenticato di citare: ci sarebbe bisogno di silenzio da parte di chi – ritenendosi un esperto per meriti acquisiti su questioni diverse e magari avvenute nel secolo scorso – farebbe bene a rispettare le decisioni responsabili assunte da chi, nella gestione di questa crisi, sta mettendo realmente a repentaglio la propria credibilità.




Bibliografia

1. Wright T, Campbell KM. The coronavirus is exposing the limits of populism. The Atlantic 2020; 4 marzo.

2. MacTague T. The coronavirus is more than just an health crisis. The Atlantic 2020; 5 marzo.

3. Pieranni S. Coronavirus, l’anima taoista e l’abito confuciano. il manifesto 2020; 5 marzo.

4. Inside China’s all-out war on the coronavirus. New York Times 2020; 5 marzo.

CoViD-19
e pronto soccorso vuoto

Nonostante la retorica della medicina come professione di servizio sia stata in buona misura ridimensionata negli ultimi anni, ancora oggi gran parte degli studenti che si iscrivono a una facoltà di medicina e chirurgia riconosce e apprezza la forte connotazione di aiuto e di supporto alle persone insita nella propria scelta. Però già nel corso di laurea ragazze e ragazzi imparano a conoscere un sistema sanitario in cui i volumi – e non parliamo dei libri – hanno un’importanza spesso maggiore dei valori e nel quale lo spazio per stabilire una connessione con il malato è sempre più risicato. Fino a qualche anno fa si pensava che il deterioramento del rapporto medico-paziente fosse un problema per il malato, ma oggi sappiamo che la disconnessione tra la realtà e le aspettative del giovane clinico è una grande fonte di tensione, depressione e stress anche per il medico1.

Prevenire il ricorso inappropriato al Dipartimento d’Emergenza e Accettazione (DEA) è particolarmente difficile “a causa dell’ambiente frenetico, dei vincoli imposti dai tempi e del crescente utilizzo delle cure di emergenza”, leggiamo in un articolo uscito la vigilia del natale 2019 in una rivista del gruppo di The BMJ2. “I medici di medicina d’urgenza sono spesso sotto pressione per valutare chi giunge in accettazione, anche se l’eventualità che i disturbi presentati espongano la persona a un rischio di vita è rara. Inoltre, in genere il medico ha poco tempo per farsi carico dei pazienti che arrivano al DEA lamentando disturbi derivanti da condizioni croniche non trattate o da bisogni sociali che il sistema di welfare non è stato in grado di soddisfare. […] Cercando di riuscire nel tentativo impossibile di non perdere mai un singolo caso tra quelli che presentano una diagnosi che mette a rischio la vita, finiamo paradossalmente per causare un sacco di danni ai cittadini prescrivendo un mucchio di esami e contribuendo così all’insostenibilità dell’assistenza sanitaria”.

Alcuni problemi sono enormi e richiederebbero decenni per essere risolti – ammettono gli autori – ma i micro-cambiamenti nella nostra pratica quotidiana – ascoltare di più, prescrivere in modo più ponderato – sono oggi possibili. “Un paziente alla volta, un turno alla volta, un DEA, un ospedale e una comunità alla volta, noi medici dobbiamo contribuire a guidare il cambiamento”. I DEA sono uno dei setting a più alto rischio di burn-out, e nelle prime settimane di crisi sanitaria dovuta al diffondersi della CoViD-19 sono stati tra i luoghi della cura a cui è stato chiesto un maggiore sforzo. Ma, oggi, in alcune realtà italiane qualcosa è cambiato e una testimonianza arriva dal medico del servizio sanitario nazionale che cura il blog “nessunodicelibera”.

“Esiste un indubbio vantaggio nella follia di questi giorni disgraziati, ovvero che in ospedale, almeno in quelli piccoli come il mio (immagino che in quelli con i pazienti positivi il clima sia un po’ più teso), si lavora benissimo. La routine non ha subito nessun rallentamento, gli ambulatori e le sale operatorie lavorano come sempre, ma l’ospedale non è sovraccarico di confusione come al solito. Ci sono i malati, gli stretti parenti con accesso limitato ai reparti e solo chi ha davvero bisogno di noi varca la porta. Il Pronto Soccorso (PS) è aperto come sempre, ma i codici bianchi e verdi sembrano spariti, nessuno che si presenti più alle 2 del mattino per un dito dolorante schiacciato nel cassetto 15 giorni prima, nessun assembramento di parenti (5-6-10!) per ogni degente, nessuna muraglia umana davanti alla Rianimazione, quando è noto che solo 2 persone al giorno possano entrare, ma, ugualmente, “Dottoressa, solo 10 minuti, ma mio nipote è venuto da Avellino per poter veder la prozia, ecc…”. Nessuno che gridi allo scandalo e alla malasanità, nessuno che ci prenda per il bavero, perché convinto di aver subito un’ingiustizia”.




E ancora: “Solo che noi siamo sempre gli stessi della scorsa settimana e dubito che le nostre competenze, in soli 7 giorni, siano cambiate di molto, quelli che sono cambiati siete voi, voi e la vostra percezione, voi e il vostro atteggiamento. Credo di non essere mai stata ascoltata con tanto rispetto e fiducia come durante l’ambulatorio di oggi, pazienti silenziosi ed educati, che non si perdevano in mille chiacchiere e manierismi, ma che andavano dritti al punto, attenti nell’ascoltare e puntuali nelle risposte, solo perché avevano fretta di andarsene da lì, concentrati e cortesi. Ci voleva un’epidemia contagiosissima di un virus proveniente da un paese misterioso per resettare gli equilibri e riportare i ruoli e le competenze nel loro giusto ordine, un po’ come quando si fa un trasloco e si mette a soqquadro la casa e, finalmente, nel posto che mai avresti pensato, ritrovi quel braccialetto, o quel fascio di fotografie preziose che ti aveva addolorato aver perso”.

La risposta all’attuale emergenza rende necessario un cambiamento dei comportamenti oltre che specifici interventi sanitari3: ma sarà possibile conservare un approccio ai servizi più razionale? Il peso sanitario di questo inverno potrà trasformarsi in un momento di apprendimento? “Chissà se quando tutto questo sarà passato vi ricorderete di quanto sia stato abusato questo nostro povero SSN (sì, nazionale, perché tutta questa situazione sta gravando esclusivamente sulle strutture statali e non private), di quanto fango, di quante inutili illazioni e denunce e idiozie siano state dette inutilmente”.

Non siamo abituati al PS deserto: è un’altra delle stranianti novità di questo inverno. Salvo Fedele scrive su Facebook: “Gli italiani hanno dimostrato in questi giorni di prendere sul serio la necessità di rispettare il SSN nel suo complesso. I dati sull’accesso ai PS come agli ambulatori dei medici lo dimostrano senza dubbio alcuno. Ma è una risposta che deriva dall’alto senso civico individuale o è soltanto una risposta governata dalla paura momentanea? Non è un quesito banale cui rispondere. La domanda che mi faccio è infatti: quanto durerà?”.

C’è un mondo di cose dietro alle possibili risposte.

Bibliografia

1. Garber J. Top ten recommendations for right care in emergency medicine. Lown Institute 2020; 8 gennaio.

2. Dorsett M, Cooper RJ, Taira BR, Wilkes E, Hoffman JR. Bringing value, balance and humanity to the emergency department: The Right Care Top 10 for emergency medicine. Emerg Med J 2020; 37: 240-5.

3. Michie S, Rubin J, Amlôt R. Behavioral science must be at the heart of the public health response to covid-19. BMJ blogs 2020; 8 febbraio.

CoViD-19: restiamo integri

Quali rischi stiamo correndo dal punto di vista della corruzione, in un momento in cui i rischi sono chiaramente per la salute delle persone? Ne abbiamo parlato con Massimo Brunetti, responsabile dell’anticorruzione della AUSL di Modena. Massimo è parte anche della Associazione Italiana Integrità della Salute.

MB: Dobbiamo partire ricordando che si ha corruzione ogni qualvolta si verifica il tradimento del patto di fiducia fra i cittadini e tutti coloro a cui questa fiducia viene concessa delegandoli a esercitare un’attività pubblica o privata. Si tratta quindi del non fare l’interesse dei cittadini, avendone di ritorno una qualche utilità. La grande risposta di questi giorni degli operatori sanitari, che stanno mettendo a rischio la loro vita per tutelare la nostra, ci fa dire che nella maggior parte dei casi questa fiducia è ben riposta. Ma non sempre le cose vanno in questa direzione.

In effetti, è difficile dimenticare come proprio in momenti di emergenza sia successo di tutto nel nostro Paese. E non dobbiamo pensare solo agli scandali più grandi, ma anche alle truffe artigianali, di basso profilo…

MB: In questa emergenza legata alla CoViD-19 abbiamo visto accadere cose a cui tutti i cittadini sono esposti. Pensa a tutto quello che viene offerto in televisione, su internet o di persona in qualche negozio: dagli integratori ai più disparati interventi in grado di vincere o scoprire il virus. O pensa alle vendite di materiali, come le mascherine, a prezzi esorbitanti o confezionate in modo tale da non poter promettere alcuna prova di efficacia.

Truffe e reati odiosi come i furti di mascherine e kit destinati agli operatori sanitari per rivenderli. In un caso, una agenzia di scommesse metteva in vendita a prezzi esorbitanti mascherine e dispositivi sottratti da operatori sanitari al servizio sanitario1. Si spera che episodi simili – qualora confermati – portino al licenziamento di chi li ha messi in atto. Queste persone hanno infatti tradito la fiducia di tutti: dei cittadini, dei loro colleghi, mettendo in gioco la reputazione di tutto il sistema sanitario.

Perché il sistema è più vulnerabile durante un’emergenza?

MB: Perché saltano tutte le procedure normali di acquisto di beni e di acquisizione del personale, semplificandole in favore di una risposta il più possibile immediata, come avviene per esempio nei casi di terremoto. È evidente che se qualcuno tra quanti prendono queste decisioni vuole fare i propri interessi, l’occasione è ghiotta. Penso però che il più grande rischio che si corre in questo momento è che le scelte strategiche possano non esser fatte per il bene pubblico. E non parlo delle decisioni prese in condizioni di incertezza, in cui è ammissibile sbagliare, ma di quando esiste sin da subito la volontà preordinata di non fare l’interesse generale per favorire qualcuno. Parlando di emergenza, il ricordo che non dobbiamo cancellare dalla nostra memoria è quello di una Protezione Civile che per un certo periodo si trasformò in una macchina finalizzata a favorire interessi privati dimenticando la tutela incondizionata del bene pubblico.

Torniamo alle decisioni di questi giorni: quasi tutte le Regioni rivendicano una propria autonomia e compiono scelte importanti. Penso per esempio alla costruzione di nuovi ospedali…

MB: È chiaro che se decido di costruire un nuovo ospedale invece di usare strutture esistenti, magari private, sto facendo una scelta di campo. E ovviamente i cittadini si affidano completamente a chi sta prendendo quelle decisioni, non avendo competenze e informazioni adeguate. L’informazione asimmetrica è infatti uno degli elementi che caratterizzano gli episodi di corruzione.

Bene ha fatto il governo a chiedere alla sanità privata di dare il proprio contributo. Forse questa dovrebbe divenire una delle condizioni necessarie per essere accreditati con il Servizio Sanitario Nazionale. Se vuoi sedere al tavolo della famiglia, ci stai qualunque cosa succeda, soprattutto nel momento del bisogno.

L’impressione è che, dopo aver parlato per anni di pandemia attesa, al momento che questa diventa una realtà dimostrano tutti una sostanziale impreparazione. Non credi?

MB: Sono scelte difficili per chi le compie e che vengono fatte in un momento di stanchezza e di scarsa lucidità. Sarebbe importante invece che decisioni simili potessero essere previste e prese in anticipo, prima che questi eventi si verifichino. Fa riflettere il video di Bill Gates in cui anticipa lo scenario odierno in tutta la sua drammaticità, con il particolare che lo aveva detto 5 anni fa. Quello che non deve accadere è che tali scelte siano fatte per favorire qualcuno, sfruttando eventuali conflitti di interesse, altro fattore, insieme alla informazione asimmetrica, che favorisce la corruzione.




Parlando sempre di scelte strategiche, in questi giorni appare evidente come il sotto finanziamento del servizio sanitario pubblico stia mettendo a rischio la salute di tutti. È chiaro che se negli anni questa situazione fosse stata pensata da politici con l’obiettivo di privatizzare il sistema sanitario pubblico per trarne qualche beneficio, allora anche in questo caso ci troveremmo di fronte a una corruzione delle scelte. Decisioni non prese per il bene collettivo ma solo per un beneficio di pochi.

Quello che ci troviamo a vivere dovrebbe anche suggerire un ripensamento dell’agenda della ricerca: se il privato ha poca o nulla convenienza a esplorare determinati ambiti della conoscenza, non è ammissibile che questa mancanza di attenzione sia condivisa dalle istituzioni pubbliche…

MB: Le priorità della ricerca sono spesso dettate solo da interessi privati e molto poco da quelli pubblici. E di nuovo si pone un tema legato al finanziamento del sistema della ricerca, che non può essere lasciato soltanto nelle mani del privato.

Facendo un ragionamento generale anche il sistema economico e finanziario può portare a fare scelte lontane dal bene comune. Mi riferisco ai cosiddetti titoli finanziari legati al verificarsi o meno delle catastrofi e pandemie. È chiaro che quando gli interessi diventano così grandi, il rischio di non fare l’interesse dei cittadini esiste.

Quali princìpi dovremmo seguire in questo momento di emergenza?

MB: La prima cosa è la massima trasparenza delle scelte, in modo da consentire a tutti di vedere come vengono usate le risorse. La seconda è la segnalazione, anche anonima, da parte di operatori e di tutti i cittadini di eventuali situazioni opache attraverso i canali del whistleblowing che ogni pubblica amministrazione ha attivato in questi anni, o attraverso la denuncia alle forze dell’ordine e ai magistrati. Infine, occorre sempre tenere presente la gestione integrata del rischio. Sinora in tutte le aziende sanitarie i diversi rischi (di tipo clinico, verso i lavoratori, legati alla privacy, all’integrità, strutturali e tecnologici, per esempio) sono stati gestiti in modo troppo separato. E questo crea una minore efficacia delle azioni messe in campo, strumenti spesso non condivisi che potrebbero esserlo, una minore risposta da parte degli operatori che subiscono questo approccio a silos e soprattutto una mancata analisi delle cause comuni dietro questi rischi e delle loro possibili soluzioni.

In generale, questa emergenza ha messo in evidenza i veri valori dei professionisti che ogni giorno mettono a rischio la loro salute e quella dei loro cari per tutelare la nostra. La presenza o assenza di valori rappresenta infatti uno dei principali determinanti di tutti i fenomeni corruttivi. E mostra anche i valori delle organizzazioni in cui gli operatori lavorano, che hanno l’obbligo di fare il possibile per tutelare la salute di chi ogni giorno si mette a disposizione per il bene comune.

Per il bene di tutti speriamo che la Magistratura in questa emergenza debba intervenire il meno possibile. Farebbe veramente male pensare che anche un solo cittadino o un solo operatore possa aver messo a rischio la sua salute, perché abbiamo usato male le risorse o perché qualcuno abbia perseguito interessi privati2. Non dobbiamo e non possiamo permettercelo.

Ci auguriamo tutti che questa emergenza rimanga solo una storia sanitaria.

Bibliografia

1. Due operatori sanitari rubavano mascherine per rivenderle, denunciati. Gazzetta di Parma, 10 marzo 2020 (https://bit.ly/2UxqL2w).

2. Mackey TK, Kohler JC, Savedoff WD, et al. The disease of corruption: views on how to fight corruption to advance 21st century global health goals. BMC Med 2016; 14: 149.




CoViD-19 e WhatsApp

Siamo in 2 miliardi a usare WhatsApp. Benvenuta dunque l’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha appena lanciato un nuovo strumento chiamato “WHO Health Alert” su WhatsApp.

“Se scrivi ‘hi’ a numero +41 79 893 1892 su WhatsApp, riceverai un messaggio dall’OMS che comprende un insieme di voci di menu che portano alle ultime informazioni, come nuovi tassi di infezione da coronavirus in tutto il mondo, avvisi utili per chi deve viaggiare e segnalazioni di attività di disinformazione che dovrebbero essere contrastate. L’OMS può anche inviare avvisi, se necessario, a tutti coloro che si sono iscritti”1.

Non era necessaria la pandemia da CoViD-19 per accorgersi della disinformazione che influenza le scelte di salute dei cittadini. Ma nelle ultime settimane è emersa una novità inquietante: le fake news diffuse tramite WhatsApp, una app ormai utilizzata da tantissime persone. Ne abbiamo parlato con Francesca De Nard, medico specializzando dell’Università degli Studi di Milano che coordina il gruppo di lavoro Etica e salute pubblica della consulta degli specializzandi di Igiene. Francesca, qual è il problema a tuo parere?

FDN: Ho notato un aumento importante nella diffusione di messaggi audio e di testo su WhatsApp. Questi messaggi sono tutti confezionati con la stessa ricetta. Gli ingredienti sono: fonte reale non identificabile, anche se spesso vengono specificati nome e cognome di un professionista e il nome di una struttura, immediatezza della condivisione, ma soprattutto linguaggio tecnico e contenuti apparentemente “scientifici”. In questo modo i messaggi diventano facilmente fuorvianti, ed è difficile sottoporli a fact checking anche per gli stessi professionisti. Diversi di questi messaggi sono arrivati alla mia attenzione proprio attraverso colleghi. Per fare degli esempi, tra i messaggi al momento circolanti cito il messaggio vocale dell’amico del medico che consiglia di togliersi la scarpe prima di entrare in casa, e il testo scritto da un ortopedico (che ha smentito e denunciato in meno di 24 ore) che sconsiglierebbe l’assunzione di tutti i farmaci anti-infiammatori, in base a dati molto preliminari che riguardano esclusivamente l’ibuprofene utilizzato per il trattamento dei sintomi dell’infezione da SARS-CoV-2.

Su cosa si basa l’apparente scientificità di questi messaggi informali che circolano tra i cittadini?

FDN: Gli ingredienti di base sono quelli classici della disinformazione attraverso i social media: cherry picking, ovvero la selezione di dati non esaustivi ma utili per avallare o insinuare la propria tesi; la credibilità falsa o usata a sproposito (il primo messaggio irritante che ho ricevuto – via mail – è stata un’intervista al premio Nobel Luc Montagnier che promuoveva l’uso del glutatione per la profilassi di CoViD-19) e la narrativa divisiva, che tende a minare la fiducia nel Servizio Sanitario Nazionale, ma è anche di ostacolo al funzionamento di una comunicazione efficace.

L’elemento di novità è rappresentato dalla natura fuorviante dei contenuti, che riescono a mimetizzarsi nella letteratura scientifica. In un contesto di incertezza riguardo una materia nuova, potremmo parlare, quasi, di “fattori di rischio” che predispongono all’accettazione di questi messaggi sabotatori. Tra questi, la circolazione abbondante di preprint (per esempio sul database bioxriv) e la corsa alla pubblicazione su CoViD-19, a volte senza passare attraverso peer-review accurate anche su riviste prestigiose. Ancora, i risultati preliminari di trial farmacologici (come nel caso del tocilizumab) e di indagini epidemiologiche (come quella condotta a Vo’ Euganeo) che sembrano aver dato risultati molto importanti per il policy making, e che sono già stati rilanciati abbondantemente dai giornalisti, ma i cui dati e metodi – che sarebbero molto utili per interpretarne il vero significato – non sono a mia conoscenza ancora reperibili.

Qual è a tuo parere l’origine di tali messaggi?

FDN: Non è impossibile che dietro questi messaggi ci sia una serie di persone che in completa autonomia hanno escogitato degli scherzi di cattivo gusto. Tuttavia, applicando il rasoio di Occam, l’ipotesi di un fenomeno organizzato sembra richiedere un minor numero di assunzioni. Leggendo la stampa internazionale mi sono accorta che il fenomeno delle fake news su WhatsApp, con le stesse modalità, è di respiro globale. Non posso fare illazioni su chi sia il mandante ma è lecito pensare che l’intento sia di minare la nostra credibilità e dividerci.

Questi messaggi incompleti o infondati che circolano su WhatsApp restano confinati nei gruppi nei quali sono condivisi?

FDN: Assolutamente no. Il risultato è la frequente condivisione e conseguente disseminazione virale anche da parte di colleghi medici di informazioni e raccomandazioni che poi le società scientifiche, con inevitabile ritardo, si ritrovano a smentire. Questo fenomeno genera un elevato livello di incertezza e confusione sull’epidemia, anche per chi si trova a vari livelli a gestirla. In un contesto di incertezza, di necessità di prendere decisioni immediate, e anche di paura (non dimentichiamo che i colleghi clinici devono convivere con la consapevolezza del rischio di contrarre l’infezione), la prima difesa immunitaria a cadere è il rigore scientifico. Si corre il rischio di formare le proprie opinioni su dati non conclusivi, con basso livello di evidenza, non ancora soggetti a peer-review (non tutti siamo in grado di sostituirci al reviewer), estrapolati male o addirittura già retracted. Un’altra caratteristica comune a questi messaggi è il framing, orientato a mettere in dubbio le raccomandazioni ufficiali e al fear mongering. È veramente difficile riuscire a rispettare la raccomandazione di seguire solo le fonti ufficiali, prima di tutto perché al momento anche i medici hanno paura.

L’informazione scientifica sulla CoViD-19 è aperta: NEJM, JAMA, BMJ, Lancet non nascondono questi contenuti dietro un paywall e anche progetti come la Cochrane Library o UpToDate hanno deciso di rendere liberamente accessibile dati e notizie utili a governare la pandemia in corso: sarebbe paradossale se quello dell’open access possa diventare un problema e non la soluzione, non credi?

FDN: Qualcuno ha scritto che abbiamo voluto l’open access, ora però dobbiamo gestirlo e capire che farcene. Penso che la consapevolezza su questo tema sia molto importante. Tra i colleghi medici, soprattutto clinici, ho potuto constatare un livello di consapevolezza molto basso. Ho visto condividere preprint o articoli ritrattati anche da colleghi con profilo scientifico decisamente più elevato del mio. Sono convinta che la preparazione su CoViD-19 sia fondamentale anche per mantenere la lucidità necessaria per prendere decisioni e affrontare questo momento difficile. La consapevolezza in merito ai rischi della disseminazione scientifica accelerata è parte integrante di tale preparazione.

Ti chiederei di dare due consigli ai tuoi colleghi medici…

FDN: I take home message sono questi a mio parere: primo, mantenere alta la guardia “metacognitiva” e sforzarsi di condividere solo fonti ufficiali; secondo, ricordare che non siamo diversi dalle persone comuni, siamo soggetti agli stessi bias e alla stessa paura. Ripartire da questa consapevolezza penso sarà cruciale nel dopo CoViD-19, per (ri)costruire una relazione di fiducia su basi empatiche e non paternalistiche.

Situazione complicata, dunque, non solo dal punto di vista sanitario ma anche da quello informativo. Aziende come WhatsApp, però, sono da considerare alleate di chi lavora per una migliore comunicazione. Lo prova anche il finanziamento di un milione di dollari che WA ha devoluto al Poynter Institute’s International Fact-Checking Network1.

Dietro la disinformazione ci sono persone, non tecnologie.

Bibliografia

1. Newman LH. WhatsApp is at the center of coronavirus response. Wired 2020; 20 marzo (https://bit.ly/3awqfqN).