Quando scrivere salva la mente

Il primo di marzo scorso sono entrato in ospedale con una brutta polmonite. Al pronto soccorso sono stato subito curato e sottoposto a ogni genere di analisi, RX, TAC, sangue e tampone delle mucose orali e nasali. Stavo molto male. Dopo le analisi sono stato isolato in una stanza e supportato con l’ossigeno. Ero uno dei primi casi della mia città, il terzo per l’esattezza, e anche se tutto il personale ha seguito scrupolosamente le regole di sicurezza, il livello di allarme generale era ancora abbastanza basso. Nel giro di otto ore mi hanno comunicato l’esito del tampone. Ero positivo all’influenza B e al CoViD-19. Sono stato subito trasferito al reparto malattie infettive e avviato alla terapia sub-intensiva, sempre con il sostegno dell’ossigeno, ma senza ventilatore polmonare. Il giorno seguente ho iniziato la terapia farmacologica “cinese” basata su un cocktail di farmaci usati per Hiv/AIDS, malaria, e altri: in tutto una quindicina di pillole al giorno. Per via endovenosa invece mi veniva somministrata una massiccia quantità di antibiotici. Nel giro di quattro giorni sono stato in grado di fare a meno dell’ossigeno, ho iniziato di nuovo a pensare chiaramente, comunicare con il personale e con i miei amici e parenti fuori dall’ospedale tramite il cellulare. Alla fine della settimana stavo già in piedi e sono stato trasferito in un altro reparto creato appositamente per ospitare quelli che avevano superato la fase critica della malattia. Pur essendo sempre isolati, eravamo distribuiti in numero di due o tre per stanza. Il personale entrava solo per terapie e controlli e noi eravamo sollecitati a provvedere il più possibile in autonomia alle nostre esigenze. Entro la fine della seconda settimana ho sospeso quasi completamente la terapia. Mi hanno spiegato che una volta debellata l’infezione polmonare era sufficiente lasciare al mio corpo il tempo di eliminare naturalmente il virus. Mentalmente e psicologicamente avevo già recuperato un’ottima forma, mentre fisicamente ero ancora molto debole e disidratato. Come effetti indesiderati della terapia iniziale ho avuto più che altro nausee e diarrea in forma tutto sommato abbastanza sopportabile e limitata alla prima settimana. Entro il decimo giorno questi effetti sono quasi completamente spariti. La seconda parte della degenza è stata probabilmente la più difficile da gestire dal punto di vista psicologico. Essendo molto attivi intellettualmente e quasi totalmente inattivi dal punto di vista fisico ci siamo dedicati sempre di più ai nostri rapporti con l’esterno. Abbiamo potuto seguire giorno per giorno l’evolvere della pandemia in Italia e nel mondo e l’avvio dei primi provvedimenti da parte del Governo. Parlando con amici e parenti sparsi un po’ in tutta la penisola ci siamo resi conto che la percezione di ciò che stava accadendo era molto diversificata da zona a zona e da persona a persona. C’era chi era terrorizzato e viveva chiuso in casa, chi timoroso ma poco informato continuava a muoversi senza troppe precauzioni e chi sottovalutava la situazione pensando di essere talmente lontano dalle zone rosse da credere di poter continuare a svolgere le proprie occupazioni senza alcun tipo di rischio. Non abbiamo avuto per fortuna nessun contatto con persone assolutamente incredule sulla reale esistenza della pandemia ma ne abbiamo avuto notizia dai media o tramite amici e parenti. Parlando con tante persone ogni giorno ci siamo resi conto che la nostra visuale della situazione dall’interno dell’ospedale ci dava la possibilità di spiegare le cose filtrandole attraverso la nostra esperienza diretta. Come pazienti che avevano vissuto sulla propria pelle la forza distruttiva della malattia e la difficoltà di affrontarla e superarla avevamo la possibilità di comunicare in maniera molto efficace la necessità di proteggere se stessi e i propri cari dai rischi del contagio. Spiegare le difficoltà che il personale sanitario degli ospedali e l’ufficio d’igiene regionale stavano affrontando aiutava molti a capire che non era il caso di sottovalutare i rischi e quanto fosse importante che ognuno facesse la sua parte nella propria comunità.

Normalmente sono una persona molto attiva, sia fisicamente che nelle relazioni con le persone che frequento nelle mie tante attività. L’isolamento forzato e l’inattività hanno prodotto in me, a partire dalla terza settimana di degenza, una sorta di sovraccarico emotivo che rischiava di trasformarsi in nevrosi. Pensavo e parlavo senza sosta ossessionando compagni di stanza e personale medico. Anche nei rapporti telefonici con amici e parenti ero torrenziale e poco controllato.

Il mio modo istintivo di reagire a questa situazione è stato quello di dedicare tutte le mie energie alla realizzazione di qualcosa di concreto e possibilmente utile a me stesso e agli altri. Ho cominciato a scrivere della mia esperienza con il CoViD-19 dal punto di vista clinico, psicologico, emotivo e umano. L’obiettivo era terminare la scrittura entro la fine della degenza e così è stato. Più scrivevo e più mi tranquillizzavo, riacquistando il mio equilibrio. I tempi di eliminazione del virus sono stati più lunghi di quello che mi aspettassi: più di quattro settimane. Il 31 di marzo sono uscito dall’ospedale con due tamponi negativi e con il mio libro terminato da pochi minuti. Il messaggio della mia testimonianza si sintetizza in tre punti:

1.dal CoViD-19 si può guarire;

2.se si seguono le indicazioni del sistema sanitario e quelle dei decreti ministeriali si può riuscire a non ammalarsi;

3.anziché attendere la fine dell’emergenza per tornare alla nostra vita di prima, possiamo usare questo momento difficile per lavorare per noi stessi e la nostra comunità. Mettendo insieme ottimismo, automiglioramento e solidarietà, tutti insieme possiamo andare incontro al futuro incerto con maggiore fiducia e concretezza.

Paziente 3 di Bologna