Rapporti tra fumo, limitazione del flusso nelle vie aeree e arteriosclerosi subclinica

Studi epidemiologici e clinici hanno riconosciuto che la broncopneuomopatia cronica ostruttiva (BPCO) è una malattia sistemica che si associa a varie condizioni patologiche fra le quali assumono particolare rilevanza le malattie cardiovascolari (Fabbri LM, Luppi F, Beghè B, et al. Complex chronic comorbilities of COPD. Eur Respir J 2008; 31: 204), che rappresentano la causa di obitus dal 25 al 50% dei casi.



È noto che la BPCO è caratterizzata da una eccessiva risposta infiammatoria del polmone a molti fattori inquinanti tra cui ha un ruolo rilevante il fumo di tabacco (MacNee W. Pathogenesis of chronic obstructive pulmonary disease. Proc Am Thorac Soc 2005; 2: 258), che, d’altra parte, è un noto fattore di rischio cardiovascolare. Recenti studi dimostrano che i meccanismi che collegano malattie cardiovascolari e BPCO vanno ricercati nel persistente processo infiammatorio sistemico di lieve grado che può essere rivelato dall’aumentato livello plasmatico di proteina C-reattiva (CRP) che si osserva nei pazienti con BPCO (Man SF, Connett JE, Anthonisen NR, et al. C-reattive protein and mortality in mild to moderate chronic obstructive pulmonary disease. Thorax 2006; 61: 849).



L’associazione tra BPCO e malattie cardiovascolari è stata recentemente studiata in soggetti fumatori con o senza anomalie della funzione polmonare, valutando la eventuale presenza di segni di arteriosclerosi subclinica (JwamotoH, Yokoyama A, Kitahara Y, et al. Airflow limitation in smokers is associated with subclinical atherosclerosis. Am J Respir Crit Care Med 2009; 179: 35).
Gli autori hanno esaminato 61 uomini clinicamente sani di età media, fumatori, che presentavano una limitazione del flusso delle vie aeree, 122 soggetti di controllo di età corrispondente fumatori senza limitazione del flusso aereo e 122 soggetti di controllo non fumatori esenti da anomalie del flusso aereo.
È stata ricercata la presenza di arteriosclerosi subclinica perché ritenuta in correlazione con lesioni arteriosclerotiche coronariche e intracraniche e/o segno predittivo di futuri eventi cardiovascolari. A questo fine gli autori si sono avvalsi della misura dello spessore dell’intima e della media carotidea (IMT) e della misura della placca ateromatosa effettuate mediante ecografia carotidea. A questo proposito gli autori ricordano che l’IMT corrisponde al complesso intima-media comprendente cellule endoteliali, cellule connettivali, cellule muscolari e inoltre rappresenta il sito di deposito dei lipidi ( Zureik M, Ducimetière P, Touboul PJ, et al. Common carotid intima-media thickness predicts occurence of carotid atherosclerotic plaque: longitudinal results from the Aging Vascular Study. Arterioscler Thromb Vasc Biol 2000; 20: 1622).
È stato osservato che nei fumatori con limitazione del flusso delle vie aeree i valori medi di IMT carotidei sono più elevati che nei fumatori e nei non fumatori esenti da limitazione del flusso aereo. Inoltre le placche carotidee sono risultate più prevalenti nei fumatori con limitazione del flusso aereo che nei non fumatori. La frequenza delle placche è risultata più elevata nei fumatori con limitazione del flusso che nei fumatori di controllo, ma con differenze non significative. Secondo gli autori ciò significa che i fumatori con limitazione del flusso delle vie aeree presentano una arteriosclerosi subclinica definita “eccessiva” rispetto ai fumatori e non fumatori esenti da limitazione del flusso.
Secondo gli autori questi risultati indicano che è la limitazione del flusso, piuttosto che lo stato di fumatore, che si associa ad arteriosclerosi subclinica; infatti l’IMT dei fumatori senza limitazione del flusso è risultato simile a quella dei non  fumatori. Gli autori sottolineano inoltre che è stata osservata una evidente differenza nell’IMT carotideo, ma non nella frequenza delle placche, tra fumatori con o senza limitazione del flusso aereo. Inoltre l’elaborazione statistica dei dati raccolti ha indicato che la frequenza delle placche carotidee è risultata indipendentemente associata ai valori di CRP, ma non del VEMS (volume espiratorio massimo al primo secondo o FEV 1: “forced expiratory volume in one second”), mentre l’IMT è risultato significativamente correlato con il VEMS, ma non con la CRP. Gli autori riconoscono che, al momento attuale, non hanno potuto chiarire con certezza queste differenze, anche se vi sono studi che confermano che il livello di CRP è strettamente associato con il numero di placche carotidee, ma non con l’IMT e che il VEMS è associato con l’IMT, ma non con le placche ( Schroeder EB, Welch VL, Evans GW, et al. Impaired lung function and subclinical atherosclerosis. The ARIC study. Atherosclerosis 2005; 180: 367). A proposito di queste differenze gli autori ritengono che le attuali conoscenze sul processo arteriosclerotico inducano a considerare che differenti meccanismi patogenetici siano alla base dell’IMT e della formazione delle placche. Infatti le modificazioni dell’IMT sono prevalentemente a carico della media, specialmente se l’IMT è lieve, mentre la formazione delle placche è in larga misura dovuta all’ispessimento dell’intima.
Concludendo gli autori rilevano che, sebbene i meccanismi patogenetici siano ancora poco chiariti, l’infiammazione vascolare correlata al fumo può esplicare un ruolo centrale nell’accelerare la formazione delle placche arteriosclerotiche, che, peraltro, non sempre è accompagnata da un declino della funzione polmonare; su questo punto sono necessari ulteriori studi clinici controllati.
Infezione influenzale e sindrome di Guillain-Barré
La sindrome di Guillain-Barré (SGB) è una polineuropatia infiammatoria acuta, dovuta frequentemente a una abnorme risposta immunitaria a recenti infezioni respiratorie o gastrointestinali o recenti vaccinazioni (Hughes RA, Cornblath DR. Guillain-Barré syndrome. Lancet 2005; 366: 1653).



Recentemente sono stati studiati 405 pazienti nel periodo dal 1996 al 2004 con SGB, 234 dei quali causati da un agente microbico non identificato, al fine di identificare un rapporto tra la sindrome e recenti infezioni da virus influenzale (Sivadon-Tardy V, Orlikowski D, Porcher R, et al. Guillain-Barré syndrome and influenza virus infection. Clin Infect Dis 2009; 48: 48).
Gli autori hanno cercato di stabilire una correlazione statisticamente significativa tra casi di SGB non correlati  alle più frequenti etiologie (Campylobacter jejuni, cytomegalovirus, virus di Epstein-Barr e Mycoplasma pneumoniae) e casi di infezioni simil-influenzali (ISI) in Francia dove è stata condotta la ricerca.
È stato rilevato che l’incidenza di ISI è stata notevolmente più elevata nel mese precedente a un picco del numero di ricoverati per SGB di etiologia non identificata. Inoltre è stata ricercata la dimostrazione sierologica di recente infezione da virus dell’influenza A e B nei pazienti con SGB comparsa nei periodi di associazione positiva con epidemia di ISI. Per identificare una recente infezione influenzale è stato fatto ricorso alla prova di fissazione del complemento (PFC) che, come noto, rivela preferibilmente IgM, confermando i risultati con la prova di inibizione dell’emoagglutinazione specifica per l’influenza A.
Gli autori riferiscono che dei 73 pazienti con SGB, insorta durante un periodo di tempo nel quale vi è stato un possibile rapporto con l’influenza, 10 (13,7%) hanno presentato positività sierologica di recente influenza A e 4 (5,5%) di recente influenza B.
È stato rilevato che, tenendo presente l’incidenza di casi di influenza nel periodo di studio in Francia, dove questo è stato effettuato, i casi di SGB, correlati all’influenza sono stati da 4 a 7 per 100.000, a confronto con 1 su 1000 casi di SGB insorti dopo infezione da C. jejuni; ciò indica, secondo gli autori, che i virus influenzali sono scarsamente resposabili di una SGB e che, probabilmente, perchè questa sindrome si verifichi è necessaria una specifica predisposizione dell’ospite.
Secondo gli autori questo studio ha indicato che i casi di SGB correlati all’influenza A costituiscono un’entità nosologica specifica. Infatti in questi pazienti è stato oservato un più lungo periodo di tempo dall’evento infettivo (in genere un’infezione respiratoria o intestinale) all’insorgenza della SGB. È da rilevare che in questi casi di SGB sono risultati assenti gli anticorpi antigangliosidi e che nessun paziente ha richiesto ventilazione meccanica, mentre spesso sono stati osservati quadri di demielinizzazione, ma nessun caso con sindrome assonale. Gli autori ritengono che ciò possa spiegarsi con uno specifico processo immunopatologico che porta dall’influenza A alla SGB, implicando una risposta autoimmunitaria a peptidi virali, analogamente a quanto ipotizzato per l’etiologia da cytomegalovirus. Gli autori osservano che, al momento attuale, rimane un problema irrisolto il rapporto di specifici ceppi e sottotipi di virus influenzali con la SGB e sottolineano, al riguardo, che nella loro casistica si è trattato in maggioranza del ceppo di influenza H3N2.
Per quanto riguarda il rapporto tra vaccinazione anti-influenzale e SGB gli autori rilevano che esiste un rischio di SGB dopo un’infezione influenzale con una prevedibile maggiore frequenza che dopo vaccinazione, sia usando con vaccino inattivato (1 caso di SGB ogni 1.000.000 di vaccinati) che con virus attenuato (1 caso di SGB ogni 2.500.000 vaccinati) (Izurieta HS, Haber P. Wise RP, et al. Adverse events reported following live, cold-adapted, intranasal influenza vaccine. JAMA 2005; 294; 2720) ma non escludono la possibilità che la vaccinazione anti-influenza, consentendo di evitare le complicanze dell’infezione influenzale, posta proteggere dalla SGB e dalle sue sequele.
Riacutizzazioni asmatiche
e declino della funzione polmonare
L’asma bronchiale (AB) è caratterizzata da reversibile ostruzione delle vie aeree; tuttavia in alcuni pazienti è presente un’irreversibile ostruzione del flusso aereo che si associa a progressivo declino della funzione polmonare, valutata mediante la misura del volume espiratorio massimo nel primo secondo (VEMS o FEV1: “forced expiratory volume in 1 second”). Uno dei fattori più importanti di questo declino è rappresentato dalle riacutizzazioni del quadro asmatico (Bai TR, Vonk JM, Postma DS, et al. Severe exacerbations predict excess lung function decline in asthma. Eur Respir J 2007; 30: 452).
Come noto i corticosteroidi per inalazione sono considerati il trattamento fondamentale dell’AB, sebbene vi siano controversie sulla capacità di questi farmaci di modificare il decorso della malattia (Bateman ED, Hurd SS, Barnes PJ et al. Global strategy for asthma mangement and prevention: GINA executive summary, Eur Respir J 2008; 31: 143).
In un recente studio clinico a doppio cieco, condotto su 7165 pazienti con AB persistente da almeno 2 anni ed esaminati nel corso di 3 anni, è stata valutata l’efficacia di basse dosi del corticosteroide budesonide per inalazione nella prevenzione delle riacutizzazioni asmatiche gravi e del declino della funzione polmonare (O’Byrne PM, Pedersen S, Lamm CJ, et al, on behalf of the START Investigators Group. Severe exacerbations and decline in lung function in asthma. Am J Respir Crit Care Med 2009; 179: 19).
Gli autori hanno potuto dimostrare che le gravi riacutizzazioni asmatiche si accompagnano a riduzione post-broncodilatatoria del VEMS e che tale effetto è osservabile in adulti e in bambini, ma non in adolescenti. È stato inoltre rilevato che la riduzione del VEMS non è stata osservata nei pazienti trattati con basse dosi di budesonide per inalazione.
Secondo gli autori, sia le riacutizzazioni asmatiche che il declino della funzione polmonare, dimostrato dalla riduzione del VEMS, sono entrambi manifestazioni di un più grave fenotipo dell’AB. È stato inoltre osservato che i pazienti che hanno avuto riacutizzazioni presentavano identici valori di base del VEMS, sia pre- che post- broncodilatazione, rispetto ai pazienti esenti di riacutizzazioni. Tuttavia, sebbene siano state notate lievi differenze nei soggetti con gravi riacutizzazioni (più prolungata durata di malattia, più elevata esposizione al fumo passivo, più elevato numero di giorni con sintomatologia asmatica), non sono state osservate significative differenze nelle caratteristiche demografiche e funzionali respiratorie che potessero indicare che i soggetti con riacutizzazioni presentassero una AB più grave, prima della randomizzazione, rispetto ai pazienti che non hanno avuto riacutizzazioni. Gli autori hanno inoltre rilevato un decorso simile della malattia, sia nei pazienti con riacutizzazioni sia in quelli con gravi eventi correlati all’AB e richiedenti corticosteroidi per via orale; ciò indicherebbe, secondo gli autori, che al momento attuale, una correlazione causale tra riacutizzazioni asmatiche e declino della funzione polmonare, rimane nell’ambito delle ipotesi.
Rapporto tra steatosi epatica
e metabolismo dell’insulina
nel diabete mellito di tipo 2
L’epatosteatosi può precedere il diabete mellito di tipo 2 (DM2), la cui comparsa può essere identificata dall’aumento della glicemia a digiuno e della trigliceridemia, indipendentemente dall’aumento del peso corporeo; inoltre è noto che i pazienti con DM2 presentano un notevole aumento del contenuto lipidico del fegato rispetto a soggetti non diabetici di età e sesso corrispondenti (Kotronen A, Juurinen L, Hakkarainen A, et al. Liver fat is increased in type 2 diabetic patients and understimated by serum alamine aminotransferase compared with equally obese non diabetic subject. Diabetes Care 2008; 31: 165). Gli studi sui rapporti tra epatosteatosi e DM2 sono stati diretti essenzialmente a valutare la clearance dell’insulina da parte del fegato nei diabetici, con risultati non concordanti, in quanto in questi pazienti la clearance dell’insulina è stata osservata normale o ridotta o aumentata ed è stato sostenuto che tale variabilità possa essere dovuta a variazione del contenuto lipidico del fegato. In effetti è stato riferito che la sensibilità del fegato all’insulina, ritenuta ridotta nei diabetici obesi, è comparabile a quella di soggetti non obesi e non diabetici comparabili per età, sesso e peso corporeo ( Staher P, Hother-Nielsen D, Levin K, et al. Assessment of hepatic insulin action in obese type 2 diabetic patients. Diabetes 2001; 50: 1363).



Recentemente in un gruppo di 68 pazienti con DM2 e non diabetici di età, sesso e indice di massa corporea corrispondenti, sono stati misurati sensibilità all’insulina, clearance dell’insulina e contenuto lipidico del fegato (Kotronen A, Juurinen L, Tikkainen M, et al. Increased liver fat, impaired insulin clearance and hepatic and adipose tissue insulin resistance in type 2 diabetes. Gastroenterology 2008; 135: 122). La composizione del corpo e il contenuto lipidico sono stati misurati mediante risonanza magnetica nucleare, mentre la clearance dell’insulina, l’azione dell’insulina sulla produzione di glucosio da parte del fegato, la captazione di glucosio e la trigliceridemia sono state valutate mediante clampaggio insulino-glicemico.
È stato osservato che il contenuto lipidico del fegato è più elevato del 54% e la clearance dell’insulina è ridotta del 24% nei pazienti con DM2 rispetto ai non diabetici. Inoltre alla diminuzione della clearance dell’insulina ha conseguito un significativo aumento di oltre il 40% della concentrazione sierica di insulina in corso di iperinsulinemia indotta nei pazienti con DM2 rispetto ai non diabetici. Gli autori sottolineano che, quando sono state tenute presenti queste differenze, sono risultati insulinoresistenti sia il fegato che i tessuti periferici e il tessuto adiposo. È stato inoltre rilevato che il contenuto lipidico del fegato è risultato inversamente proporzionale all’insulino-sensibilità epatica, ma non dei tessuti periferici, indipendentemente dalla trigliceridemia e dal livello di emoglobina glicosata (HbA 1C): ciò significa, secondo gli autori, che tanto più intensa è la steatosi epatica, tanto più il tessuto epatico è insulino-resistente.
Gli autori, concludendo, ritengono che nei pazienti con DM2 la steatosi epatica sia associata a compromessa clearance dell’insulina e a resistenza all’insulina dei tessuti epatico e adiposo e che la sensibilità all’insulina a livello epatico, ma non periferico, sia indipendentemente associata al contenuto lipidico del fegato. Inoltre, in questi pazienti, la clearance dell’insulina e la secrezione di insulina, ma non la sensibilità all’insulina a livello epatico, contribuiscono indipendentemente all’insulinemia.
Glitazoni nella terapia
della steatoepatite non alcolica
La steatoepatite non alcolica (NASH, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “nonalcoholic steatohepatitis”) è caratterizzata da steatosi epatica associata a infiammazione e danno epatico; come noto, la principale complicazione della NASH è la fibrosi epatica che evolve verso la cirrosi con conseguenti morbilità e mortalità per insufficienza epatica e/o carcinoma epatocellulare. La NASH si associa frequentemente a diabete mellito di tipo 2 (DM2), obesità e insulinoresistenza ed è ritenuta importante copmponente della sindrome metabolica ( Marchesini G, Bugianesi E, Forlani G, et al. Nonalcoholic fatty liver, steatohepatitis and the metabolic syndrome. Hepatology 2003; 37: 917).



L’insulinoresistenza rappresenta un importante fattore predisponente all’accumulo di lipidi nel fegato e allo sviluppo della steatoepatite e della sua progressione. Per conseguenza la correzione dell’insulinoresistenza è considerata importante in queste condizioni, da ottenere mediante modificazioni delle abitudini alimentari, riduzione del peso e moderata attività fisica. Ma, poiché, in realtà, è spesso difficile raggiungere questi obiettivi, si ricorre all’uso di farmaci insulinosensibilizzanti come i tiazolidindioni.
Recentemente in uno studio clinico controllato, randomizzato e a doppio cieco, sono stati studiati 63 pazienti con NASH istologicamente confermata, assegnati a ricevere rosiglitazone 4 mg pro die nel primo mese e 8 mg pro die nel secondo (n = 32) o placebo (n = 31) per un anno, eseguendo una biopsia epatica di controllo al termine del trattamento (Ratziu V, Giral P, Jacqueminet S, et al. Rosiglitazone for nonalcoholic steatohepatitis: one year results of the randomized placebo-controlled Fatty Liver Improvement with Rosiglitazone Therapy (FLIRT) Trial. Gastroenterology 2008; 135: 100).
È stato osservato che in pazienti con NASH il trattamento per un anno con rosiglitazone migliora in maniera significativa la steatosi epatica e normalizza i valori delle aminotransferasi, ma non esplica effetti su altre lesioni epatiche. In oltre la metà dei casi trattati con rosiglitazone la diminuzione della steatosi è stata del 40% o più; la riduzione del livello delle aminotransferasi si è verificata rapidamente nei primi quattro mesi di terapia, mantenendosi per tutto il periodo di osservazione, ma dopo il termine della terapia il livello delle aminotransferasi è ritornato rapidamente ai valori di partenza e, inoltre, è regredito il miglioramento della sensibilità all’insulina. Secondo gli autori ciò indica che il trattamento della NASH con glitazoni deve essere prolungato e ciò comporta una particolare attenzione ai possibili effetti collaterali di questi farmaci e anche la necessità di ulteriori studi controllati.
A proposito della tollerabilità del rosiglitazone adoperato in questo studio, gli autori riferiscono che nella maggioranza dei soggetti esaminati non si sono manifestati eventi avversi cardiovascolari o epatici, sebbene in “alcuni” pazienti sia stata osservata una modesta diminuzione dell’emoglobina e un aumento di peso, mentre la riduzione delle dosi di rosiglitazone o la sospensione del trattamento sono state necessarie in alcuni casi per la comparsa di edema doloroso agli arti inferiori.
Gli autori segnalano che, contrariamente ad altri studi, non hanno notato attenuazioni del processo necroinfiammatorio epatico, né della fibrosi e del punteggio dell’attività nella NASH secondo Kleiner et al (Kleiner DE, Brunt EM, Van Natta M, et al. Design and validation of a histological scoring system for nonalcoholic fatty liver disease. Hepatology 2005; 41: 1313). Secondo gli autori queste discrepanze potrebbero essere dovute a differenze nelle popolazioni studiate o a differenze di attività nei diversi glitazoni adoperati. Infatti, come gli autori ricordano, ad esempio rosiglitazone e pioglitazone esplicano analoghi effetti ipoglicemizzanti, ma diversi effetti su trigliceridi e colesterolo LDL e questi problemi richiedono ulteriori approfondimenti, soprattutto per stabilire se queste peculiarità esplichino un’influenza sull’istologia epatica. Per quanto concerne l’influenza della terapia con glitazoni sulla fibrosi epatica, gli autori osservano che, sebbene sia stata documentata una sua riduzione ( Friedman SL, Bansal MB. Reversal of hepatic fibrosis. Fact or fantasy? Hepatology 2006; 43: 582), tuttavia, trattandosi di un processo molto lento, promosso dalla regressione degli eventi causali (come steatosi e necroinfiammazione), non appare possibile dimostrarne la riduzione in ricerche di breve durata; su questo aspetto del problema gli autori si sono avvalsi dell’esame delle biopsie epatiche eseguite al termine del trattamento, ritenendolo un metodo sensibile per rivelare la modificazioni istologiche iniziali.
Un altro importante aspetto della NASH e del suo trattamento con rosiglitazone è quello dell’effetto di questo farmaco sull’insulinoresistenza, che rappresenta un fattore centrale nella patogenesi della malattia. Gli autori hanno osservato che i pazienti trattati con rosiglitazone hanno presentato una significativa riduzione della glicemia a digiuno, dell’emoglobina glicosata e degli indici di insulinoresistenza, come iperinsulinemia e HOMA (“homeostasis model assessment”) che nel loro studio sono apparsi strettamente correlati al miglioramento della steatosi. A questo riguardo gli autori sottolineano che il rosiglitazone dà luogo a significativo aumento del livello sierico dell’adiponectina che possiede proprietà antisteatogene e antidiabetogene e determina una diminuzione del contenuto in lipidi del fegato. Secondo gli autori tutti questi dati dimostrerebbero che il rosiglitazone esplica il suo positivo effetto nella NASH attraverso la sua azione insulino-sensibilizzante. Gli autori rimarcano che nel loro studio il rosiglitazone ha migliorato la steatosi e il livello delle aminotransferasi nonostante un aumento di peso verificatosi nel 40% dei soggetti esaminati. Ciò dimostrerebbe, secondo gli autori, che tale aumento di peso in corso di trattamento con rosiglitazone non esplica effetto dannoso sulla sensibilità all’insulina, perché è dovuto ad espansione non dei depositi lipidici centrali, ma di quelli periferici che sono metabolicamente meno attivi.
Un aspetto importante, sul quale gli autori richiamano l’attenzione, è quello dei pazienti che non rispondono al rosiglitazone con una riduzione della steatosi e che nel loro studio rappresentano la metà dei casi. Gli autori ritengono che altri meccanismi, oltre la sensibilizzazione all’insulina, possano essere implicati nel miglioramento del danno epatico ottenuto con il rosiglitazone e citano alcune ricerche su animali che hanno dimostrato che questo farmaco determina un miglioramento del danno e della fibrosi del fegato indipendentemente dall’effetto insulino-sensibilizzante ( Galli A, Crab DW, Ceni E, et al. Antidiabetic thiazolidinediones inhibit collagen synthesis and hepatic stellate cell activation in vivo and in vitro. Gastroenterology 2002; 122: 1924). Inoltre gli autori ritengono che in alcuni pazienti con NASH, oltre alla riduzione dell’insulinoresistenza, debbano essere attuati altri trattamenti con farmaci antiapoptotici, antiossidanti ed epatoprotettivi (McCullough AJ. Thiazolidinediones for nonalcoholic steatohepatititis: promising but non ready for prime time. N Engl J Med 2006; 355: 2361).
Per ciò che concerne i pazienti non rispondenti al rosiglitazone gli autori ritengono sia indispensabile riconoscerli precocemente all’inizio del trattamento. A questo fine si ricorda che i pazienti che rispondono alla terapia presentano all’inizio più bassi livelli di gamma-glutamiltransferasi (λ-GTT) e meno frequentemente sono diabetici; inoltre questi soggetti presentano più elevati livelli di adiponectina, che è ritenuta un importante mediatore dell’azione insulino-sensibilizzante dei glitazoni. Gli autori ritengono necessari ulteriori studi clinici controllati su questi problemi.
Nel concludere, gli autori non dimenticano di sottolineare che i potenziali benefici effetti dei glitazoni sul fegato vanno valutati in rapporto ai potenziali effetti collaterali a lungo termine, soprattutto cardiovascolari e osteoarticolari.

Un altro recente contributo alla terapia della NASH con glitazoni è quello di Aithal et al che hanno valutato l’effetto dei pioglitazone su 74 pazienti non diabetici (45 uomini, età media 54 anni) con NASH istologicamente confermata, che sono stati assegnati con criterio random a ricevere per 12 mesi placebo (n = 30) o pioglitazone (n = 31) alla dose di 30 mg pro die, e controllati con bopsia epatica all’inizio e al termine della ricerca (Aithal GP, Thomas JA, Kaye PV, et al. Randomized, placebo-controlled trial of pioglitazone in non diabetic subject with nonalcoholic steatohepatitis. Gastroenterology 2008; 135: 1176).
Gli autori hanno osservato che il trattamento per un anno con 30 mg pro die di pioglitazone ha ridotto il grado di steatosi epatica, di danno epatocellulare e di infiammazione lobulare e inoltre il numero dei corpi di Mallory-Denk e la fibrosi in pazienti non diabetici con NASH. Si sottolinea che, sebbene la steatosi epatica sia migliorata anche nei pazienti del gruppo placebo, tuttavia in questo gruppo sono peggiorate la degenerazione balloniforme, l’apoptosi e la perdita di epatociti, che caratterizzano il danno epatocellulare. Per contro, nei soggetti trattati con pioglitazone è stata rilevata una riduzione di questi aspetti predittivi di progressivo danno epatico.
È interessante rilevare che in questo studio una modesta riduzione della alanino-aminotransferasi (ALT) si è verificata anche nei soggetti trattati con placebo in associazione con una attenuazione della steatosi all’esame istologico. Gli autori ritengono che ciò possa essere dovuto alle modificazioni delle abitudini di vita adottate sia nel gruppo pioglitazone che in quello placebo e anche alle caratteristiche della storia naturale della NASH. A questo proposito gli autori ricordano che nella steatosi epatica possono essere presenti alterazioni istologiche avanzate nonostante normali livelli di enzimi epatici ( Mofrad P, Contos MJ, Haque M, et al. Clinical and histologic spectrum of nonalcoholic fatty liver disease associated with normal ALT values. Hepatology 2003; 37: 1286).
Gli autori rilevano che il pioglitazone è utile nella terapia della NASH anche in pazienti non diabetici e osservano che dopo 12 mesi di trattamento la glicemia a digiuno e il livello di emoglobina glicosata, che sono aumentati nel gruppo placebo, sono diminuite nel gruppo pioglitazone; inoltre in questo gruppo non è stata osservata alcuna significativa riduzione dell’insulinemia a digiuno, né un miglioramento dell’indice HOMA, nonostante una significativa riduzione del livello di peptide C, a indicare che il pioglitazone determina una miglioramento della sensibilità all’insulina e pertanto una riduzione della sua secrezione.
Per quanto riguarda l’aumento, peraltro modesto, del livello sierico di adiponectina osservato nei pazienti trattati con pioglitazone gli autori ritengono che ciò sia dovuto all’attivazione trascrizionale del gene per l’adiponectina mediata dal recettore PPAR-λ. Nel gruppo pioglitazone è stato osservato un significativo aumento del livello di leptina, probabilmente in rapporto con l’aumento del peso corporeo osservato in questi pazienti. A questo proposito gli autori rilevano che, sebbene la leptina abbia un ruolo nello sviluppo della fibrosi nella NASH, ciò si verifica soltanto in presenza di altri cofattori come l’epatite C e l’etanolo.
Per quanto riguarda l’aumento del peso osservato nei pazienti trattati con pioglitazone gli autori sottolineano che tale aumento non ha ostacolato il positivo effetto del farmaco sulla fibrosi.
Infine gli autori si soffermano sugli effetti cardiovascolari dei glitazoni che sono ritenuti la causa più frequente di morbilità e mortalità nei soggetti trattati con questi farmaci e riferiscono che nessuno dei pazienti del gruppo pioglitazone ha presentato un’insufficienza cardiaca, sottolineando che alcuni studi hanno indicato che il pioglitazone, a differenza del rosiglitazone, ha determinato una riduzione del rischio di infarto miocardico e di ictus (Lincoff AM, Wolski K, Nicholis SJ, et al. Pioglitazone and risk of cardiovascular events in patients with type 2 diabetes mellitus: a meta-analysis of randomized trials. JAMA 2007; 298 1180), inducendo a ritenere che gli effetti cardiovascolari collegati all’uso dei glitazoni non siano da considerare correlati alla classe farmacologica di questi preparati.
Livello lipidemico a digiuno e dopo pasto
Per lo screening iniziale delle alterazioni del metabolismo lipidico recenti linee guida includono un profilo lipidico che comprende le misure a digiuno di colesterolo LDL (C-LDL), colesterolo HDL (C-HDL) e trigliceridi (TG) (Third Report of the National Cholesterol Education Program (NCEP) Expert Panel on Detection, Evolution and Treatment of High Blood Cholesterol in Adults (Adult Treatment Panel III) Circulation 2002; 106: 3143). Tuttavia queste stesse linee guida, per la misura del colesterolo totale e del C-HDL, consentono che il prelievo di sangue sia eseguito anche non a digiuno, ritenendo che questi parametri siano modificati soltanto in piccola misura dal pasto; questo stesso criterio può essere applicato per la misura del colesterolo non-HDL (loc cit). Tuttavia recenti studi consigliano il prelievo dopo pasto anche per i TG, ritenendo che questa procedura dia risultati più validi nel prevedere malattie cardiovascolari rispetto alla misura a digiuno. È stato inoltre osservato che le risposte postprandiali, correlate sia all’equilibrio lipidico che a quello glicidico, possano indicare la presenza di processi arteriosclerotici e/o protrombotici, come infiammazione, stress ossidativo e vasocostrizione (O’Keefe JH, Bell DS. Postprandial hyperglycemia/hyperlipidemia (postprandial dysmetabolism) is a cardiovascular risk factor. Am J Cardiol 2007; 100: 899).



Sui rapporti tra livello lipidemico a digiuno e dopo pasto e malattie cardiovascolari è stato condotto uno studio prospettico su un gruppo di donne inizialmente sane al fine di valutare: 1) i livelli di lipidi e di apolipoproteine in funzione del prelievo di sangue a digiuno o dopo pasto e 2) se il digiuno, rispetto allo stato postprandiale, modifichi l’associazione tra questi livelli e l’incidenza di malattie cardiovascolari (Mora S, Rifai N, Buring JE, et al. Fasting compared with nonfasting lipids and apolipoproteins for predicting cardiovascular events. Circulation 2008; 118: 993).
Gli autori hanno esaminato 26330 donne seguite per un periodo di 11 anni, delle quali 19983 esaminate a digiuno e 6347 dopo pasto. Gli autori hanno considerato a digiuno un periodo di 8 ore dall’ultimo pasto, dividendo inoltre la popolazione studiata in gruppi secondo la distanza dall’ultimo pasto.
È stato osservato che, complessivamente, le concentrazioni sieriche di lipidi e di apolipoproteine hanno presentato minime differenze in rapporto al tempo del prelievo; ciò peraltro non si è verificato nei riguardi della misura dei TG, che ha dato valori più elevati quando effettuata dopo pasto.
Tuttavia è stato notato che i rapporti con le malattie cardiovascolari sono stati più evidenti a digiuno per quanto riguarda colesterolo totale, C-LDL apolipoproteina B-100, colesterolo non-HDL, rapporto tra apolipoproteina B-100 e apolipoproteina A-1. Al contrario l’associazione con malattie cardiovascolari è risultata simile a digiuno e dopo pasto per C-HDL, apolipoproteina A-1 e rapporto tra colesterolo totale e C-HDL e, come detto, più evidente dopo pasto per i TG.
Secondo gli autori questi risultati indicano che il prelievo dopo pasto è “altamente” più efficace e pratico quando limitato alla misura di C-HDL, rapporto colesterolo totale/C-HDL e TG. Questi risultati indicano, peraltro, che le misure a digiuno debbano essere preferite quando la valutazione del rischio cardiovascolare è fondata soltanto sui livelli di colesterolo totale, C-LDL e colesterolo non-HDL.
Gli autori sottolineano l’importanza dell’osservazione che l’associazione dei livelli dei vari lipidi e delle apolipoproteine con il rischio cardiovascolare è risultata differente secondo le condizioni del prelievo a digiuno o dopo il pasto, anche se le differenze tra le due modalità di prelievo sono state minime e clinicamente non significative.
Gli autori rimarcano inoltre che i livelli di colesterolo totale e di C-LDL hanno mostrato le più evidenti differenze nel loro valore predittivo di rischio cardiovascolare, anche se differenze sono state osservate per apolipoproteina B-100, colesterolo non-HDL e rapporto apolipoproteina B-100/A-1, tutti parametri più elevati a digiuno. Secondo gli autori questi rilievi debbono indurre a ritenere che i risultati ottenuti da prelievi dopo pasto debbano essere interpretati con cautela per quanto si riferisce a colesterolo totale e colesterolo non-HDL.
Per quanto concerne i risultati ottenuti dopo pasto in rapporto al termine trascorso dall’ultimo pasto nei riguardi dei livelli di lipidi e di apolipoproteine, gli autori hanno osservato che un intervallo da 6 a 8 ore ha coinciso con la più evidente associazione nei confronti di C-HDL e TG, mentre è stato più lungo (10-12 ore) per colesterolo totale e C-LDL. Secondo gli autori ciò potrebbe essere spiegato dal tempo che intercorre perché si completi il metabolismo dei TG, essendo stato segnalato che il loro massimo assorbimento ha luogo tra 4 e 8 ore, mentre dopo 8 ore il livello è tornato ai valori a digiuno nella maggioranza degli individui.
Gli autori ritengono che le ricerche su questi problemi debbano essere estese a popolazioni oggetto di prevenzione secondaria, che spesso sono trattate con farmaci ipolipidemizzanti.

L’associazione di ipertrigliceridemia postprandiale con il rischio di ictus ischemico è stata recentemente valutata in uno studio prospettico su 13956 soggetti di ambo i sessi, di età tra 20 e oltre 80 anni (Freiberg JJ, Tybiaerg-Hansen A, Jensen JS, et al. Nonfasting triglycerides and risk of ischemic stroke in the general population. JAMA 2008; 300: 2142). Questo studio ha indicato che un aumento del livello sierico di TG, misurato dopo pasto è associato a rischio di ictus ischemico. Gli autori osservano che la misura della trigliceridemia dopo un periodo di digiuno di 8-12 ore esclude gran parte delle lipoproteine cosiddette “remnants”. A questo proposito gli autori ricordano che l’aumento di TG dopo pasto indica un aumento del livello di remnants provenienti dai chilomicroni e dalle lipoproteine VLDL che, come noto, promuovono il processo arteriosclerotico ( Kolovou GD, Anagnostopoulos KK, Daskalopoulos SS, et al. Clinical relevance of postprandial lipaemia. Curr Med Chem 2005; 12: 1931).
Inoltre, poiché tutte le cellule sono capaci di degradare i TG, ma non il colesterolo, è il contenuto di questo che è il responsabile dell’arteriosclerosi. Gli autori ricordano anche che le lipoproteine remnants sono in grado di penetrare nell’intima delle arterie, venendo intrappolate nello spazio subendoteliale. Per contro, il colesterolo presente nelle particelle remnants non può essere degradato dai macrofagi dell’intima, che sono trasformati nelle cellule schiumose cariche di colesterolo che formano i depositi lipidici e quindi promuovono l’arteriosclerosi e le sue manifestazioni tra cui l’ictus ischemico.
Recenti acquisizioni
sulla patogenesi della fibrillazione atriale
I più recenti studi hanno indicato che la fibrillazione atriale (FA) è la conseguenza dell’interazione di vari meccanismi patogenetici che esplicano effetto scatenante e che danno origine all’aritmia oppure ne costituiscono il substrato; sono noti inoltre altri fattori che promuovono il perpetuarsi dell’aritmia, come l’accorciamento del periodo refrattario, l’accentuata variabilità di questo periodo e il rallentamento della conduzione. Negli anni più recenti è stato osservato che il mantenimento dell’FA può dar luogo a un’accentuata tendenza alla sua persistenza, secondo il concetto che “la FA causa la FA” ( Wiffels MC, Kirchhof CJ, Dorland R, et al. Atrial fibrillation begets atrial fibrillation. A study in awake chronically intrumented goats. Circulation 1995; 92: 1954). Successivamente è stato osservato che la stimolazione elettrica delle vene polmonari (VP) rappresenta lo stimolo predominante nella patogenesi dell’FA e che i pazienti con questa aritmia presentano peculiari caratteristiche elettrofisiologiche delle VP con accrosiamento del periodo refrattario e ridotte proprietà di conduzione. Queste modificazioni elettrofisiologiche sono state recentemente studiate anche in soggetti senza FA in risposta a una FA indotta e di lunga durata (Rostock T, Lutomsky B, et al. Atrial fibrillation begets atrial fibrillation. On the impact of atrial fibrillation on the lectophysiological properties of the pulmonary veins in humans. J Am Coll Cardiol 2008; 51: 2153).



Gli autori hanno studiato 35 soggetti di 43±13 anni, 21 uomini, con via accessoria sinistra (20 con sindrome WPW, 12 con via accessoria latente), senza storia clinica di FA, non trattati in precedenza con farmaci antiaritmici e sottoposti ad ablazione primaria con catetere. Lo studio elettrofisiologico e l’ablazione sono stati eseguiti a digiuno con lieve sedazione.
Lo studio ha dimostrato l’influenza di un breve periodo di FA sulle caratteristiche elettrofisiologiche delle VP in soggetti senza FA. Il periodo refrattario effettivo delle VP è risultato significativamente più prolungato che negli atri in condizioni basali; dopo un breve periodo di FA sono diminuiti i periodi refrattari effettivi sia delle VP che degli atri. Inoltre è stato rilevato che la risposta elettrofisiologica alla FA è stata notevolmente pronunciata nelle VP, come indicato da una maggiore riduzione del periodo refrattario effettivo rispetto a quella degli atri. Gli autori sottolineano che la presenza di un breve periodo di FA influenza l’elettrofisiologia delle VP rallentando la  velocità di conduzione, senza influenzare la velocità di conduzione degli atri. Infine è stato rilevato che la tendenza a indurre FA è stata significativamente più elevata dopo un breve periodo di FA.
Gli autori ritengono che il loro studio dimostri che anche un’esposizione di breve durata a una FA dia luogo a caratteristiche elettrofisiologiche tipiche della FA unitamente a un significativo aumento alla predisposizione a FA; pertanto gli autori confermano che anche i soggetti che non presentano una predisposizione alla FA possono rapidamente sviluppare un “ambiente” aritmogenico simile a quello dei pazienti con FA. Pertanto la stessa FA produce alterazioni elettriche associate alla FA e quindi, secondo gli autori, il processo del rimodellamento elettrico indotto dalla FA non richiede necessariamente la presenza di un substrato predisponente alla FA.
Gli autori sottolineano l’importanza della peculiare risposta alla FA dell’atrio destro e l’analogia delle risposte nell’atrio sinistro e nelle VP e le significative alterazioni elettriche indotte da un episodio di FA di breve durata, alterazioni più pronunciate nelle VP che negli atri. Queste alterazioni indicano, secondo gli autori, 1) che le VP sono più predisposte e sensibili ad alterazioni metaboliche, e conseguentemente elettriche, dovute alla FA e 2) che l’effetto della FA che causa FA può diffondersi più rapidamente nelle VP che negli atri, confermando il ruolo delle VP nella patogenesi della FA.

Questi studi trovano conferma in recenti ricerche sul ruolo delle alterazioni della perfusione atriale nella patogenesi della FA isolata ricorrente (Skalidis EI, Hamilos ML, Karalis IK, et al. Isolated atrial microvascular dysfunction in patients with lone recurrent atrial fibrillation. J Am Coll Cardiol 2008; 51: 2053).
Gli autori hanno misurato la velocità di flusso nei rami atriali dell’arteria circonflessa coronaria, avvalendosi di una tecnica Doppler, in 15 soggetti con FA isolata ricorrente e in 15 soggetti di controllo. È stato osservato che la riserva di flusso coronarico (RFC) nel ramo atriale sinistro della circonflessa è significativamente ridotta in pazienti con FA isolata ricorrente, sia a confronto con i corrispondenti valori in soggetti normali, sia nella circonflessa degli stessi pazienti.
Gli autori ricordano che il microcircolo rappresenta una sede attiva di regolazione del flusso ematico e che, in condizioni di riposo, il 60% della resistenza vascolare totale del miocardio è dato dalle arteriole; quando la resistenza vascolare totale miocardica si riduce la rete capillare offre la resistenza maggiore al flusso, costituendo un limite massimo all’iperemia. Nella FA cronica, che si associa a fibrosi atriale e a degenerazione delle cellule atriali, anche per deposizione di amiloide, si verificano alterazioni del microcircolo che sono state osservate anche nella FA isolata ricorrente ( Boldt A, Wetzel U, Lauschke J, et al. Fibrosis in the left atrial tissue of patients with atrial fibrillation with and without underlying mitral disease. Heart 2004; 90: 400).
Gli autori ricordano inoltre che nel miocardio atriale l’estrazione di ossigeno è di circa il 50% inferiore a quella che si verifica nel ventricolo e che i miociti atriali sono più sensibili di quelli ventricolari alla riduzione del flusso. Tutti questi fattori conducono a un deficit di flusso ematico che in corso di FA è accentuato dalla più elevata richiesta di sangue e possono spiegare perché in questi pazienti compaiono ricorrenti episodi in cui si verificano squilibrio tra domanda e rifornimento di ossigeno, ischemia atriale, ipoperfusione atriale cronica, ibernazione e fibrosi del miocardio atriale e disfunzione del microcircolo atriale; questi eventi, a loro volta, costituiscono o aggravano un circolo vizioso, come indicato da Wiffels et al ( loc cit).