Medicinema

… parole che vengono e tornano,
vettori di confronto e/o di condivisione:
parole oggi inferme, domani – forse – guarite;
certamente lenite

Parola che ammala,
parola  che guarisce

Il recente, super premiato film di Tom Hooper: Il discorso del re (118 min.; sceneggiatura di David Seidler) descrive l’impegno che ha angustiato ben 14 anni della vita di Giorgio VI d’Inghilterra per sconfiggere una balbuzie scatenata da una infanzia ingessata in formalismi repressivi, nutriti da precettori occhiuti, cerimonieri di corte, scherno del fratello ed autoritarismo paterno. Fino al soccorso della giovane moglie che, con amorevole condivisione, lo indirizza provvidenzialmente ad un logoterapeuta tanto poco ortodosso quanto esperto ed efficace. La sequenza di apertura è il disastroso debutto oratorio dell’allora giovanissimo Bertie, duca di York (siamo nel 1925) alla grande Fiera imperiale di Wembley. Un colossale flop in veste e sede ufficiali, che avrebbe potuto innescare la definitiva rinuncia alla vita pubblica da parte del secondogenito. Ma non sarà così. Lionel Logue, il bizzarro terapeuta entrato a fatica e non senza contrasti nella stima e confidenza della coppia dei futuri sovrani, condurrà Bertie (prossimo re Giorgio per l’abdicazione del fratello maggiore Edoardo VIII) alla oratoria fastosa dell’incoronazione in Westminster (1937) ed a quella, altrettanto solenne ma tragicamente incandescente, della dichiarazione di guerra, nel 1939. Quattordici anni di incontri, tentativi, incomprensioni, successi, cedimenti e recuperi: da un dimesso ambulatorio di Harley Street fino allo storico accesso a Buckingham Palace.
Il plot è essenzialmente innervato dal rapporto tra Bertie e il terapeuta, che – sin dall’inizio – pone in chiaro la sua policy: malato e medico sullo stesso piano, una relazione di confidenza, nessun complesso di sudditanza, nessuna gerarchia di casta o di censo: ci si chiama per nome e si discute senza infingimenti. O così o niente cura. E Bertie, il re, ben consigliato dalla provvida consorte, fa sagacemente buon viso ad apparente cattiva sorte, financo alla scoperta – scioccante per i nostri, maliziosamente risolutiva (e tuttavia delusa!) per i cortigiani benpensanti – che Lionel Logue non può vantare titoli di laurea e pertanto non può chiamarsi medico. «Non mi sono mai definito “dottore” – replica Lionel – ma ho sempre agito per dare aiuto a chi me lo ha chiesto». La confidenza e la confermata fiducia che sottendono il rapporto tra i due protagonisti si esaltano in un finale di toccante drammaticità. Bertie pronuncia il celebre discorso radiofonico, annunciando la sfida della libertà all’arroganza nazista. In questa prova storica, Lionel lo assiste frase dopo frase, ed alla fine, mentre esplode il plauso della Corte e del popolo, porge l’elogio e il ringraziamento personale del cittadino Logue al sovrano “risanato”: per la prima volta, gli si rivolge con l’ufficiale e riverente «Vostra Maestà». Un gesto che sigilla, insieme, la continuità di un sodalizio, il rispetto dei ruoli e della tradizione e il compimento di una missione: un timido e balbettante aristocratico è divenuto ispirato oratore e coraggioso conduttore di popoli.
Il film ha fisionomia nobilmente politematica: intimista, storica, psicologica; alterna un andamento severo e non di rado dolente a spunti di aggraziata ironia, anche in virtù di una interpretazione esemplarmente consonante: il re, un fiero e tormentato Colin Firth, sapientemente integrato dalla dignitosa e disinvolta umanità di Geoffrey Rush, il terapeuta versatile e sodale; e la bravissima Helena Bonham Carter, di stupefacente somiglianza con Elizabeth Bowes Lyon, nobile fanciulla scozzese andata sposa al duca di York e futuro re Giorgio VI, la donna che Hitler definì «il più irriducibile dei miei avversari» e destinata a divenire saggia Regina Madre per quasi mezzo secolo. Ma il film è anche l’elegia, la celebrazione della parola che cura, del messaggio che, in questo caso, guarisce. Scrive Eugenio Borgna nel suo recente “La solitudine dell’anima”: «Non è facile rintracciare le parole che curano e che alimentano la speranza; le parole che diciamo nella vita di ogni giorno spesso non sono le parole delle quali hanno bisogno i pazienti che chiedono aiuto, che sono divorati da una rovente esigenza di autenticità, e che necessitano di parole che nascano dall’ascolto e dal cuore e siano leggere e profonde, capaci di creare ponti tra la soggettività di chi cura e quella di chi è curato». Più che a un ruolo di “superb technician”, il medico dovrebbe, dunque, aspirare a quello di coprotagonista in una alleanza terapeutica fondata su dottrina più affetto. «Fare il medico è certamente impegnativo dal punto di vista professionale, ma essere medico è ciò che fa la differenza... Quante volte un medico si sente dire: “Dottore, mi metto nelle sue mani”. E quante volte dovrebbe tenere presente proprio questo atto di massima fiducia nel momento in cui affronta l’impegno, e la sfida, di restituire la salute a un altro essere umano?» (Ignazio Marino).
Prendersi cura, infatti, non è la stessa cosa di curare; di questo, il più delle volte, l’oggetto è un organo, un viscere, una parte; prendersi cura, invece, rappresenta una situazione antropologica: è qualcosa che riguarda l’uomo intero, la persona ferita; è un rapporto dinamico per definizione, una condizione che “ha bisogno dell’altro”. L’assistito diventa a sua volta una fonte di dono per l’operatore. La malattia diviene non soltanto un vulnus biologico, bensì un evento biografico, un’entità complessa che fornisce informazioni – ed esige ascolto e risposte – anche culturali e sociali. Il film di Tom Hooper sottolinea questa riflessione: la necessità che sia colui che si prende cura dell’altro sia il malato imparino insieme qualcosa di nuovo che li spiazzi dalle proprie certezze e consenta loro di instaurare un rapporto, fatto di interpellanze e risposte; di parole che vengono e tornano, vettori di confronto e/o di condivisione: parole oggi inferme, domani – forse – guarite; certamente lenite.

Cecilia Bruno