Medicinema

La paura non può essere senza speranza,
né la speranza senza la paura
Spinoza
La catastrofe e la speranza
L’origine delle epidemie fu attribuita, nel mondo greco-romano, ai miasmi, emanazioni dal terreno e dall’acqua: questa concezione, che risale ad Ippocrate, fu poi deformata a tal punto che si ammisero i più strani influssi astrali, cosmici, demoniaci. Pettenkofer le restituì il carattere naturalistico, modificandola profondamente e cercando di darle una base sperimentale. L’idea di Ippocrate e la teoria di von Pettenkofer sono tramontate, sebbene ad esse possano ancora riconnettersi i fatti ormai accertati intorno all’influenza indiretta che il terreno, l’acqua, l’aria, le stagioni ed i climi hanno sullo sviluppo delle epidemie. All’idea miasmatica si contrappone l’idea contagionistica che, sorta nelle più antiche civiltà orientali, ritornò in onore con Varrone e Columella e meglio si affermò nel Medioevo. Ma chi definì ed intese il contagio nel mondo come oggi s’intende fu Girolamo Fracastoro.
Contagio e paura sono creature gemelle. Appartengono alla fenomenologia del vivere e, insieme ai suoi grandi movimenti, mutano, crescono, incrudeliscono: attributi di pandemie che, fiere e feroci per mistero di evoluzione, sfidano l’umanità al drammatico confronto tra un possibile controllo e un invincibile caos. A queste tematiche, al di là d’un mero ritorno al filone horror fine a se stesso, s’ispira Contagion, il film di Steven Soderbergh, presentato all’ultima Mostra di Venezia.
L’inizio è folgorante: tornata a Minneapolis dall’Estremo Oriente, Berth Emhoff (Gwynet Paltrow) accusa un ingravescente malore e vani sono i tentativi del marito e dei medici per sottrarla alla morte. Nelle stesse ore, da Hong Kong a Londra, da San Francisco a Tokyo, molti altri hanno gli stessi sintomi. Da qualche parte – suppone Erin Mears (Kate Winslet) del Centro statunitense per il Controllo e la Prevenzione delle malattie – è nato un virus sconosciuto e letale che aggredisce gli umani. In poche settimane il mondo intero è preda della paura. È uno scenario simile a quello disegnato, cent’anni or sono, dalla immaginazione di Jack London in “The Scarlet Plague”: «La peste venne nell’estate del 2013 […]. S’apprese che una strana malattia stava propagandosi a New York. C’erano allora diciassette milioni di abitanti in quell’immensa città. Si diceva che alcuni erano morti molto rapidamente. […] Noi, in California, eravamo sicuri che i batteriologi avrebbero trovato qualcosa per vincere questi nuovi batteri. Ma intanto essi continuavano a distruggere i corpi umani con sorprendente rapidità, e dovunque penetravano sopraggiungeva inevitabilmente la morte. Nessuno ne scampava […]. Bilioni di batteri accumulati nei corpi si sprigionavano, agevolando così la rapida diffusione del male. I batteriologi, dunque, avevano pochissime probabilità di vincere quei batteri. Morivano nei loro laboratori. Erano eroi.» (“La peste scarlatta”, trad. di Mario Benzi; editore Lucarini, Roma 1987, pp. 36-7).





Pandemia: realtà vissuta
che può essere rivissuta.
Jan Lipkin

Eroi. Lo stesso sostantivo impiega Jan Lipkin, direttore del Center for Infection and Immunity della Columbia University, per gratificare le figure e l’opera dei sanitari USA (ricercatori, medici, epidemiologi) così come sono rappresentate nel film cui egli è stato invitato a sovrintendere quale consulente scientifico. L’impegno d’un docente di tal calibro e di un’équipe tanto accreditata è giustificato dagli obiettivi che si sono ripromessi la produzione, il soggettista Scott Burns, il regista ed il team medico-scientifico. Questi obiettivi non sono quelli d’un thriller e nemmeno quelli di un documentario (il virus è creatura immaginaria, un modello teorico costruito da Lipkin e collaboratori ispirandosi al v. Nipha, che flagellò la Malesia sul finire del secolo scorso). Sono, piuttosto, quelli che emergono dalla cronaca d’una apprensione che, giorno dopo giorno, diviene affanno angoscioso, sino a farsi terrore collettivo e a minacciare la convivenza civile. Ne risulta un messaggio alto, interpellanza soggettiva e sociale a fronteggiare tre lancinanti consapevolezze: la caducità, il panico, la fuga nell’egoismo da parte dei più, che, a differenza di un pugno di impavidi medici, cedono al collasso fobico. Si è chiesto Lipkin – e lo chiede a noi spettatori: «È, questa, letteratura? Fantascienza? O non è piuttosto realtà?» «Èrealtà vissuta – risponde – e che può essere ri-vissuta». «Nel 2003 – ci ricorda – allorché deflagrò la pandemia di SARS, volai a Pechino su invito delle autorità sanitarie cinesi. Le strade deserte, i centri commerciali saccheggiati, un’inquietudine diffusa, le istituzioni politiche esitanti: tutto ciò, spietata realtà, è stato riprodotto in “Contagion”». A monito globale: perché siamo – ogni giorno e tutti – a rischio d’una minaccia di queste proporzioni e solo un’alleanza convinta e partecipe tra scienza e solidarietà, un’alleanza che generi speranza, può venirci in aiuto. Essa deve sopravvivere alla catastrofe.
Tale alleanza si realizza secondo linee-guida validate da dottrina ed esperienza: biosorveglianza assidua a livello centrale e periferico; potenziamento delle risorse finanziarie ed umane a favore della salute e della ricerca; crescente valorizzazione della prevenzione vaccinale (anche se non con i tempi – romanzeschi – della rappresentazione filmica); ottimizzazione dell’anagrafe sanitaria globale.
L’augurio è che anche un film – questo film – possa contribuire ad una sensibilizzazione a tali obiettivi sia della pubblica opinione, sia dei decisori politici. E Steven Soderbergh ed i suoi collaboratori danno l’impressione, assai fondata, di voler parlare non soltanto ai politici del loro Paese.

Cecilia Bruno