Libri: recensioni

La civetta di Minerva vola al crepuscolo
Georg W. Friedrich Hegel
Il prima e il dopo
Qualcuno ha detto (giocando, ma non troppo, con il paradosso) che in un libro – fatto, di regola, da due parti: titolo e testo – quella più importante sarebbe la prima. Nel caso di How we age: a doctor’s journey into the heart of growing old, di Marc E. Agronin. Pagine 302. Editore: Da Capo Press, Cambridge, MA 2011. Dollari 25. ISBN 13-978-3068-1853-0, aggiungerei un ex aequo al primato, in virtù dell’umanissimo sottotitolo. Sono due righe che sintetizzano, con fine realismo, carattere ed obiettivo dell’opera: non un saggio di biologia dell’invecchiamento, ennesimo repertorio di deficit ed impotenze, bensì uno sguardo partecipe su un’esperienza in carne ed ossa – l’avanzare degli anni – che temuta o perseguita, celebrata o esecrata, si è fatta, ai giorni nostri, sempre più diffusa e foriera di interpellanze. Titolo e sottotitolo che promettono (e mantengono la promessa) di spiegare non soltanto perché invecchiamo, ma anche come invecchiamo e come potremmo farlo meglio; e di esporre, vale ripeterlo, non l’algida obiettività di fenomeni organici, bensì una empatica ricognizione nel sentimento (“a journey into the heart”) del “vecchio che diventa sempre più vecchio” (“of growing old”), come Carl Gustav Jung ebbe a definirsi in un toccante epistolario. È un contributo quanto mai attuale, oggi che mutamenti sociali e progressi della scienza hanno concorso, in alcuni paesi, al prolungamento della vita media ed al conseguente aumento della popolazione anziana: una casistica recente (CENSIS 2010) calcola in oltre 15.000 i centenari in Italia. Tale fenomeno ha allertato sociologi ed economisti. Pochi anni or sono si arrivò a scrivere: «... apprendisti stregoni prolungano la vita, aumentano il numero dei vecchi; ma che farne? Essi non producono, non partecipano al giro dei consumi, ci ingombrano, parassitano il pianeta». A queste preoccupazioni il bel libro di Agronin dà una risposta “vissuta”. Una testimonianza sugli incontri di uno psicogeriatra con pazienti le cui sfide alle insidie biologiche (disabilità fisiche, disordini cognitivi, demenza) sono descritte in assidua ricerca di condivisione; perché – questo è l’assunto dell’Autore – l’invecchiare è un mistero che richiede comprensione, piuttosto che un problema da risolvere (pagina 44). E dunque, come aiutare il lettore nell’indagine su questo mistero, segnato da declino, fragilità e morte, ma anche, e non di rado, da appagamento e speranza? Al proposito, torna alla mente l’aneddoto di Galileo interrogato dai suoi discepoli. Gli fu chiesto: «quanti anni ha vossignoria?» – «Otto o dieci», rispose Galileo. E spiegò: «ho, infatti, gli anni di vita che mi rimangono; quelli passati non li ho più, come non si hanno più i denari quando si sono spesi».




Il libro si apre con una critica all’
iter della formazione professionale del medico: Agronin sostiene che l’accento così fortemente posto sull’importanza propedeutica dell’anatomia patologica e sulla precoce frequentazione della sala settoria da parte dello studente non abbia favorito e continui a non favorire il rapporto con il malato anziano, a fronte della cui ingravescenza, diventerà difficile – una volta che lo studente dovrà agire da medico – mantenere ottica ed operosità “costruttive” allorché si sentirà quasi disarmato a fronte di sofferenza cronica, declino e degrado progressivi (pagina 10). Avversi a tale atteggiamento sono dunque la lezione e l’esempio di Agronin, avallati, oggi, dal consenso di autorevoli colleghi. Ma si narra che già nel secolo scorso il Petit, grande clinico della Salpetrière, avesse da dire qualcosa in proposito. Quando qualcuno lo adulava: «Maestro, voi avete dell’anatomia conoscenza così profonda da saper guarire tutte le malattie», soleva infatti rispondere: «Ohimé, noi siamo come i vetturini di Parigi, che conoscono a menadito tutte le strade ed i vicoli della città, ma non sanno nulla di quanto succede dentro le case». Nel libro, Gene Cohen, celebrato psichiatra, conferma come la creatività riesca spesso ad arginare un processo di decadenza mentale e come si debba, in forza di esperienza, smentire la rassegnata convinzione di Terenzio, secondo cui « senectus ipsa est morbum». Ché, anzi, biologia e biografia dei nostri vecchi possono frequentemente non coincidere, tanto da assistere a significativi casi di valida performance della terza età (pagina 14); e, possiamo noi aggiungere, anche della quarta età, dato che a Toronto, poche settimane or sono, la maratona è stata condotta a termine in un tempo tutt’altro che trascurabile da un concorrente indiano dell’età di cent’anni. Né mancano esempi non recenti: Sebastiano Caboto, ottantenne, organizzò una spedizione alla ricerca di territori sconosciuti; in tempi meno lontani, Chichester, ultrasettantenne, compì, da solo, avventurose traversate oceaniche. Giuseppe Verdi compose il Falstaff a 80 anni; a 83, Freud pubblicò il saggio su Mosè e la religione monoteistica; Andrea Doria aveva 87 anni quando assunse il comando della flotta nella guerra di Corsica, e Michelangelo, ottantanovenne, lavorava alla Pietà Rondanini, così come il Tiziano, novantacinquenne, era ancora intento ai suoi dipinti. Aveva visto giustamente Hegel: «La civetta di Minerva vola al crepuscolo.»

La vita è come dipingere un quadro,
non come tirare una somma.
Oliver Wendell Holmes

E l’Autore riporta un’emozionante intervista con Leonard Hayflick, citobiologo probabilmente prossimo a svelare in laboratorio i meccanismi segreti dell’invecchiamento cellulare e diuturnamente afflitto, al contempo, dal mistero che gli impedisce la comunicazione con sua madre novantacinquenne.

La seconda sezione del libro offre un resoconto particolarmente accattivante del dialogo con Erik Erikson, uno dei caposcuola della psicologia del comportamento, il quale, in aggiunta ad un panorama esaustivo dei disturbi cognitivi, dona al lettore un esempio di eclettismo intellettuale, confermando, mercé un capitolo di arguto livello letterario, l’importanza della capacità di adattamento dell’individuo alle diverse ineludibili fasi esistenziali. Mi piace ricordare che questo adattamento seppero porlo in opera, e giocarci di ironia, due musicisti che le cronache del tempo ci descrivono longevi e di buon spirito. Grieg, sessantenne, soleva riflettere con un sorriso: «La vita è un banchetto ed io sono arrivato al formaggio, cibo che trovo eccellente». E Massenet, più anziano ma non per questo meno salace, a qualcuno che si meravigliava della sua precocissima levata mattutina: «Il fatto è – replicava – che la sera vado a letto prima del tramonto e, alla mia età, con chi volete che mi ci trattenga dopo il sorger dell’alba?».
Intorno a tale tipo di anziano, più o meno consapevole e tollerante, ruota il mondo della famiglia. Il benefico effetto che essa può esercitare sulla vita e sulla salute del vecchio, integro o infermo, è sottolineato nel capitolo conclusivo (pagine 231-238) che non elude – tuttavia – le problematiche, turbolente ed angosciose, del fine-vita. Ci vengono ricordate sia l’ammonizione ciceroniana sulla stanchezza del vivere che a volte può addirittura suonare come un armistizio con la morte, sia, per contro, la celebre esortazione di Daniel Callhan: «Diamo vita ai nostri anni». In questo contesto, non di rado, il medico assume anche il ruolo celebrato dal passo di Petronio: « medicus aliud est quam animi consolatio». Consolazione generata “dall’aver cura” dell’altro. Sentirsi amati è, infatti, per il malato – ancor più se vecchio – una rilevante spinta alla vita.



È da richiamare, al proposito, il commento (1969) del Ministero Britannico della Sanità ai dispositivi su welfare e anziani: «… La nostra filosofia è che le persone anziane vogliono restare a casa loro, tra le loro cose e i loro ricordi. Si tratti di una casa comoda o scomoda, grande o piccola, non ha importanza. Noi riteniamo che è lì che devono stare […] che è lì che si sentono tranquilli e e loro agio.»
È, questo libro, una variegata panoramica arricchita di una dote ulteriore: un multiculturalismo che è indice di etica liberalmente inclusiva. Così da ampliare il potenziale bacino di utenti: lettori non soltanto specialisti, bensì anche non medici, coinvolti – e sono sempre di più – nel confronto con una tematica di crescente importanza anche sociale ed economica. Questa complessità di interessi ed il riuscito amalgama di contenuto e forma costituiscono un pregio non frequente che, impreziosito dalla prosa lucida e piana di Agronin, induce a una lettura alta dell’umano destino: nascita, crescita e morte come flusso e riflusso della vita.

Caterina Roghi