Medicinema

La speranza,
la comunicazione,
la condivisione

Cinema e cancro
Probabilmente a causa delle implicazioni metaforiche, la malattia neoplastica è frequente coprotagonista della narrativa filmica.
Dall’ormai lontano Diario di un Curato di campagna che Robert Bresson trasse, nel 1950, dal racconto di Bernanos, ai meno remoti Cléo dalle 5 alle 7 di Agnès Varda (1962), itinerario esistenziale che coincide con la presa di coscienza della vulnerabilità umana, da Batte il tamburo lentamente di Hancock (1973), anch’esso ispirato da un romanzo (di Mark Harris) ed elegia di un sodalizio sportivo quale lenimento alla solitudine del soffrire, ai recenti (2010) La prima cosa bella di Paolo Virzì, celebrazione dell’amore filiale e, insieme, d’un vissuto di malattia come inscindibile ombra della vita; a Biutiful, ove un affranto Bardem, straziato dal tumore alla prostata, lascia una scheggia di futuro a due bimbi troppo precocemente orfani, fino al nobilissimo L’amore che resta di Gus Van Sant (2011), disfatta dell’ignoto e del dolore, in virtù di affetto fondato su donazione reciproca.
I titoli potrebbero moltiplicarsi: di variabile qualità e vigore. Vi ricorrono tuttavia alcuni assunti che, peculiari in oncologia, rinvigoriscono il rapporto medico-malato: la sconfitta della non-speranza, la comunicazione interattiva, la condivisione del vivere e del morire. Nei tre ultimi decenni tre opere ne sono esempio significativo.

Nel finissimo Le invasioni barbariche di Denis Arcand (2003), i barbari, gli invasori, sono gli iconoclasti, le interpellanze post-undici settembre al sussiegoso conformismo neocapitalista occidentale; domande/realtà che infrangono annosi tabù, con ironia e sofferta partecipazione; e che – grande compito, nobile risultato – celebrano la sconfitta della non-speranza, gemella, nell’immaginario collettivo, del “male che non può guarire”; l’evento che sorprende famiglia ed amici di Remy, gaudente intellettuale, socialista, scettico e libertino, che sta morendo di cancro.



Metafora della fine d’un intero mondo, posto a un tratto a confronto con un bilancio esistenziale di fragili conquiste, brucianti sconfitte, fallaci valori: che cimenta la disarmata autoreferenzialità di affetti e memorie, rimorsi e rimpianti, accidie e identità confuse. La malattia che incrudelisce su un uomo ancor ieri forte e sanguigno, oggi smarrito e inerme nella sua fragilità, smaschera tale non innocente, inconsapevolezza: insinua interrogativi radicali sui significati del vivere e del morire e suggerisce la legittimità d’una risposta capace di lenire la paura e la pena con la misericordia ed il conforto della parola.
Un retroterra di umanità riscoperta giorno dopo giorno ispira l’intera narrazione, doviziosa di episodi e di scintillanti dialoghi, promuovendola a testimonianza di una parabola che, nell’intreccio tra clinica e bioetica, trova spunti e vigore per interpellare intelletto e coscienza. A sottolineare un recupero di emozioni e sentimenti: di quell’empatia ed apertura al dialogo che sono presupposto per avvicinare ed alleviare malattia e patimento; di persone e non di soli corpi.

Per un buon dialogo è esigenza pregiudiziale un buon ascolto reciproco. Lo sottolinea Nanni Moretti nel suo Caro diario (1994), dopo aver vinto la battaglia con il linfoma di Hodgkin: «Una cosa ho imparato da tutta questa vicenda; che i medici sanno parlare, però non sanno ascoltare…» Le cause sono state diverse: scarsità di tempo, sottovalutazione del corredo psicologico durante gli studi di medicina, eccesso di avvicendamento didattico.





Tentare di eludere
la consapevolezza della morte
è come evadere da noi stessi
Montaigne

Oggi, però, tale discrasia è maggiormente avvertita e induce il clinico ad una migliore attenzione alla persona che egli ha in cura. Anche questa inversione di tendenza ha numerose motivazioni, la cui radice è da ricondurre, comunque, al riconoscimento di alcuni fondamentali diritti di chi vede il mondo da una situazione di debolezza, vivendo l’esperienza della vulnerabilità: diritti difficili ad individualizzare, certamente da rispettare e troppo spesso trasgrediti. Nel caso della malattia-tumore, il superamento della crisi dipende in buona misura, oltre che dai fattori di personalità e dai fattori legati al decorso, dal tipo di rapporto che esiste tra il medico e il paziente; vi sono maggiori probabilità di conseguire tale superamento se il rapporto è basato su una comunicazione qualitativamente positiva che vede il medico farsi carico, oltre che degli aspetti clinici, anche degli aspetti emozionali (pur se questi non vengono espressi dal paziente). Torna alla mente – esemplare –la pagina del medico Anton Cˇechov, samaritano dei suoi malati nel corpo e nello spirito: «Koroljòv la esaminò e si fermò a riflettere… La malata aggrottò gli occhi alla luce e tutt’a un tratto, s’afferrò la testa fra le mani e ruppe in singhiozzi. Koroljòv vedeva soltanto una sensitiva espressione di sofferenza, ma così intelligente, così toccante, e la ragazza gli pareva tutta quanta così armonica, così femminile, così schietta, da venirgliene un desiderio di calmarla non con le medicine, non coi consigli, ma con qualche semplice parola affettuosa. Si sedette sulla sponda del letto, prese Lìza per la mano e le disse: “Ve ne prego, parlate”».(Da: Avventura professionale. In: Racconti. Traduzione Villa. Einaudi, Torino 1974: V, 252).

Infine, la condivisione.
Nel 1980 il regista Wim Wenders diresse un film-shock: Nick’s Movie – Lampi sull’acqua!; cronaca – in presa diretta – degli ultimi giorni di malattia e di vita del suo collega e amico Nicholas Ray. Voleva essere – e lo fu – la testimonianza di uno spirito forte di fronte al cancro e, insieme, un segno estremo di affetto e riconoscenza, a suggello d’un consonante sodalizio artistico e umano. Ma l’accoglienza al film – del pubblico e della critica – fu controversa. In molti, al riparo di una conformistica motivazione di rispetto bio-etico, riaffiorò il secolare rifiuto della malattia “inguaribile” e, sottostante, la rimozione più radicale: quell’occultamento della morte, drammaticamente denunciato pochi anni prima da Philippe Ariès, che così aveva scritto nella sua “Storia”: «le società tradizionali avevano l’abitudine di circondare il morente e di ricevere le sue comunicazioni fino all’ultimo. Oggi, nelle cliniche e negli ospedali, non si comunica più col morente, egli non viene più ascoltato come un essere ragionevole, è soltanto tenuto in osservazione come un soggetto clinico, la cui parola non ha senso né autorità.»




La cultura corrente ha operato una netta divaricazione fra morte e vita, considerandoli come termini opposti e inconciliabili, non diversamente da come tradizionalmente si dice del bene e del male. Cosicché pochi si rendono conto di ciò che pure è sotto gli occhi di tutti: che la vita e la morte sono stretti in un unico plesso e che, senza la morte, la vita stessa sarebbe inconcepibile. Peraltro, rifiutare la morte è naturale e solo pochi riescono a ragionare di morte senza temerne il respiro gelido. Tutti gli altri, medici compresi, la temono e la fuggono. Benché faccia parte dell’esistenza e della medicina, rappresenta la fine dell’esistenza e l’insuccesso della medicina.
Tecnicamente quindi, sin dal primo contatto con il morire, i medici imparano elementari manovre elusive. Distacco, disimpegno, ironia, finta indifferenza. Salvo, col passare degli anni, essere costretti ad ammettere che il miglior successo della medicina, soprattutto quella che si occupa di persone e non di malattie, sta nel curare chi si avvicina alla fine, la sua famiglia, la sua comunità. Non c’è forse un momento così umanamente intenso e così professionalmente importante come quello legato al sollievo dal dolore e dalle sofferenze e alla cura della persona al termine della vita.

È merito delle scienze umane l’aver riaffermato la necessità della condivisione del vivere e del morire; sino a recuperare all’ultimo respiro una dimensione familiare e a consegnare la propria sorte non tanto a mere abilità tecniche, quanto piuttosto alla comprensione ed alla solidarietà. Qui vale la pena richiamare una celebre pagina di Leonardo Sciascia: «C’erano gli estremi saluti e le raccomandazioni… anche dei familiari al morente… e un mio amico ricorda, non come aneddoto ma come precisa cronaca, che sul punto di spirare, ai vicini che lo incaricavano di portare notizie e messaggi ai parenti morti, un vecchio trovò fiato e spirito per dire “scrivetemeli su dei bigliettini che, se no, me ne scordo”».

Cecilia Bruno