Libri: recensioni

L’interesse per la malattia e la morte
è sempre un’altra espressione
dell’interesse per la vita
Thomas Mann

La malattia
Andrés Miranda è medico. Quando accerta che suo padre è gravemente ammalato per un tumore in fase avanzata, è costretto ad affrontare una situazione angosciosa: l’etica professionale gli suggerisce di dire la verità, il sentimento lo induce a tacerla, tradendo, però, i principî di reciproca lealtà che sino a quel momento hanno caratterizzato il rapporto tra padre e figlio.
Ernesto Durán è un suo ex paziente che soffre di tutti i sintomi di un male che, secondo lui, lo porterà alla morte; preda di un’ossessione che trascende la semplice ipocondria, inizia con crescente insistenza a scrivergli e-mail che rimangono però senza risposta.
La presenza della malattia nella vita di queste due persone tanto diverse – il medico che conosce i segreti del corpo ma che è ostaggio del silenzio e il paziente che l’ansia rende loquace impedendogli allo stesso tempo di vivere – è l’architrave su cui poggia questo intenso romanzo sulla fragilità e sul dolore come elementi sostanziali della vita (Alberto Barrera Tyszka: La malattia. Traduzione di Paola Tomasinelli. Pagine 160. In brossura. Einaudi, Torino 2012. Euro 13,50. ISBN 978-88-06-19407-9).
Della malattia, l’Autore ci narra caratteri e visioni che, pur apparendo a volte non concordanti, in realtà finiscono col ricomporsi in un insieme complementare e suggestivo.
Al principio – o, se si vuole, al fondo di tutto, perché da essa scaturisce e tuttavia anche vi si basa – è la visione dell’infermità come memento mori.
«Per quanto la cultura dominante e l’esempio pubblico – ha scritto recentemente Concita De Gregorio – prevedano e propagandino come obiettivo l’immortalità, bisogna stare ai fatti e arrendersi all’evidenza che nessun trucco, alla lunga, piega la natura delle cose». Invece, la nostra società persegue l’interdizione della morte – e siccome ci si ammala perché siamo mortali e non viceversa – una sottile discrezione diffusa impone che al malato non si dica ciò che gli sta accadendo e che chi gli sta attorno faccia finta di non saperlo: «… Andrés riflette che, forse, una delle più tragiche conseguenze della malattia è questa: non permette di far finta di non vedere la morte, rovina la possibilità di morire come se niente fosse» (pag. 31). La vulnerabilità, la sofferenza, la morte oggi non fanno parte del quadro mentale dell’uomo d’Occidente. Sono temi proibiti.

Proibito anche il solo parlarne: e la malattia diviene evento indicibile. L’esperienza della perdita portata al massimo: «Vale davvero la pena che mio padre sappia la verità? Può essere per lui un vantaggio saperla? A cosa gli serve sapere che il suo corpo lo sta tradendo, sapere che presto morirà?». La verità è che non è facile comprendere quali malati hanno la capacità di ascoltare e quali no; ci sono persone capaci di gestire le brutte notizie mentre altri non hanno gli strumenti per farlo. Andrés sa quanto importante sia la trasparenza nel rapporto tra medico e malato, ma l’affetto filiale lo trattiene, una voce segreta gli sussurra: «Dall’altra parte dello stetoscopio c’è tuo padre. Pensaci».




E Andrés ci pensa, ricorda e soffre la reticenza di oggi: perché – se all’inizio era stata la curiosità per il corpo, cioè la scoperta di un ordine più tattile, visibile, ad indicargli la via della professione – in seguito era sopravvenuto qualcos’altro: la biografia del deterioramento, la «realtà della salute umana come ideale immobile: la più perversa di tutte le utopie» (pag. 75), perché, paradossalmente, fa assurgere la nostra fragilità a singolarità sacrificale: «Gli dèi muoiono, ma non si ammalano. Ecco qual è il loro vantaggio» (pag. 99); essi non hanno da temere l’infedeltà del corpo, là dove invece il malato rischia di scontarla ogni giorno, in quanto – orrore burocratico della natura – la malattia ci infligge lo sdoppiamento, la separazione che ci fa soffrire: «Mi fa male tutto. Un male cane» (pag. 140). Ed è il silenzio – «il coltello che affonda nella pelle della sera» – è il silenzio, l’esilio della comunicazione, il più crudele dei mali: la malattia come luogo di solitudine.

Vengono qui alla memoria sia la sentenza di un nostro grande clinico, il Murri: «Io considero essenzialmente conforme a verità l’asserzione che la vita è una morte continuata»; sia l’intuizione di Foucault capace di integrarla: secondo cui – assumendola dall’esperienza della finitudine – la malattia soccorre quale esercizio della vita. Sono quei cambiamenti sul versante esistenziale che la psicologia riassume nel costrutto di «crescita post-traumatica»: il miglioramento delle relazioni interpersonali, un intensificato apprezzamento dell’esistenza, un’accresciuta forza personale, una nuova attenzione alla spiritualità (Annunziata e Muzzatti).

Qui il racconto ha un punto di svolta che attinge una felice sintesi d’arte e di etica (l’ultima pagina del libro è memorabile); la necessità salvifica del dialogo, del ripristino della parola vera, non quella degli imbonitori, di certi “seminari di supporto”: piccoli circhi e grandi truffatori. La parola vera, che può ammalare e guarire, come scrive all’inquieto paziente l’appassionata testimone di tanta avventura umana, l’infermiera di Andrés: «Lei mi ha cambiato la vita, signor Durán. Lei e le sue parole.



Ecco perché, quando ha smesso di scrivere, ho iniziato a sentirmi angosciata…». Ed il signor Durán – il malato – di rimando: «Scrivere è l’unica cosa che mi fa sentire meglio…». Scrivere è per ambedue come dipanare un filo intricato, cercare un percorso, un senso. Il rifugio dal male, il lenimento sta nel delineare i contorni, nel fermare la vita in una frase.
In questa comunione, anche padre e figlio celebrano il recupero dell’incontro, la sortita dalla malattia. Dice Andrés a Javier: «Avremmo dovuto parlare di più… E ora cosa posso fare per te?». «Parlami – risponde Javier – non lasciarmi morire in silenzio».

Il cerchio non si chiude, il ciclo della vita continua. In un intreccio ove sofferenza e paura, lenimento e malinconia, ma anche tenerezza e sorpresa si mescolano per dar corpo a una trama che è sottile percorso analitico, i personaggi de “La malattia” hanno esperito un toccante, umanissimo, inventario di bilanci: personali e professionali. Immedicabili eventi biologici o, piuttosto, affascinanti cimenti del nostro destino? Non è, forse, l’attività terapeutica l’esercizio immaginativo che recupera la tradizione del narrare storie? La terapia che ridà storia alla vita?
Alice Morgan