Medicinema

Regista e spettatore
interloquiscono reciprocamente
come paziente e terapeuta
in un ansioso bisogno di dialogo

Lo schermo e l’indicibile
Un recente film diretto da Steve McQueen – Shame – è stato presentato addirittura come una sorta di graphic novel sulla dipendenza sessuale ma, nonostante questo attributo sottilmente pruriginoso, non ha tenuto a lungo il cartellone. Forse non gli ha giovato la singolarità della materia: un disordine del comportamento che, in casistiche non sempre significative, è relativizzato a ruolo di eccentrica esuberanza, spesso conseguente ad evento traumatico inconscio e criptico. Ed anche il film sembra spesso nasconderci qualcosa. Propone indizi, suggerisce tracce e traiettorie di lettura ma, rapido, ci depista; quasi non sapesse – volesse – dirci il perché. C’è una coprotagonista, ad esempio – la segreteria telefonica del primo attore, un Michael Fassbender sempre desolatamente infoiato – che trabocca di profferte erotiche: esse precipitano dalle incestuose voglie d’una sorella, tanto più incandescenti quanto neglette; a tale  assedio ad una esistenza borghese (apparentemente) routinaria si replica, infatti, da parte del fratello Brandon, con una masturbazione straniata, a metà tra il disgusto e la noia; una sessualità compulsiva ed effimera, nutrita da pornositi e prostitute.
Alla prigionia del carcere esplicitata nel suo primo film (“Hunger”), il regista sostituisce qui una trappola mentale altrettanto incatenante e umiliante, favorita paradossalmente dalla libertà di potersi comprare tutto e subito: una escort, una stanza d’albergo o un film porno. È l’altra faccia della società “on demand” quella che McQueen racconta in questo dramma privatissimo solo all’apparenza, venato da una non segreta tristezza. La nudità di Fassbender, che apre il film, è soprattutto una condizione figurata e quando, man mano che il minutaggio avanza, l’interpretazione dell’angoscia si fa più dichiarata, non si ha l’impressione di un nuovo clima: si aggiunge solo più dolore alle prime sequenze.
Shame non è film di sesso o sul sesso; ed è tutt’altro che un film sexy. È, piuttosto, un corteo ansiogeno di origine oscura che invoca pause di palliazione: un’affabulazione senza sbocco, un immedicabile ascesso. Al sesso potremmo sostituire alcol o eroina, in quanto il significante dipende dalla misura in cui lo spettatore giunge a rendersi conto che ciò che gli si viene mostrando non è il vero messaggio. Lo scenario è impudicamente esplicito, ma la comunicazione indicibile. Lo sottolinea l’inquietante lirismo del commento musicale: un olimpico Bach da sala di registrazione (non l’avvolgente “live” concertistico) nei momenti topici del racconto officia la solitudine di Brandon, mentre il gap tra creatività delle variazioni e monotonia del quotidiano, impietosamente denuncia­ il divario tra mondo delle emozioni e quello della mera fisicità.



Tuttavia, conviene sospendere il giudizio. McQueen ce lo ricorda per bocca di Sissy, forse il più sconfitto dei personaggi: la sorella dai desideri non appagati, che – finalmente – in una prorompente, seduttiva performance canora – “New York, New York!...” allude con inconsapevole (?) ironia all’innocenza d’una generazione crudelmente privata di un proprio destino.
Meno straordinario di “Hunger”, più imploso e grigio (non solo nella pigmentazione), Shame conferma la grande capacità di McQueen nella scelta delle inquadrature, il suo lavoro singolare sul sonoro, la poetica dell’accostamento di bellezza e brutalità, qui meno evidente ma non meno presente. Un grande dono viene senza alcun dubbio al film dal contributo di Carey Mulligan, che presta la sua bravura al personaggio tragico di Sissy e al suo sogno di un “brand new start”.
Sta anche in quest’alternarsi di scrittura diurna e notturna – sembra volerci suggerire McQueen – il monito del continuum di vita/morte che abita le nostre ore. Così il film séguita a negarci un bersaglio unico: vittime e carnefici risultano intercambiabili, e dai suoi umbratili enigmi filtra una sottile eloquenza, gemito di ferita che invoca parola e gesti di lenimento. McQueen non teme di riproporci un senso di vischioso disagio, come un paziente trasmette il proprio sentire al terapeuta, auspicabile prologo a riflessione liberatoria; egli interloquisce con noi spettatori allo stesso modo in cui medico e malato conducono ciascuno il loro ruolo: e sembra di avvertirvi un reciproco bisogno rabdomantico di condivisione e dialogo. Molta della originalità del film risiede più nel non detto che nell’esplicito, nell’acume del sottrarre, meglio che nella copiosità delle proposte. In tal modo, esso ci rinnova interpellanze senza dettarci risposte, ci invita a guardare oltre la superficie, ricordandoci che ciò che sta sotto ai nostri occhi non sempre è quello che conta. Sono i comportamenti inusuali, a volte, il modo di comunicare ciò che non si è capaci di dire.

Cecilia Bruno