Medicinema

Certe volte penso che lo scopo dell’esistenza
sia quello di riconciliarci, per sfinimento,
con la sua perdita finale, dimostrandoci che,
indipendentemente dal tempo che ci vorrà,
la vita non è affatto all’altezza della propria fama
Jules Barnes, Il senso di una fine

La verginità, l’oblazione, la morte
Su un tema alto che non cessa di registrare dibattiti – l’etica di fine vita – il regista Marco Bellocchio e gli sceneggiatori Veronica Raimo e Stefano Rulli ci offrono un film misurato e pensoso, sofferto e suggestivo: Bella addormentata (110 minuti, con Alba Rohrwacher, Isabelle Huppert, Toni Servillo, Fabrizio Falco, Maya Sansa, Piergiorgio Bellocchio). Ispirato al caso di Eluana Englaro, esso ci propone l’agire di quattro personaggi in scenari italiani, a proposito della liceità del “lasciar-morire” (la desistenza terapeutica) a fronte dell’illiceità del “far-morire” (l’eutanasia, il suicidio assistito).
Il primo scenario è una sorta di bunker dorato contro il fluire dei giorni e la fatalità della morte, entro i cui anditi opulenti s’avvicendano famigli e mercenari in tecnicalità ormai rituali, mentre una madre dolorosa attende, da anni, il risveglio di una figlia in coma: ella spera ed attende, in silenzio.
Di grida, suppliche e preghiere risuona, invece, una piazza non lontana, ove, nella folla dinnanzi all’Ospedale, due giovani manifestanti antagonisti invocano, per Eluana, l’una (Maria) cura e dedizione ad oltranza; l’altro: la cessazione di tale vano tormento.
Sulla sorte di Eluana anche la politica appare disunita: convocato dal capo del Partito per l’avallo forzato di una legge che non condivide, un Senatore (è il padre di Maria) si interroga sul rapporto con l’istituzione. Riflette: «se non credo alla mera funzionalità come vita, all’organismo quale persona, perché dovrei votare contro coscienza?»
Infine: l’immagine di un medico – forte soltanto della sua missione: osteggiare la morte, ad ogni costo – che si offre giorno e notte alla veglia di una donna straziata tra droga e suicidio; e la riconcilia con la vita. È lo scenario su cui il film si conclude.



Queste sintesi rendono solo parzialmente la complessità dell’assunto: che ha numerose ricadute etiche, politiche, religiose, discusse in autorevoli sedi. Ci limiteremo a sottolineare tre costanti dell’ispirazione: la verginità, l’oblazione e la morte: carnali tutte, ma non soltanto. Bellocchio si conferma, infatti, cantore del corpo e dello spirito, rabdomante sagace, nelle storie di vita, di criptiche trame dell’anima, sino a confrontare i due spazi: quello dell’arte e quello dell’esistenza, della metafora e della realtà. Così accade che l’universale olocausto del “Pianto della Vergine” – icone, orazioni ed inni La richiamano assiduamente – non riesca a inverarsi nella singolarità della ex attrice, ora madre vegliante: l’irosa innografia di Iacopone, declamata da un disatteso dicitore, non terge, infatti, le lagrime vere di colei che al teatro della disperazione ha anteposto la quotidianità della spes contra spem.
Analoga elegia dell’oblazione: la verginità trasfigurata in gioiosa fede nell’essere-nel-mondo, vittoria sulla mera sopravvivenza, viene celebrata nel rapinoso slancio d’amore che l’attivista cattolica paladina della vita, Maria (nomen omen), elargisce al suo antagonista laico.
Ed è in questa condivisione di sentimenti che ella ritrova anche suo padre (il politico momentaneamente dispensato dal conflitto perché la votazione non avrà luogo), recuperando un percorso di comunione ed autenticità. Anche nel loro rapporto, la presenza della morte – l’agonia materna a suo tempo pietosamente abbreviata dal gesto segreto del marito – non sarà vana: vale a far risplendere meglio il calore della passione del vivere.
Così che, alla fine, ciò che resta nella memoria dello spettatore non è tanto e solo la misura della nostra fragilità, quanto la compassione che dovrebbe affratellarci, il bisogno di solidarietà e di amore che dovremmo reciprocamente soddisfare.
Le virtù dell’opera sono affascinanti: il rifiuto del dogma, il rispetto del dubbio, la dignità della vita, la forza della misericordia. Contenuti alti, meritevoli di altrettanta nobiltà formale, attinta, oltre che da un’interpretazione magistrale, anche dalla fotografia di Daniele Ciprì, poeta d’ombre e di luci, particolarmente a suo agio in un itinerario di umanissima, crepuscolare malinconia.

Cecilia Bruno