Dalla letteratura
In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
www.associali.it

Quale incertezza motiva una revisione sistematica?



Se lo chiede Mona Nasser in un post sul sito della Cochrane internazionale (Nasser M. What is a good topic for a Cochrane review? What is a “real uncertainty”? Posted on 10.09.2013 Official blog. The Cochrane Collaboration – www.cochrane.org/). Avviando la sua prima revisione sistematica – su un tema di odontostomatologia all’interno del Cochrane Oral Health Group – Nasser è partita dal tradizionale censimento delle sperimentazioni controllate randomizzate. Salvo accorgersi, però, di una sostanziale mancanza di studi affidabili su cui basare la propria ricerca. Negli anni seguenti, proseguendo l’attività di studio in Germania, spiega di aver fatto ricorso non poche volte all’uso di evidenze “indirette”: prove derivanti da studi vicini all’argomento oggetto di attenzione potevano in certa misura aiutare a indirizzare le raccomandazioni. L’assenza di letteratura di qualità può indurre ad ampliare l’oggetto della revisione, anche a rischio di smarrire – però – il focus dello studio. È interessante l’annotazione di Mona Nasser sulle ragioni che inducono la sensazione di “incertezza” nei clinici in ambito odontoiatrico: «If they were technically able to do things, they felt confident and certain about it. If not, they considered that an uncertainty». L’insicurezza è indotta dalla sensazione di personale inadeguatezza, molto più che da una valutazione oggettiva delle evidenze disponibili in letteratura.
Cosa aiuta il paziente a prendere decisioni informate



La domanda di informazione sulla salute cresce sempre di più: sani o malati siamo sempre più convinti che una maggiore consapevolezza possa aiutare davvero a prendere decisioni migliori riguardo le cure. Qualsiasi informazione, però, dovrebbe essere presentata al paziente in modo tale da essere facilmente compresa ma, se pensiamo che gran parte delle notizie è offerta a voce dagli operatori sanitari ai pazienti, non possiamo di certo stare tranquilli: infatti, alcuni studi sostengono che tra il 40 e l’80 per cento di ciò che viene detto è immediatamente dimenticato e ciò che è ricordato viene memorizzato in modo scorretto. Una revisione sistematica della Cochrane Collaboration ( Ciciriello S, Johnston RV, Osborne RH, et al. Multimedia educational interventions for consumers about prescribed and over-the-counter medications. Cochrane Database Syst Rev 2013; 4: CD008416. doi:­10.1002/14651858.­­CD008416.­pub2) prende in considerazione un approccio alternativo, basato su programmi multimediali in cui i diversi format si integrano: testo, grafica statica, animazioni, video e audio. La revisione aveva come obiettivo valutare gli effetti dell’intervento educazionale su medicinali prescritti e su farmaci da banco in persone di ogni età, compresi bambini e caregiver. Sono stati inclusi nello studio dati provenienti da studi randomizzati e quasi-randomizzati, mettendo a confronto i programmi educazionali multimediali con “nessun intervento”, cure standard (usual care), un intervento multimediale di controllo o l’attività educazionale basata su formati diversi da quello multimediale. Gli esiti misurati erano la maggiore/minore conoscenza e l’acquisizione di abilità/capacità specifiche. Ventiquattro studi con un totale di 8.112 partecipanti hanno soddisfatto i criteri di inclusione nella revisione. La selezione delle sperimentazioni è stata particolarmente severa per l’ampia variabilità dei percorsi educazionali messi a confronto nelle ricerche condotte a livello internazionale.

Quali risultati ha dato la revisione? L’evidenza che i progetti educazionali multimediali migliorino la “conoscenza” rispetto a un’attività informativa generica o alla “cura standard” esiste ma è modesta. Le cose migliorano se a un’attività multimediale si associa un intervento come un’informazione scritta o delle sintetiche istruzioni standardizzate fornite da un operatore sanitario. Risultati simili anche per quanto concerne le acquisizioni di tecniche specifiche (tipo l’utilizzo di uno strumento inalatore) e l’aderenza alla terapia. Se vogliamo, però, il risultato principale di questo studio è la dimostrazione della scarsezza della ricerca sull’educazione del paziente e, soprattutto, della cattiva qualità metodologica degli studi condotti. Secondo gli autori della revisione, i progetti multimediali possono rappresentare un’alternativa utile soprattutto nei casi in cui il personale sanitario ha difficoltà a fornire dettagliate indicazioni scritte ai pazienti.
Le apps per la salute: via libera alla sovradiagnosi?



Oltre 100 mila apps per la salute e la medicina. Tre milioni di down­load solo negli Stati Uniti. Cinquecento milioni di smartphone nel 2015. Numeri che devono aver fatto  riflettere anche la Food and Drug Administration (FDA) che ha deciso di regolamentare un mercato tanto florido quanto potenzialmente rischioso (Food and Drug Administration. Mobile Medical Applications. Guidance for Industry and FDA Staff. 25 settembre 2013). Circa il 15 per cento di queste applicazioni è progettato per il personale sanitario, ma la maggior parte si rivolge invece alla persona – sana o malata – che può raccogliere, monitorare, analizzare e trasmettere i propri valori e dati riguardanti la salute/malattia. Come avverte Douglas Kamerow sul BMJ (Kamerow D. Regulating medical apps: which ones and how much? BMJ 2013; 347: f6009. doi: 10.1136/­bmj.­f6009), per pochi dollari si può avere nell’iPhone una app che trasforma lo smartphone in un otoscopio o in un elettrocardiografo. Questo genere di strumento è il solo che, almeno per il momento, dovrà essere valutato dalla FDA prima di essere messo in commercio. L’agenzia ha scelto un approccio non invadente, rinunciando a controllare le applicazioni che, tutto considerato, non espongano il paziente a rischi particolari. Quindi, via libera per le “soluzioni” utili a monitorare la glicemia, sollecitare e guidare l’esercizio fisico, smettere di fumare. Le buone notizie per i produttori – sottolinea Kamerow – non mancano: la FDA non si sente in grado di gestire in modo sistematico la valutazione di un numero così elevato di software e non sarà richiesto di documentare in maniera rigorosa (quindi con studi controllati sperimentali) l’efficacia e l’affidabilità di queste apps. Secondo alcune fonti, la regolamentazione sarebbe proprio da interpretare come un favore nei confronti delle grandi software house che finalmente potranno sentirsi libere di entrare sul mercato: «A lot of companies that wanted to do things the right way were sitting on the sidelines doing nothing» ha dichiarato Bradley Merrill Thompson – legale dello studio Epstein, Becker & Gree, che assiste molte grandi aziende informatiche – al Wall Street Journal.




Eppure, anche nel recente passato non erano mancati incidenti. Nel 2011 le autorità statunitensi avevano sollecitato la rimozione dall’iTunes Apple Store e dall’Android Market Store di due apps che promettevano di risolvere una volta per tutte il problema dell’acne solo esponendo la pelle a diverse fonti luminose colorate prodotte dallo smart­phone. La storia era finita anche sulle pagine del New York Times; gli sviluppatori della app incriminata si erano giustificati segnalando studi in corso presso il Baylor College of Medicine. Interpellato dalla redazione del quotidiano statunitense, l’ufficio stampa del Baylor era caduto dalle nuvole. Ritirate dagli store online, ma comunque già nel telefono di circa 15 mila persone.

In generale, le linee-guida confermano la crescente attenzione della FDA per la Rete. Ha fatto scalpore l’investimento di circa 180 mila dollari da parte dell’Agenzia che ha affidato il controllo della propria presenza su web a una società specializzata – la stessa che ha collaborato con Barak Obama alla campagna presidenziale nel 2008. L’obiettivo?  «To monitor overall conversations to see what the public is dis­cussing about our work, answer questions for them, and develop consumer content for fda.gov and our social media channels».
Thomas Goetz – della Robert Wood Johnson Foundation ed editorialista di The Atlantic – ha commentato su Twitter il 24 settembre: «Glad to see the FDA choose a prudent course on regulating medical apps». «This is very welcome news for the innovator and investment community», ha affermato da parte sua Joseph M. Smith, chief medical e science officer del West Health Institute. L’impressione è proprio questa: una spinta all’industria e alle start-up. C’è da sperare che avere la diagnosi a portata di mano non contribuisca ad accelerare l’arrembante trasformazione dei sani in malati.
Il selvaggio west della peer review
Se a fine settembre avessimo “googlato” non avremmo avuto indietro nulla. Facendolo oggi, sono 27.700 i risultati restituiti dal motore di ricerca. Lo dobbiamo all’articolo pubblicato su Science il 4 ottobre 2013 (Bohannon J. Who’s Afraid of Peer Review? Science 4 october 2013: 60-65) che riporta – più che lo “studio” – una sorta di indagine poliziesca sui percorsi editoriali propri del mondo dell’open access. Con questa espressione – per chi ancora non fosse informato – si intende il modello di editoria scientifica che prevede che sia l’autore (o la sua istituzione) a pagare per pubblicare e non il lettore (o la sua istituzione) a pagare per leggere. Il Wassee Institute non esiste nella realtà ma solo nella fantasia di John Bohannon (Contributing correspondent di Science) che – firmandosi con l’improbabile nome di Ocorrafoo Cobange – ha sottoposto un articolo sempre impercettibilmente diverso a 304 redazioni di riviste open access scelte tra quelle indicizzate in due diversi database. La Directory of Open Access Journals (DOAJ) e quello curato da Jeffrey Beall, un bibliotecario della University of Colorado. Bohannon – pardon: Ocorrafoo – ha fatto davvero le cose per bene: non soltanto ha lavorato con intelligenza al proprio pseudonimo e al nome dell’istituzione (nonostante l’apparenza, sono felici sintesi tra Swahili e altre lingue africane) ma ha anche costruito uno studio di impostazione tradizionale ma suscettibile di essere declinato in diverse versioni col solo intervento di un software. Il risultato? Senza contare le redazioni più pigre – dalle quali Cobange attende ancora risposta – 157 riviste hanno più o meno rapidamente accettato il lavoro, nonostante Bohannon avesse inserito ad arte alcuni madornali errori, laddove solo 98 lo hanno rifiutato.




Nel 60% dei casi l’autore non ha visto traccia di peer review: nessuna richiesta di modifica, cambiamento o chiarimenti. Grande entusiasmo da parte delle redazioni di riviste indiane (dell’India, non dei pellirosse): 64 accettazioni e solo 15 rifiuti. Nessuna maggiore severità dagli editori più noti: le riviste di Elsevier, Wolters Kluwer e Sage hanno accettato il lavoro senza colpo ferire.

Quali reazioni all’inchiesta di Bohannon? «It is frustrating that a high-profile publication such as Science has published this article, which reads to me as an authorial and editorial hostility against legitimate open access publishing through biased reporting» ha scritto Ernesto Priego nel blog della London School of Economics. A suo parere, quello di Science è un approccio distorto e condizionato dai propri interessi: la qualità della revisione critica non ha nulla a che vedere con l’open access. Dello stesso parere Tracey Brown di Sense about Science: «Bohannon’s “sting” is not a commentary on open access but on unscrupulous publications and vanity publishing being unshackled by the changing and fluid scholarly market place». Critico anche lo Higher Education Network che, sul Guardian, puntualizza che il punto cruciale è il sistema della peer review: «But Science misread the cause, which was not about making the results of research freely available via open access, but the meltdown of the peer review system. We need change. It’s the digital age that allows that change, and the very best open access journals that are leading the development of new approaches to peer review».  A sostegno di questo punto di vista è la risposta negativa di una tra le più famose riviste ad accesso aperto, PLoS One, il solo periodico – ammette Bohannan – a puntare l’indice sugli aspetti etici dello studio.

«It could have been any journal», ha commentato l’ex direttore del BMJ, Richard Smith.
Tutti i rischi della sovradiagnosi
«Un tempo le persone chiedevano di essere curate perché si sentivano ammalate, oggigiorno si incoraggiano le persone soggettivamente sane a sottoporsi a tutta una serie di esami diagnostici preventivi per rassicurarle di non essere “ammalate”. Il complesso medico-industriale ha sviluppato tecnologie in grado di identificare le più piccole anomalie, ha modificato le soglie che definiscono la “normalità” e “creato” nuove malattie. La grande maggioranza di queste “anomalie” o pseudo-malattie scoperte in persone soggettivamente sane sono inconsistenti, cioè non daranno sintomi o problemi nel corso della vita». Si apre così l’introduzione di Gianfranco Domenighetti al libro “Sovradiagnosi”, di Gilbert Welch, da poco pubblicato anche in Italia e presentato al congresso nazionale della Associazione Italiana di Epidemiologia ai primi di novembre 2013, in una sessione realizzata in collaborazione con la Associazione Alessandro Liberati ( Welch G. Sovradiagnosi. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2013).



«Viviamo un epoca in cui ci viene chiesto di essere sempre in forma perfetta e di considerare i segni del tempo che passa, le rughe, la rottura dei capillari superficiali, i piccoli o grandi acciacchi dovuti all’età, come qualcosa da nascondere, di cui vergognarsi e da cercare di esorcizzare in tutti i modi», scrivono Laura Amato e Marina Davoli presentando il libro ai lettori italiani. Così proseguono le curatrici dell’edizione: «La salute fisica, molto meno quella psichica, viene perseguita non solo per migliorare la qualità delle nostre vite ma come un dovere morale. Dobbiamo quindi fare ogni sforzo per essere – o quantomeno per apparire – sani e forti il più a lungo possibile, e poco importa se questi sforzi – oltre ad essere a volte tristemente ridicoli – potranno poi arrecare danni ai singoli individui, paradossalmente peggiorando a volte il loro stato di salute, ed alla società, devolvendo risorse economiche, sempre più scarse, ad interventi la cui efficacia non è chiaramente dimostrata e, soprattutto, sottraendole ad interventi più utili ed efficaci».
Assistiamo ad una collettiva negazione del processo di invecchiamento e, conseguentemente, della realtà della morte. «Tutto questo – sottolineano Amato e Davoli – ha portato negli ultimi decenni ad un grande sviluppo della diagnostica precoce che, anche attraverso le campagne di screening, ha lo scopo di individuare sempre più precocemente i segni di patologie ancora asintomatiche». Come scrive Domenighetti, «diverse analisi dimostrano l’entusiasmo popolare verso la diagnosi precoce; una ha mostrato come il 73% degli americani preferisce sottoporsi a un total body scanner invece che ricevere un regalo di 1.000 dollari, mentre il 66% è disposto a sottoporsi a un test di diagnosi precoce anche per un tumore per il quale non esiste nessuna cura. Il 50% delle donne americane che non hanno più il collo dell’utero a seguito di isterectomia totale continua comunque a sottoporsi al test per la diagnosi precoce del cancro al collo dell’utero (Pap-test). Perfino una significativa proporzione (dal 6 al 27%) di pazienti affetti da tumori incurabili in stadio avanzato continua a sottoporsi a screening di diagnosi precoce per altri tumori».
Nel libro, Welch e i suoi collaboratori della Darmouth University approfondiscono proprio questo: l’inarrestabile espansione della medicina e della crescente tendenza a fare diagnosi. «Troppo spesso – scrivono Amato e Davoli – vengono considerati utili degli interventi solo perché sono molto prescritti o perché corrispondono alle aspettative, reali o indotte, più popolari in quel determinato periodo e contesto. Un rigoroso esame delle prove disponibili relative agli interventi sanitari, siano essi farmacologici, chirurgici, psicologici o diagnostici, e del rapporto rischi/benefici sarebbe auspicabile sia sotto il profilo etico che economico». Come affermava circa quarant’anni fa Archie Cochrane, «le risorse economiche sono e saranno sempre finite e dovrebbero essere usate per offrire in maniera equa alla popolazione interventi sanitari la cui efficacia sia stata dimostrata all’interno di studi scientificamente validi».
«Molta strada è stata fatta verso una più rigorosa valutazione di efficacia degli interventi terapeutici – concludono le curatrici –, si è certamente alzata l’asticella che segnava il livello minimo oltre il quale giudicare efficace un intervento terapeutico, ma non ci siamo forse accorti in tempo che la strategia in atto non era più solo quella dell’introduzione di nuovi farmaci spesso con scarso valore aggiunto, ma quella di aumentare la popolazione bersaglio di possibili trattamenti, quella di creare una popolazione di malati e conseguente bisogno di trattamento. Per anni sono stati e sono condotti studi che valutano la qualità di nuovi test diagnostici solo per la capacità di un test di fare diagnosi rispetto al test già disponibile. Ma in termini di prognosi, qual è l’impatto del nuovo test? Si contano sulle dita di una mano gli studi che valutano quanto un nuovo test, oltre ad individuare più casi, rischi di innescare un meccanismo diagnostico terapeutico che faccia più bene che male. Questo libro è un contributo per aprire una discussione su un tema, quello della diagnosi precoce, in cui spesso si sorvola sulla necessità di un esame rigoroso delle evidenze disponibili e si accetta tacitamente l’assioma per cui non è necessario una valutazione continua e rigorosa: la diagnosi precoce è utile e basta».
In conclusione? Domenighetti affida a Ludovico Ariosto il compito di tirare le fila, con una citazione che lui stesso, Domenighetti, ha ormai reso celebre tra gli epidemiologi internazionali: «Un cavaliere, racconta Ludovico Ariosto nell’Orlando furioso, era avvezzo, al termine dei banchetti, a invitare gli ospiti a sottoporsi a quello che oggigiorno si chiamerebbe un test predittivo: la prova consisteva nel vuotare un gran bicchiere colmo di vino senza distogliere la bocca dal calice. Se qualcuno si sbrodolava, ciò significava che la sua donna lo cornificava. Stranamente, dice l’Ariosto, i commensali, forse già ben avvinazzati, con gioia facevano a gara nel sottoporsi a tale prova. Molti si sbrodolavano e allora il loro animo da gioioso si mutava in tetro ed ansioso. Rinaldo ha già il calice in mano e sta per accettare la prova, ma ci ripensa e decide di non farla, dicendo: “Ben sarebbe folle chi quel che non vorria trovar, cercasse. Mia donna è donna, et ogni donna è molle: lasciàn star mia credenza come stasse. Sin qui m’ha il creder mio giovato, e giova: che poss’io megliorar per farne prova?”».