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Le Stroke Unit ben organizzate si basano su un team multidisciplinare che prende in carico esclusivamente pazienti con ictus in un reparto loro dedicato.  Prevedendo nelle aziende ospedaliere delle unità operative di questo tipo, gli esiti delle cure sono migliori? È una domanda tanto importante quanto lo è l’incidenza della malattia e, per dare risposta, è stata condotta una revisione sistematica sulla letteratura disponibile su diversi database curati dalla Cochrane Collaboration, integrando la ricerca con la consultazione di Medline, Embase e Cinhal, per essere certi di verificare anche l’esistenza di studi condotti in ambito infermieristico.
Dalla valutazione di 28 studi randomizzati controllati per un totale di 5885 pazienti arruolati, è emerso che ad un’assistenza ben organizzata e strutturata corrisponde un migliore esito delle cure, in termini di riduzione della probabilità di morte, di istituzionalizzazione del malato e autonomia/dipendenza da un caregiver (Organised inpatient [stroke unit] care for stroke. Cochrane Database of Systematic Reviews 2013, Issue 9, Art. No.:CD000197) Nelle pagine che seguono possiamo leggere l’esperienza dei clinici dell’ospedale di Viterbo che hanno voluto – con uno studio pragmatico – ricostruire il percorso assistenziale all’interno della struttura dei pazienti con ictus. Le conclusioni sollecitano un cambiamento nella stessa direzione dei risultati della revisione Cochrane.
L’ictus è una patologia che non solo chiede novità nella presa in carico dei pazienti ma anche nelle politiche di prevenzione. A questo riguardo, la pagina di Julian Barnes sulla reazione emotiva della moglie di una persona morta per ictus è illuminante (vedi Medicina e letteratura, pag. 646). È una patologia – come molte altre – che domanda un’attenzione orientata al genere: il 60% delle persone colpite è donna. Percentuali diverse ma ugualmente allarmanti sono quelle che leggiamo nel lavoro di Stefania Odoardi e Cesare Albasi sul gioco d’azzardo (pag. 631): tra il 18 e il 32% dei gambler è di genere femminile ma le percentuali potrebbero essere maggiori se le donne avessero meno ritrosie a rivolgersi ad un terapeuta. La dimensione relazionale è causa – se carente – della dipendenza, ma anche – se meno precaria – della disponibilità a chiedere aiuto.
È nell’intreccio perverso di relazioni – donna, cliente, protettore, istituzione – che si comprende la difficoltà di un approccio efficace al grande problema della salute fisica e psichica delle giovani costrette a prostituirsi. Lo spiega l’analisi di Tullio Prestileo e collaboratori (pag. 615) fornendo un quadro allarmante anche per le dimensioni del problema.


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