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Tra le letture di questi giorni, il racconto del viaggio a New Delhi di Siddhartha Mukherjee, medico di Boston e autore di uno dei più bei libri divulgativi sul cancro, “L’imperatore del male”, vincitore del Pulitzer per la saggistica. Mukherjee va in visita ai genitori e, trovandosi per caso in un ospedale pubblico della megalopoli indiana, incontra il signor Sengupta che, in una stanzetta che “sa di disinfettante e di sapone” attende una morte che non arriva. La storia è uscita su Granta ed è stata tradotta da Internazionale. “Noi pensiamo alla morte come a uno stato, ma naturalmente è un processo. La nostra esperienza principale non è la morte, è morire. Anche qui è la fatica, non il suo coronamento, a definire il viaggio”.
Anche quello di Arnold S. Relman è un racconto. Uscito sulla New York Review of Books, lo troverete facilmente googlando il titolo: “On breaking one’s neck”. È una testimonianza autoriale, per così dire, provenendo da un grande medico che per anni ha diretto il New England Journal of Medicine: caduto dalle scale di casa, ha sofferto la frattura di tre vertebre del collo e, prima di perdere conoscenza, ha guidato l’intervento dei medici del pronto soccorso del Massachusetts General Hospital. Rientrato a casa dieci settimane dopo l’incidente, ecco le conclusioni: “I medici si sono semplicemente rifiutati di farmi morire (pur avendoci io provato con tutte le forze). Ma quello che non mi è piaciuto è constatare come, non in situazioni di emergenza, le nuove tecnologie e l’aggiornamento della cartella clinica elettronica condizioni il modo di lavorare dei medici. L’attenzione alla mole di dati generata dal laboratorio e dalla diagnostica per immagini ha distolto il medico dalla attenzione al malato. Oggi, i clinici passano più tempo con i loro computer che al letto del paziente”.
Non è un racconto, infine, la poesia di Konstantinos Kavafis, che apre questo prezioso fascicolo dedicato alla presa in carico del paziente end-stage. Un quaderno, come interpreta Guido Bertolini, che ospita un documento preparato facendo ricorso ad un approccio nuovo, riconducibile ad una “più dinamica medicina basata sulle conoscenze”, sintesi tra le prove e le risposte che il medico o l’operatore del nursing si dà riflettendo sulla situazione sofferta dal paziente e dai suoi familiari e sulle loro richieste e aspettative. Kavafis è il maestro dell’essenziale e i suoi versi sono un elogio del corpo, che insieme alla coscienza è l’altro grande protagonista del processo del morire di cui parla Sengupta. Un percorso che prevede un prima, un durante e un dopo. E prevede anche un luogo, come spiega Marco Geddes da Filicaia, uno spazio che troppo spesso non è tutelato.