Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore




Un popolo di pazienti?

«Mio padre diceva sempre che in un Paese civile non ci sono malati, ma solo pazienti»: ecco sintetizzata la filosofia del Politico che nel film, come da cronaca, funge da fulcro degli interessi del proprio territorio. Dove “paziente” non sta, com’è ovvio, per “persona malata”, ma per cliente. Questo ”Paese civile” è quello in cui ogni cittadino – vivo, ma al limite anche morto – serve in quanto moltiplicatore di affari e di profitti. Anche, e soprattutto, quando di mezzo c’è la salute.
Il Politico confida la propria verità al protagonista, Bruno (Claudio Santamaria), un informatore farmaceutico quarantenne dell’immaginaria Zafer che sta cercando un modo per tirar finalmente dentro il sistema clientelare basato sul comparaggio anche l’ultimo, preteso medico indipendente. A sua volta, Bruno è messo alle strette dalla sua capo-area, un’efficace Isabella Ferrari, insensibile e tirannica, che lo pressa affinché piazzi i farmaci, meglio se i più costosi, a qualunque prezzo, anche corrompendo, frugando in archivi non propri, mentendo e ricattando.

Così, mentre grazie alle rivelazioni del Politico si scopre che anche il Professore paladino dell’incorruttibilità è ricattabile per appropriazione indebita, un giovane medico onesto, vero nemico dei magheggi, perde la causa intentata contro la Farmaceutica che aveva provato a corromperlo, per insufficienza di prove.

Bello schifo. Come spesso avviene nei film di denuncia all’italiana (non così in quelli “all’americana”), i buoni perdono e i cattivi continuano a imperare. Ma è questa la morale da trarre dal film di Antonio Morabito, coprodotto non senza difficoltà anche da RAI Cinema?
Partono i titoli di testa e già si sente in sottofondo un’intercettazione di Pier Paolo Brega Massone, ex primario condannato del Santa Rita di Milano, vantarsi dei suoi lucrosi e inutili interventi chirurgici. Il film, girato in una Bari algida e volutamente deconnotata, è una delle possibili trattazioni del tema annunciato: la Sanità è corrotta. Svolgimento: la salute non è l’obiettivo, mentre è la malattia la fonte di profitti, spesso illegali. E non si salva (quasi) nessuno tra medici politici e industrie, solidali nel malaffare. Non a caso, nei panni del primario recita Marco Travaglio, il Robespierre della nostra comunicazione.

Eppure, non c’è nulla nel film di quanto la letteratura e altre pellicole (The constant gardener di Le Carré, per esempio), o le cronache e gli atti giudiziari, purtroppo, non abbiano già raccontato su un certo modo di fare marketing delle farmaceutiche: gli iPad regalati, i viaggi promessi, le cene e gli alberghi di lusso, a volte con dopocena “elegante” incorporato (una delle poche citazioni baresi del film), il riciclaggio di molecole “ritoccate” per dilazionarne la genericizzazione, le prescrizioni redatte per pazienti già morti, i farmaci fatti prescrivere in barba alle evidenze. In più, qualche approssimazione per dimostrare che il racconto non vuol essere un mero calco della realtà e, insieme, che sembra quasi messa a bella posta per rendere attaccabile il film su dettagli, tipo: in Italia non è possibile ospitare medici in hotel a cinque stelle e da tempo i congressi non si tengono più in località esotiche; oppure, nessun ente regolatorio al mondo autorizzerebbe mai un farmaco sulla base di uno studio condotto su 40 pazienti. Fino al comportamento ai limiti del ridicolo dello stesso Bruno che, ancorché veterinario, per impedire il concepimento alla moglie, gli sbriciola nella minestra un’overdose di anticoncezionali. Il che serve anche a insinuare il dubbio che il poveretto sia cattivo di suo, perché ricco com’è (la moglie, che pure fa l’insegnante, è di famiglia bene) come mai si rifiuta così ostinatamente e perversamente alla genitorialità?

Tutto ciò è plausibile? Troppa letteratura, anche di valore, è disponibile per dubitare che, al netto delle approssimazioni “artistiche” del film di Morabito, il sistema del comparaggio sia esistito (soprattutto) ed esista. Ogni medico conosce le pratiche più o meno ruffiane di questo o quell’ISF e molti hanno ingombra la scrivania delle frescacce lasciate a rammentare un marchio (non una molecola). Anche attraverso mezzi più raffinati, e non meno pericolosi. Di recente, la stampa indiana ha denunciato il fatto che, in quel Paese, «the unethical practice has taken a much more dangerous turn: doctors are now getting authorship of studies in internationally peer reviewed journals as gifts». Io, farmaceutica, ti regalo la tua firma su un trial internazionale, in cambio della tua compiacenza nei confronti di questo o quel mio farmaco.




Piuttosto, la vera domanda è: tutto ciò è giusto? Il fatto è che, quando c’è di mezzo l’etica, diceva Wittgenstein, si è sul medesimo terreno dell’estetica. Non a caso, dinnanzi a un interrogativo morale, usiamo anche dire: ma ti pare bello? Qui si tratta di valori, e i valori sono “al di qua” del mondo, costituiscono quei presupposti in base ai quali diamo il nostro giudizio sulle vicende del mondo.
Insomma: il film di Morabito, così come la sentenza di un Tribunale che ha condannato questa o quell’industria per comportamenti disonesti, o un editoriale su una rivista di fede degna, vengono a rafforzare una nostra opinione comunque già formata. Si può scegliere di esprimere la propria indignazione nei confronti del film, visto come un generico attacco al mondo farmaceutico, oppure veder confermata la propria opinione nei confronti di pratiche inaccettabili: in ogni caso, lo faremo sulla base di valori che prescindono dalla cosiddetta “realtà”. Evidentemente, i nostri giudizi sono influenzati dalla fattispecie giudiziaria, dal rispetto o meno dei codici deontologici professionali, dalla credibilità o meno di questo o quel particolare del film o dell’inchiesta, ma soprattutto dai valori cardine della nostra educazione civica.

Freud (Analisi terminabile ed interminabile, 1937) riteneva che educare fosse una delle tre “professioni impossibili”, con il governare e l’analizzare. Chiunque “educhi”, prova a farlo in base ai propri valori, sia l’industria, sia l’AIFA, sia un genitore coi propri figli, sia il cinema. È ragionevole oggi nutrire la speranza di “educare” i protagonisti della sanità, mirando, ad esempio, a una discontinuità nei comportamenti di marketing delle aziende farmaceutiche? Il giudizio sull’eticità o meno dei diversi comportamenti tocca alla coscienza di ciascun operatore sanitario. E al gusto di ognuno di noi, direi in aggiunta, che potrebbe chiedersi, al di là del fatto che questo andazzo della Sanità sia o meno giuridicamente lecito: ma a me, questo modo di fare mercato del farmaco, piace?