Riflettere sulla Shoah aiuta a mettere a fuoco la banalità del male, ci ha insegnato Hannah Arendt. Ma non solo. Crudeltà, disprezzo dell’umano, ferocia e abiezione sono stati anche coltivati e – per così dire – messi a dimora in strutture e organizzazioni, affinché dessero il massimo possibile dei loro frutti avvelenati. Purtroppo, spesso la scienza è stata piegata, e non secondariamente, a questi fini infernali, come testimoniato già dal classico di Alexander Mitscherlich del ’491. Per restare al periodo nazista, si pensi alla messa a punto dello Zyklon B, il composto di acido cianidrico usato nelle camere a gas ad Auschwitz e Majdanek, il cui sviluppo – paradossalmente – si deve ad un chimico ebreo-tedesco della Bayer, negli anni Venti.
Anche la medicina, è noto, è stata usata contro se stessa. Non per curare, ma per far soffrire2. L’ultimo film di Lucía Puenzo, scrittrice e regista come il padre Luis, ricostruisce una di queste occasioni, attraverso l’incontro tra una famiglia argentina di Bariloche e Joseph Mengele, in fuga perenne nel Sud America degli anni Cinquanta e Sessanta, sotto falso nome.
Mengele era stato attivo per due anni ad Auschwitz, dal quale era riuscito a fuggire prima dell’arrivo dell’Armata Rossa. Grazie a visti contraffatti, giunse davvero in Sud America, dove è stata accertata la sua morte attraverso l’esame del DNA solo nel 1979, in Brasile. Prima, per trent’anni, venne assistito da una fitta rete clandestina di ex e simpatizzanti nazisti. Il terzo film della Puenzo ricostruisce un suo ipotizzato approdo in Patagonia, nel 1960, al seguito della famiglia di Enzo, Eva e dei loro tre figli, in viaggio verso un albergo di famiglia presso il lago di Nahuel Huapi, vicino Bariloche, sulle Ande argentine. La famiglia lo accoglie come primo cliente dell’albergo ristrutturato, non sottraendosi alle sue sempre più pressanti attenzioni. Quello che lo spettatore sa essere Mengele (interpretato dall’ottimo Àlex Brendemühl), infatti, è un medico premuroso e attento, specie a Lilith, la figlia tredicenne nata settimina, minuta per la sua età, e a Eva, incinta. Tuttavia, il film lascia intendere come l’ambiente – la comunità tedesca in quella zona allora isolata dell’Argentina – fosse predisposto ad accogliere, e non certo ad espellere, i criminali nazisti braccati dal Mossad. La stessa Eva aveva frequentato la scuola tedesca, alla quale iscrive peraltro i tre figli. Soltanto Enzo, il marito, prova un’istintiva avversione per il medico.
Nel frattempo, Mengele avanza mascherato, inesorabile. Ricco e protetto, continua le sue ricerche di eugenetica condotte fin dalla prima tesi in antropologia e poi da quella in medicina a Francoforte. È interessato soprattutto al fondamento biologico dell’ambiente sociale, alla trasmissione dei caratteri e dei tipi razziali e dalle persone con sviluppi morfologici anomali. Come Lilith, nel film. Che gode quindi di tutte le sue attenzioni di scienziato, non tanto e non solo di medico. Mengele, infatti, viene rappresentato nel suo continuo testare in vivo, senza alcun riguardo per le reazioni dei suoi esperimenti. I gemelli appena nati gli offrono un’occasione preziosa, dandogli modo di sperimentare su uno, utilizzando l’altro come controllo. Così, quando Eva ne partorisce due, tutta la sua attenzione ne viene attratta. Ma ormai il Mossad è sulle sue tracce e riesce appena a sfuggire alla cattura, non prima di aver fatto uccidere dall’organizzazione nazista la fotografa che lo aveva identificato.
L’orrore consiste nel notare che il medico di Auschwitz, trasportato sulle solenni altezze della cordigliera andina, non stona. Che, anzi, anche lì la sua idea di una razza pura si fa per anni prassi ascoltata e protetta, prima veterinaria e poi medica: vacche e donne destinate a dare vita ad esseri superiori, Sonnenkinder (figli del sole), come nel mito ariano-nazista ricordato nel film. Mengele annota tutte le sue ricerche su di uno dei suoi taccuini, un libro mastro dell’orrore, il cui originale fu acquistato nel 2011 in un’asta in Connecticut per 245mila dollari. Trentun libretti compilati in terza persona, scritti e disegnati minuziosamente tra il 1959 e 1975, quando era già in Sud America. Tremilaquattrocento pagine a mano, acquistate da un ignoto collezionista e oggetto di legittime proteste da parte degli israeliani.
La scienza medica può essere impugnata anche dal più efferato criminale, è ovvio. Ma non dimentichiamolo mai. Basta sfogliare uno dei taccuini di Mengele, ricreati per il film dal disegnatore Andy Riva. O, meglio ancora, resistere alla testimonianza di Eva Mozes-Kor, bambina nelle mani dell’Angelo della Morte, fortunatamente scampata3.