“Capovolgere” l’insegnamento della medicina, ieri e oggi

Rodolfo Saracci

E-mail: saracci@hotmail.com

“Reversing” the teaching of medicine, yesterday and today.

Summary. Recently the radical critique has been revived of medicine teaching developed some fifty years ago by G.A. Maccacaro with special focus on Italy. He maintained that a dominating biological perspective obscured all social dimensions of health and disease, educating doctors poorly equipped to grasp the practical relevance of social determinants of diseases and to correctly perceive their own role in society. In fifty years, many aspects of the practice of medicine have however changed: how such changes relate to the current teaching of medicine? Three key developments have taken place. First, separate specialties and subspecialties have multiplied at fast pace, and teaching has usually favoured this increasing fragmentation. Second, in actual practice doctors need to overcome disciplinary segmentation and collaborate, often to a substantial extent: little trace of how best to implement this is present in academic teaching. Third evidence-based medicine and guidelines for preventive, diagnostic and therapeutic interventions have become common currency in medicine: teaching of these topics is, notably in Italy, in general weak, leaving future doctors unprepared to a critical understanding and use of evidence-based medicine and guidelines in the daily practice. Substantial changes in medical teaching appear needed today no less than fifty years ago, but they can only start from a recognition of medicine as it stands today rather than fifty years ago.

Un recente intervento di Angelo Stefanini sul sito di Salute Internazionale (“‘Capovolgere’ la facoltà di medicina? L’eredità di Giulio A. Maccacaro”)1 sviluppa, riprendendo ampie citazioni dagli scritti di G. A. Maccacaro2, la tesi secondo cui l’insegnamento medico concentrato sulla biologia del corpo e legato a un modello di normalità astratto e immutevole fa sì che i determinanti sociali, storicamente mutevoli, delle malattie vengano relegati all’estrema periferia dell’attenzione dello studente e futuro medico.

La causa della tubercolosi è il micobatterio di Koch, e di questo si può e si deve occupare il medico: malnutrizione e insalubrità da sovraffollamento abitativo sono possibili elementi concausali, di fatto al di là del suo orizzonte visuale. Questo tipo di insegnamento produce professionisti poco o per nulla equipaggiati ad analizzare le patologie e il proprio operato nel contesto sociale e quindi «indifesi di fronte alle lusinghe della medicina commerciale e al profondo conflitto di interessi di cui è pervasa». Per correggere questa situazione, Stefanini sollecita, sulla scia di Maccacaro, una serie di cambiamenti intesi a modificare radicalmente (“capovolgere”) contenuti e stili di insegnamento delle facoltà di medicina.

Viste a cinquant’anni di distanza, le analisi di Maccacaro rivelano una doppia valenza: come acuto approccio di studio del rapporto tra medicina (dottrina e pratiche) e potere e come disamina della concreta strutturazione storica di tale rapporto. Sotto questo secondo profilo molte caratteristiche della medicina, in Italia e dovunque, sono rimaste in mezzo secolo invariate, ma molte altre sono cambiate. In modo schematico, la medicina con cui ci si doveva confrontare mezzo secolo fa era ancora largamente di tipo “paternalistico”: dove la parola traduce nell’ampiezza dei suoi significati sia il ruolo sociale del medico, investito di potere di fatto poco discutibile sul paziente, sia il ruolo protettivo paterno ed empatico, in cui si sostanziava il meglio del rapporto interpersonale medico-paziente. Se faccio il paragone tra la medicina di allora, quale l’ho vissuta nei miei anni di pratica clinica, e quella di oggi, quale la vive una delle mie figlie, scorgo nettamente l’avvenuta transizione dalla medicina di ieri, di tipo prevalentemente “paternalistico”, a quella di oggi, di tipo prevalentemente “contrattualistico”. Troviamo, in quest’ultima, tre sviluppi principali tra loro correlati.

Il primo sviluppo è un’enorme espansione delle conoscenze fisiologche e fisiopatologiche e delle tecniche diagnostiche e di intervento che induce, in ambito didattico, una accumulazione sempre più onerosa di cognizioni difficile da assimilare e trasformare in una formazione di base chiaramente e solidamente articolata. Su questa piattaforma più o meno solida o precaria si innesta direttamente un ventaglio sempre più largo di specializzazioni e sub-specializzazioni. È solo all’interno di ognuna di queste che il medico si sente a proprio agio quanto a competenze acquisite. In generale, a livello disciplinare, le filiere di specializzazione comunicano scarsamente, ognuna vive e avanza di vita quasi solo propria. Questo vale anche per tutto il settore sociale della medicina: anche là dove esistono vivaci attività di ricerca e didattiche sui determinanti sociali di salute e malattia o sulla psichiatria sociale, queste si configurano esse stesse come filiere specializzate – perché così opera il meccanismo generale di differenziazione disciplinare – in limitata osmosi da e verso le altre specializzazioni (siamo ben lontani da quel ruolo di fondamento della medicina che evoca Stefanini). Per quanto riguarda questo primo aspetto, l’insegnamento ha raramente attenuato, quasi sempre promosso, la moltiplicazione disciplinare e sub-disciplinare.




Il secondo sviluppo è che a livello di pratica gli specialisti si trovano obbligati a uscire dal corridoio della loro specialità, a comunicare e ad agire in concertazione: se questa fallisce, i risultati per i pazienti variano da sub-ottimali a catastrofici; se questa funziona, i risultati sono positivi non solo per i pazienti ma anche per i medici che riescono a recuperare nella pratica una prospettiva più comprensiva dei problemi della malattia e della salute. Nell’insegnamento non c’è quasi traccia di come apprendere, attuare, adattare, valutare i processi di concertazione.

Differenziazione specialistica e concertazione pratica tra specialisti sono trasversalmente innervate a tutto campo dal terzo sviluppo: la “normalizzazione” (nel senso tecnico della parola) attraverso procedure formalizzate della pratica medica. Che si tratti di linee-guida generali per il trattamento di una malattia o della formulazione locale dei percorsi diagnostico-terapeutici in un ospedale, le procedure sono considerate step-by-step, prima in modo descrittivo-analitico e poi in modo prescrittivo, più o meno vincolante. Non raramente questa “normalizzazione” non è evidence-based, nel senso che ben intenzionati epidemiologi e clinici danno a tale espressione, ma ha acquisito una forza di penetrazione e diffusione propria, come strumento indispensabile per il controllo economico dei servizi sanitari e come fondamento di un rapporto contrattuale – da pari a pari almeno in linea di principio – tra il paziente/utente e il prestatore di servizio (contratto che ha in primo luogo rilevanza dal punto di vista assicurativo).

Questa condizione migliora rispetto al passato le possibilità di un rapporto tra medico e paziente meno asimmetrico, più reciprocamente partecipato e genuinamente empatico, anche se usualmente limitato da costrizioni di tempo a disposizione. Per il personale sanitario il controllo economico implica infatti quasi sempre, come per il personale di altri settori di attività, un controllo sulla ripartizione del tempo di lavoro: qualunque guadagno di tempo, quale ottenibile attraverso l’automazione di una procedura diagnostica, è generalmente riassegnato ad aumentare il numero di procedure per unità di tempo (il tempo è denaro) e non, per esempio, ad allargare il tempo dedicato al dialogo con il paziente o alla discussione e approfondimento dei casi.

La burocratizzazione della medicina non è che un aspetto della burocratizzazione crescente, di cui Max Weber3 aveva visto già un secolo fa il contrassegno inesorabile delle società contemporanee, di tutte le attività professionali, nel privato non meno che nel pubblico. Se c’è un compito che i giovani medici di oggi vivono come vorace di tempo e frustrante, è il carico di procedure burocratiche, che paradossalmente viene spesso aggravato anziché alleggerito da sistemi di raccolta e trattamento dei dati ottimizzati dal punto di vista ingegneristico-informatico anziché dal punto di vista del funzionamento del sistema a cui sono applicati (reparto ospedaliero, ambulatorio, ecc.). Tutti questi problemi – essenziali per un esercizio competente della pratica medica – sono debolmente presenti nell’insegnamento: anche nelle situazioni didattiche migliori vi è un’enorme sproporzione tra il volume e il dettaglio con cui sono trattati gli argomenti di biologia di base e di fisiopatologia fino a livello molecolare e la schematicità o sommarietà con cui sono affrontati temi come la valutazione di efficacia di interventi diagnostici e terapeutici o l’uso attivo e critico o passivo e acritico dell’evidence-based medicine e delle linee-guida, pane quotidiano del futuro medico.

È infine un aspetto interamente aperto sul futuro quanto, sulla spinta evolutiva della “normalizzazione”, una parte sostanziale delle funzioni delle professioni sanitarie sia destinata a essere rimpiazzata a medio termine da procedure algoritmiche e robotizzabili. Il mantra secondo cui questo scaricherebbe le professioni da funzioni di livello più basso e creerebbe quindi opportunità di lavoro più ampie, qualificate e soggettivamente soddisfacenti mi sembra cozzare contro l’elementare considerazione che, in sistemi sociali in cui massimizzare il profitto è il fattore-guida dominante, il personale viene essenzialmente calcolato come un costo da minimizzare. Se questa logica non viene contrastata puntualmente, costantemente e attivamente, la tendenza spontanea è alla riduzione complessiva del personale.

Non so se sarebbe stato più problematico “capovolgere” l’insegnamento della medicina cinquant’anni fa o se lo sia oggi. L’unica cosa certa è che oggi qualunque ristrutturazione in profondità dell’insegnamento non può che partire dalla realtà attuale della medicina a impronta “contrattualistica” – con la sua struttura tecnica e di rapporti sociali di potere – e non dalla medicina prevalentemente “paternalistica” che esisteva mezzo secolo fa. Come formare a una medicina che risponda ai bisogni di salute dei cittadini prendendo criticamente atto di cosa sia la medicina oggi rappresenta una prospettiva e un’agenda di lavoro molto più fondamentale e incisiva delle riforme dei piani di studio e del reclutamento dei docenti iterativamente applicate negli ultimi decenni.

Bibliografia

1. Stefanini A. “Capovolgere” la facoltà di medicina? L’eredità di Giulio A. Maccacaro. Salute Internazionale, 22 aprile 2014 [http://www.saluteinternazionale/info, ultimo accesso 17-7-2014].

2. Maccacaro GA. Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-76. Milano: Feltrinelli, 1979.

3. Weber M. Economy and Society. 1921-22, voll. 1 e 2. Roth G, Wittich C (eds). Berkeley: University of California Press, 1978.