Medicina e letteratura: un’antologia

Tornare dovrebbe essere una gioia

Da: Teju Cole

Ogni giorno è per il ladro

Torino: Einaudi, 2014

Mi sveglio tardi la mattina in cui avevo deciso di andare al consolato. Mentre metto insieme i documenti prima di uscire, chiamo l’ospedale per ricordare che arriverò solo nel pomeriggio. Poi prendo la metropolitana, arrivo sulla Second Avenue e trovo il consolato senza grandi problemi.

Occupa parecchi piani di un grattacielo. Una stanza senza finestre all’ottavo piano è adibita ai servizi consolari.

Le persone che sono lì quel lunedì mattina mi sembrano in gran parte nigeriani, più che altro di mezza età. Gli uomini – più o meno il doppio delle donne – sono quasi tutti pelati; le donne hanno delle capigliature elaborate.

Ma c’è anche qualche faccia che non ti aspetti: un tizio alto che potrebbe essere italiano, una ragazza asiatica, altri africani. Ciascuno prende un numero da un distributore rosso all’entrata della misera saletta. La moquette è sporca, di quel colore indefinito che assume in tutti gli spazi pubblici. Un televisore montato a una parete trasmette un notiziario in una foschia di interferenze, poi una partita di calcio tra l’Enyimba e una squadra tunisina. Nella stanza, tutti compilano moduli.




Ci sono sia passaporti blu, americani, che verdi, nigeriani. La maggior parte dei presenti può essere inquadrata in una di queste tre categorie: freschi cittadini degli Stati Uniti, quelli con doppia cittadinanza americana e nigeriana, e i nigeriani che portano i figli americani a casa per la prima volta. Io sono tra quelli con la doppia cittadinanza e sono qua per rinnovare il passaporto nigeriano. Il mio numero viene chiamato dopo una ventina di minuti. Avvicinandomi allo sportello con i moduli, adotto lo stesso atteggiamento servile che ho osservato negli altri. Il giovane dai modi bruschi dietro il vetro mi chiede se ho il vaglia.

No, non ce l’ho, dico. Speravo che i contanti andassero bene. Indica un foglio appiccicato al vetro: «Non si accettano contanti, solo vaglia». L’uomo ha una targhetta con il nome. Il passaporto nuovo costa ottantacinque dollari, come scritto sul sito del consolato, ma senza specificare che non si accettano contanti. Lascio l’edificio, mi incammino verso Grand Central, arrivo dopo una quindicina di minuti, faccio la coda, compro il vaglia, e torno indietro.

Fuori fa freddo. Al mio ritorno, una quarantina di minuti più tardi, la sala d’attesa è piena. Prendo un nuovo numero, compilo il vaglia e aspetto. Un gruppetto si è radunato intorno allo sportello. Un uomo supplica di accelerare i tempi quando gli viene detto di tornare alle tre a ritirare il passaporto.

– Abdul, la prego, ho un volo alle cinque. Devo tornare a Boston, per favore, non si può fare qualcosa?

C’è una sfumatura di supplica nella sua voce, e il senso di generale disperazione che emana è acuito dall’aspetto trasandato, dal maglione di poliestere marrone e dai pantaloni, marroni anche loro. Un uomo logorato dentro vestiti logorati. Abdul parla attraverso un microfono.

– Cosa posso farci io? La persona che dovrebbe firmarlo non è qui. Per questo le ho detto di tornare alle tre.

– Guardi, guardi il mio biglietto, Abdul, dia un’occhiata. Dice alle cinque in punto. Non posso perdere quel volo, non posso proprio.

L’uomo continua a implorare, infilando il biglietto sotto il vetro. Abdul lo guarda controvoglia e parla nel microfono a bassa voce, esasperato.

– Cosa posso farci io? L’incaricato non è qui. Va bene, vada a sedersi, vedo cosa posso fare. Ma non le prometto niente.

L’uomo scivola via e subito altri si alzano e sgomitano per raggiungere lo sportello, con i moduli in mano.

– La prego, anch’io ho bisogno del mio in fretta. Per favore, lo metta vicino a quell’altro.

Abdul li ignora e chiama il numero successivo. Alcuni continuano a scalpitare vicino allo sportello, altri ritornano al loro posto. Uno di questi, un giovane con un berretto azzurro cielo, si sfrega gli occhi di continuo. Un uomo più anziano, seduto qualche fila davanti a me, si tiene la testa tra le mani e dice, a nessuno in particolare:

– Dovrebbe essere una gioia, capite? Andare a casa dovrebbe essere una gioia.

Un altro uomo, seduto alla mia destra, compila i moduli per i suoi figli. Mi informa che ha rinnovato da poco il passaporto. Gli chiedo quanto ci è voluto.

Be’, di solito quattro settimane.

– Quattro? Devo partire tra meno di tre. Sul sito dicono che ci vuole solo una settimana.

– In teoria, ma non è così. O meglio, è così solo se paghi per «accelerare» la pratica. Cioè un vaglia da cinquantacinque dollari.

– Sul sito non c’è scritto nulla.

Certo che no. Però è quello che ho dovuto fare io. E il passaporto è arrivato in una settimana. Ovviamente la tariffa per accelerare la pratica non è ufficiale. Sono dei ladri, questi qua. Prendono il vaglia, non ti danno una ricevuta, se lo mettono sul conto e prelevano i contanti. Dritti nelle loro tasche. Fa un gesto rapido, come per aprire un cassetto. È quello che temevo: un incontro ravvicinato con le bustarelle.

Avevo immaginato cosa avrei potuto fare nel caso di un possibile incontro con quel tipo di corruzione all’aeroporto di Lagos. Ma la richiesta di una mazzetta a New York è uno choc a cui non ero preparato.

– Be’, insisterò per avere una ricevuta.

– Ehi amico, perché ti preoccupi tanto? Ti prenderanno i soldi comunque, e ti puniranno ritardando la consegna del tuo passaporto. È quello che vuoi? Non pensi sia meglio avere il passaporto che dimostrare qualcosa?

Sì, ma non è questa occasionale complicità che ha affondato il nostro paese? Quella tacita domanda rimane sospesa tra me e il mio interlocutore. Il mio numero viene chiamato solo alle undici passate. Va esattamente come mi ha detto il tizio. La commissione per le emergenze è cinquantacinque dollari, oltre agli ottantacinque del passaporto. Il pagamento va fatto con due vaglia distinti. Esco per la seconda volta e vado a comprare un altro vaglia. Cammino in fretta e sono esausto quando ritorno alle dodici meno un quarto, quindici minuti prima che lo sportello chiuda. Questa volta non prendo il numero, ma vado dritto allo sportello e consegno il modulo con il secondo vaglia. Abdul mi dice di passare a ritirare il passaporto tra una settimana e mi dà una ricevuta per la tariffa originaria. La prendo in silenzio, la piego e la infilo in tasca. Uscendo, noto una scritta vicino all’ascensore. «Aiutateci a combattere la corruzione. Se un funzionario del consolato vi chiede una tangente o una mancia, siete pregati di informarci».

Nel messaggio non c’è nessun numero di telefono o indirizzo e-mail. Posso informare il consolato soltanto tramite Abdul o uno dei suoi colleghi. Ed è inverosimile che siano gli unici coinvolti: probabilmente trenta o trentacinque dollari della «commissione per le emergenze» vanno a qualche superiore di Abdul. Scorgo l’espressione di Abdul mentre esco dalla stanza. Sta assistendo altre persone. La solita farsa, ricoperta da una patina sofisticata di «niente contanti per favore».