Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
www.associali.it

Le bufale perdute nella nebbia

«Dicesi “libello” un’operetta volta a trattare con caustico sarcasmo i luoghi comuni di un’epoca in nome del libero pensiero. In Italia i libelli di questa fatta vennero scritti dai libertini nel secolo decimosettimo. Prima ancora che l’Illuminismo facesse vincere, per breve stagione, i “lumi della ragione”». Così Luca Carra recensiva il libroAttenti alle bufale” su Tempo medico1 nel novembre del 2005, pagine che entravano nella categoria dei “libelli” nonostante fossero quelle di “una guida serissima”. Era nata per gioco, quasi per scommessa tra l’autore e l’editore: la prima puntata era sul titolo che sceglieva di andare dritto al problema, scartando ogni ipotesi accademica: nessun toolkit per l’EBM ma una frase che sottolineava come lo scopo del libro fosse “semplicemente” quello di mettere il lettore nella condizione di proteggersi da solo. Un manuale di autodifesa, insomma.

Un manuale scritto – secondo Carra – da un appartenente alla «schiera degli scettici in medicina», un «epidemiologo italo-britannico col gusto della provocazione, sin quasi allo sberleffo» come scriveva Roberto Satolli in un altro commento uscito sulla Rivista dei libri2. Nell’italiano colloquiale, chi ha dubbi e li manifesta è un rompipalle, anche se la parola scettico ha una storia che dovrebbe garantirle una ben diversa considerazione. Per la Treccani, infatti, è «chi esclude la possibilità di una conoscenza assoluta delle cose e del raggiungimento della verità. […] Il termine deriva dal greco σκέψις, che propriamente designa l’esercizio dello σκέπτεσϑαι, del “controllo critico” circa gli oggetti del sapere, compiuto senza giungere a una conclusione definitiva». Se a un caratteraccio aggiungi un’insopprimibile tendenza a non prendersi mai troppo sul serio, la frittata è fatta: nessun «corrosivo Baedeker della letteratura scientifica» potrà mai essere fino in fondo apprezzato se – analizzando la tipologia dei “cattivi Maestri” – questi saranno definiti come coloro che «mescolano principi etici di uno scafista con il rigore scientifico dello sceneggiatore del film storico del 1969 Maciste contro Dracula».

La leggerezza e l’ironia che attraversavano le pagine delleBufale” erano simili a quelle cui facevano ricorso anche altri amici: erano gli ultimi anni della direzione di Richard Smith al BMJ – con l’indimenticabile numero dedicato alle relazioni pericolose tra medici e industria raffigurati in copertina come porcelli intorno a una tavola imbandita – e, in Italia, della pubblicazione del Bollettino di informazione sui farmaci dell’AIFA, che in ogni fascicolo – accanto alle schede utili per la valutazione critica degli articoli scientifici – invitava i lettori ad andare per strada con una macchina fotografica per sintetizzare in un’immagine il concetto di rischio o di ricerca.




La recensione di Tempo medico coglieva il pericolo principale cheAttenti alle bufale” portava all’attenzione non soltanto dei lettori più ingenui ma anche di chi in modo convinto frequentava gli ambienti della evidence-based medicine: la trasformazione della stessa medicina basata sulle prove in merce di marketing. In mani interessate – sottolineava Carra – tutto può essere trasformato in mistificazione. Dieci anni dopo, il rischio prefigurato è diventato il principale problema denunciato da uno degli articoli più citati e discussi del 20143: «The first problem is that the evidence-based “quality mark” has been misappropriated and distorted by vested interests. In particular, the drug and medical devices industries increasingly set the research agenda. They define what counts as disease […] and predisease “risk states” […]. They also decide which tests and treatments will be compared in empirical studies and choose (often surrogate) outcome measures for establishing “efficacy”».

Ancora la Greenhalgh: «Furthermore, by overpowering trials to ensure that small differences will be statistically significant, setting inclusion criteria to select those most likely to respond to treatment, manipulating the dose of both intervention and control drugs, using surrogate endpoints, and selectively publishing positive studies, industry may manage to publish its outputs as “unbiased” studies in leading peer reviewed journal». A chi ha letto il “libello” queste cose suonano familiari: da una parte la sistematica ricerca di alterare la metodologia dello studio sia nel disegno sia nell’analisi degli esiti. Dall’altra l’attività sistematica di condizionamento della comunicazione dei risultati, sopprimendo quelli non funzionali alla promozione di ciò che è stato studiato e utilizzando le più accreditate e ascoltate riviste accademiche.

Al punto era evidente questa deriva, che la terza edizione del libro è stata intitolata “Attenti alle bufale e ai mandriani”, intendendo con questo termine i diversi stakeholder della comunicazione scientifica: tutti “portatori di interessi” che possono non coincidere con quelli dei lettori. Proprio nella gestione di questi interessi si nascondono le principali insidie. È un terreno scivoloso, frequentato da pochi ma agguerriti concorrenti: le maggiori case editrici scientifiche internazionali, le riviste di medicina generale e specialistiche a più elevato impact factor, le agenzie di pubbliche relazioni, le fondazioni volute dalle industrie farmaceutiche per promuovere ricerche di mercato, per sostenere l’attività delle associazioni di pazienti, per organizzare convegni. A questo proposito, dobbiamo considerare che gli studi clinici potenzialmente capaci di incidere sulla pratica prescrittiva dei medici (e quindi anche sui bilanci dei sistemi sanitari) non sono molti e, soprattutto, sono pubblicati su un numero limitato di riviste4. Tanto più consolidato è il prestigio di un periodico scientifico, quanto maggiore dovrebbe essere il senso di responsabilità necessario per conservare la propria credibilità assicurando alle proprie scelte rigore e trasparenza.

Al contrario, il percorso di questi “seminal paper” verso la pubblicazione segue quasi sempre itinerari privilegiati, corsie preferenziali caratterizzate da una singolare opacità: in mancanza di trasparenza, non si può non restare sorpresi di fronte all’incapacità della peer review di cogliere dei difetti macroscopici di alcuni contributi o – chissà – di trascurarli5. A ogni buon conto, alcuni punti fermi dovrebbero essere condivisi almeno per quanto riguarda un tipo di documento come la revisione sistematica: una volta redatti, i protocolli devono essere pubblicati per ricevere critiche e commenti, potenzialmente molto utili per migliorare la qualità della revisione stessa; l’intero processo deve essere caratterizzato dalla trasparenza, non solo per una questione etica di principio, ma perché solo in questo modo il lavoro degli autori può essere replicato e, quindi, valutato; è necessaria la trasparenza anche riguardo i metodi con cui i dati sono stati raccolti, valutati, estratti e sintetizzati; qualsiasi scelta riguardante la selezione degli studi per l’inclusione nella revisione (così come per l’esclusione) deve essere motivata.

Queste semplici regole vengono… sistematicamente disattese. Come ha fatto rilevare Carl Henegan, direttore del Centro per l’EBM del Nuffield Departiment for Primary Care Health Sciences di Oxford, commentando una meta-analisi di studi controllati randomizzati sul trattamento dell’influenza con oseltamivir nell’adulto appena pubblicata da The Lancet6, «as opposed to the 20 trials included in the Cochrane systematic review, this current analysis included only 9 treatment trials and crucially did not perform a quality assessment of the evidence, and as such, the Roche funded study published in the Lancet doesn’t meet the criteria for a systematic review. In addition, unlike Cochrane systematic reviews, there was no protocol pre-specified at the outset, which the authors should not deviate from, or if they do should be explained».

Non solo: anche un aspetto importante come il conflitto di interesse – che si riteneva sufficientemente governato dalle disclosure in calce a ogni articolo – torna a rappresentare un problema. Nell’articolo pubblicato dal settimanale inglese, le relazioni di alcuni degli autori con le aziende direttamente coinvolte nella produzione e commercializzazione di farmaci antivirali sono nascoste o minimizzate. Che sia necessario un chiarimento circa il significato stesso dell’aggettivoindipendente” è confermato da una frase dell’editoriale che accompagna la meta-analisi: «The re-analysis was funded by an unrestricted grant from Roche but was done by an independent research group, thus seeking to overcome the suggested bias associated with industry-funded studies»7. Apprendiamo, infatti, che ricevere un finanziamento non compromette l’indipendenza del proprio lavoro. Abbiamo inoltre conferma che non si configura alcun conflitto di interessi ricevendo del denaro non direttamente da un’azienda ma da una fondazione creata appositamente da un’industria per supportare le proprie politiche di marketing.

Sette anni fa, Vittorio Demicheli scriveva: «In questo mondo globalizzato dalla comunicazione, e non solo, occorre mantenere elevata la propria capacità di valutare criticamente le informazioni: non farsi confondere dall’autorevolezza della fonte informativa ma incrociare le informazioni provenienti da fonti diverse, controllare la consistenza dei dati, giudicare la coerenza esterna e quella interna delle ricerche, controllare la qualità dei disegni di studio»8. La storia recente ci dice, però, che la sintesi delle evidenze non può basarsi solo su quanto è stato pubblicato. È di questi giorni un intervento sul blog della Stanford School of Medicine che riprende una viewpoint uscita sul JAMA9: un terzo dei ricercatori non ha condiviso i risultati dei propri studi neanche a quattro anni dalla loro conclusione. Le conseguenze sono pesanti: «Without access to complete information about a particular scientific question, including negative or inconclusive data, duplicative studies may be initiated that unnecessarily put patients at risk or expose them to interventions that are known to be ineffective for specific uses. If multiple related studies are conducted but only positive results are reported, publication bias can distort the evidence base. Incomplete knowledge can then be incorporated into clinical guidelines and patient care. However, one of the greatest harms from nondisclosure of results may be the erosion of the trust accorded to researchers by trial participants and, when public funds are used, by taxpayers».




Purtroppo, anche il giorno in cui tutti i ricercatori condivideranno i propri database qualcosa di molto importante potrebbe ancora mancare: i dati riportati nei Clinical Study Report (CSR). In diversi casi, è stato addirittura necessario un vero e proprio lavoro investigativo per far venire alla luce dei risultati della ricerca non riportati in letteratura: le bufale si perdono nella nebbia e il problema principale di oggi è che il processo di produzione delle revisioni sistematiche richiederebbe risorse che quasi mai il sistema di finanziamento riesce a rendere disponibili10: data la disponibilità crescente dei CSR, i finanziatori devono considerare come riallocare le risorse indirizzandole verso i ricercatori capaci di garantire un nuovo e più analitico approccio all’analisi della letteratura.

Qualsiasi “conclusione”, oggi, rischia di essere molto transitoria. Al fallimento multisistemico11 di cui si è parlato a proposito della famigerata “saga dell’oseltamivir” corrisponde un fallimento multisistemico della produzione della letteratura scientifica; la crisi di credibilità è tale che molte delle certezze del mondo accademico sono messe in discussione: dai meccanismi della peer review al valore degli indicatori bibliometrici classici come metro per giudicare l’autorevolezza di una rivista. È una fase delicata: mai come oggi è opportuno continuare a raccomandare al personale sanitario la massima prudenza nell’accostarsi alle fonti di informazione, senza cedere alla tentazione di demotivare chi lavora nella sanità, scoraggiando lo studio, la riflessione e la partecipazione a progetti di ricerca utili a migliorare la salute dei cittadini.

Luca De Fiore, Tom Jefferson

Bibliografia

1. http://www.larivistadeilibri.it/2006/ 01/satolli.html

2. http://www.pensiero.it/catalogo/recensioni.asp?page=ebm_rock

3. Greenhalgh T, Howick J, Maskrey N. Evidence based medicine: a movement in crisis? BMJ 2014; 348: g3725.

4. Ioannidis JPA. Concentration of the most-cited papers in the scientific literature: analysis of journal ecosystems. PLoS ONE 2006; 1: e5.

5. Jefferson T. Transparency and opaqueness in oseltamivir studies. CEBM blogs 2015; January 30. http://www.cebm.net/transparency-opaqueness-oseltamivir-studies/

6. Roblin P. Dobson Lancet Tamiflu Re-analysis: independent review group. Really? CEBM blogs 2015; January 30. http://www.cebm.net/dobson-lancet-tamiflu-re-analysis-independent-review-group-really/

7. Kelly H, Cowling BJ. Influenza: the rational use of oseltamivir. Lancet 2015; online published January 30.

8. Demicheli V. Presentazione. Attenti alle bufale. 3° ed. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2008.

9. Hudson KL, Collins FS. Sharing and reporting the results of clinical trials. JAMA 2015; 313: 355-6.

10. Doshi P, Jefferson T. Clinical study reports of randomised controlled trials: an exploratory review of previously confidential industry reports. BMJ Open 2013; 3: e002496.

11. Jefferson T, Doshi P. Multisystem failure: the story of anti-influenza drugs. BMJ 2014; 348: g2263.




La solitudine del malato individuale

Il lavoro di Carlo lo obbliga a orari continuamente diversi: fuma regolarmente e questa abitudine si associa a un’alimentazione squilibrata e alla sedentarietà. L’insieme di questi fattori fa sì che le sue probabilità di soffrire un evento cardiovascolare nei prossimi dieci anni siano del 30 per cento superiori alla media della popolazione. Cambiare stile di vita è un miraggio: come tutti, sarebbe motivato solo dalla prospettiva di un beneficio visibile, rapido e tutto sommato indolore.

Geoffrey Rose – epidemiologo inglese che per molti anni ha insegnato alla London School of Hygiene and Tropical Medicine – propose una strada nuova alla sanità pubblica: piuttosto che essere finalizzati al cambiamento dei profili di rischio individuale riguardo uno specifico problema di salute, gli interventi di salute comunitaria dovrebbero essere mirati a modificare le condizioni che determinano la distribuzione del rischio in una popolazione. La convinzione di Rose è sintetizzabile in quello che viene definito “approccio di popolazione”. Qualche esempio? Uno è quello che propongono Kay-Tee Khaw e Michael Marmot presentando l’ultima edizione del libro “La strategia della medicina preventiva1, un testo classico entrato a far parte delle letture obbligate di chi si interessa di sanità pubblica e di epidemiologia.

«I problemi di salute apparentemente individuali come gli infarti del miocardio sono in realtà parte di un problema che riguarda l’intera comunità. Lo studio INTERSALT ha dimostrato che il numero degli individui definiti ipertesi è direttamente correlato al livello medio della pressione arteriosa della popolazione. Lo stesso vale per i fattori comportamentali come il consumo di alcol». Del resto, così scriveva Rose: «I determinanti fondamentali della salute della società devono quindi essere cercati nelle sue caratteristiche di massa: la minoranza deviante può essere compresa solo se vista nel suo contesto sociale, ed una prevenzione efficace richiede cambiamenti indirizzati alla popolazione come unica entità». Nella nota introduttiva al libro, Khaw e Marmot fanno altri due esempi, molto diversi tra loro ma ugualmente esplicativi: il gioco d’azzardo e l’insuccesso scolastico. Successivamente, in un passaggio chiave del loro saggio, si chiedono: «Nell’era della medicina individualizzata, le idee di Rose avranno meno rilevanza?».




Alla domanda dei due allievi di Rose fa eco quella di quattro ricercatori di Cambridge che due anni fa hanno pubblicato una breve rassegna dal titolo programmatico:Time to revisit Geoffrey Rose. Strategies for prevention in the genomic era?”2. La domanda – sostiene Hilary Burton insieme ai suoi colleghi – sorge considerando i progressi ottenuti negli ultimi anni nella conoscenza del genoma: si pone la necessità di riconsiderare l’approccio proposto da Rose, soprattutto riguardo alla utilità di differenziare gli interventi tra le persone “ad alto rischio” e il resto della popolazione. Come leggiamo nell’articolo, «substantial benefit can accrue to those individuals who are known mutation carriers if recommendations are put in place for management. These include earlier start to mammography, the use of MRI as a more sensitive modality for screening, chemoprevention in the form of a selective oestrogen receptor modulator such as tamoxifen or raloxifene, or the use of risk-reducing surgery».

Non che Rose non avesse considerato questa possibilità, benché i suoi studi fossero antecedenti al progetto Genoma umano: «Lo scopo della valutazione del rischio non è quello di dividere gli individui in categorie secondo il risultato di un esame e nemmeno secondo il loro rischio globale, ma è piuttosto quello di identificare coloro che possono essere aiutati, o maggiormente aiutati, da un’azione di prevenzione». Oltre a un’efficacia limitata o perlomeno discutibile, l’approccio individuale alla prevenzione comporta dei rischi, ammessi anche nel lavoro di Burton: «Disadvantages according to Rose may then be the cost of identification strategies, the risk of stigmatisation and medicalisation of these individuals and, at a public health level, the relatively small effect this may have on the overall morbidity and mortality from breast cancer in the population». Nonostante tutto, il gruppo di Cambridge sollecitava un ripensamento del punto di vista di Rose: «The more interesting and more challenging question is how we conceptualise the situation in which risk is stratified across the whole population and differentiated preventive programmes are provided to each stratum that is effective, cost-effective, and minimises the prevention of harm». La proposta era dunque quella di una “terza via” tra approccio di popolazione e approccio individualizzato: «We suggest that it represents a “third way”, one that optimises the potential of preventive interventions across the population as a whole, whilst minimising the harms». La stratificazione della prevenzione sarebbe una terza via addirittura più fedele agli obiettivi della strategia disegnata da Rose.




Guardare alle differenze individuali può distrarre da un obiettivo probabilmente più promettente: rispondere al perché delle differenze tra le popolazioni. «È evidente – scrivono Khaw e Marmot – che mentre il profilo genetico può rendere alcuni individui più suscettibili di altri, e quindi spiegare perché gli individui possono trovarsi a diverse estremità di una distribuzione. Una questione diversa […] è domandarsi perché popolazioni con uno stesso profilo genetico hanno tassi di malattia così diversi in contesti ambientali differenti». La chiave, dunque, potrebbe essere proprio nel contesto. Questa è l’opinione di Katherine L. Frohlich – della School of Public Health dell’università di Montreal – così come l’espone in un commento uscito nel 2014 sull’International Journal of Epidemiology, intitolatoWhat is a population-based intervention? Returning to Geoffrey Rose”3. La risposta: «Gli interventi di popolazione dovrebbero provare a modificare le condizioni contestuali di rischio per alterare la distribuzione del rischio sanitario nelle popolazioni stesse». Il punto, dunque, è quello di intervenire su quanto determina le iniquità e le diseguaglianze sociali e sanitarie. Così che – sostiene la Frohlich – il pensiero di Rose è semmai più vicino a quello di Lorenc4, che ha oggi la stessa cattedra che fu di Rose.

«I determinanti principali della malattia sono di natura economica e sociale, di conseguenza anche i rimedi devono essere economici e sociali». Così Rose concludeva il proprio libro, aggiungendo: «La medicina e la politica non possono e non devono essere tenute separate». Cosa che invece accade regolarmente: l’enfasi che sempre di più viene posta sulle potenzialità delle tecnologie sanitarie sfida quotidianamente l’assunto di Rose. Una medicina che tiene conto soprattutto dell’individuo finisce col promettere, troppo spesso, ciò che non può mantenere. Ne è convinto Richard Smith. Lo spiega in uno splendido post, dolente e personale pubblicato il 27 gennaio 2015 nel blog di The BMJ5. La solitudine è una “malattia” che la medicina ha contribuito ad alimentare ma che non sa risolvere. Anzi, molti “progressi” della scienza sono così sterili da aggravare la disperazione delle persone che dovrebbero beneficiarne. «Il problema degli altri è uguale al mio», leggevamo quaranta anni fa nella Lettera a una professoressa6. Il problema della madre di Richard Smith raccontato dal figlio è uguale a quello di tantissime donne anziane portate dalla malattia e dalla solitudine a una situazione di disagio irreversibile. Così come anche il problema di Carlo – fumatore, sedentario e in sovrappeso – è uguale a quello di tante altre persone alle quali la medicina personalizzata potrà fare soprattutto promesse.

Senza dare risposte al di fuori della politica.

Bibliografia

1. Rose G. La strategia della medicina preventiva. 2° ed. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2011.

2. Burton H, Sagoo GS, Pharoah P, Zimmern RL. Time to revisit Geoffrey Rose: strategies for prevention in the genomic era? It J Public Health 2012; 9: e8665-1-9.

3. Frohlich KL. Commentary: what is a population-based intervention? Returning to Geoffrey Rose. Int J Epidemiol 2014: dyu111.

4. Lorenc T, Petticrew M, Welch V, Tugwell P. What types of interventions generate inequalities? Evidence from systematic reviews. J Epidemiol Community Health 2013; 67: 190-3.

5. Smith R. Loneliness. The “disease” medicine has promoted but cannot help. BMJ Blogs 2015; January 27.

6. Milano L. Lettera a una professoressa. Firenze: Libreria Editrice Fiorentina, 1967.

La rete non è fatta di cavi

La rete è in pericolo: sì, probabilmente perché per i governi e il mercato è troppo importante controllarla. Doc Searle e David Weinberger – due degli autori del primo Cluetrain manifesto1 – hanno aggiornato (o integrato?) il documento con nuove 121 tesi2. O meglio: indizi, chiavi, per l’appunto.

Anche se le questioni affrontate sono numerose e importanti, questa è una possibile sintesi:

Internet siamo noi. Internet coincide con chi ci sta dentro. Internet è tipo la forza di gravità: di per sé, non è nulla. È ciò che noi vogliamo sia.

I contenuti in rete, per quanto importanti, non sono “la rete”. Il web non è un media: chi permette ai messaggi di viaggiare tra le persone sono le persone stesse. I media siamo noi.

La rete si tesse attraverso atti di generosità: i link non sono altro che questo. Sono ponti gettati gratuitamente tra le persone.

1. Internet è uno spazio dove possiamo fare emergere le nostre qualijtà migliori. Qualsiasi conversazione – così come il semplice stare insieme – richiede regole condivise.

2. Il mercato ha legittime necessità, ma le persone in rete non sono “consumatori”.

3. La trasparenza è uno dei valori principali di internet: non è accettabile leggere della pubblicità contrabbandata per “contenuto”.

4. È la rete che deve crescere, non le app: internet rende le persone creative, mentre le app le trasformano in utenti.

5. La neutralità della rete è messa in discussione dai grandi player: Google, Facebook, Apple. Bisogna vigilare per conservare la libertà dello spazio che condividiamo.

6. In un mondo di spie, teniamo ai nostri dati. Chi li estrae e li usa a nostra insaputa lo fa per la nostra sicurezza o per ragioni diverse?

7. Siamo solo all’inizio del web e – nel tempo di vita di un adolescente – le conquiste sono state stupefacenti: conserviamolo aperto, dinamico, forte dei valori in cui crediamo.




Sono tesi difficili da digerire, soprattutto per chi – come la rivista Wired – vede la rete come il teatro del proprio business3. Sono stati sedotti, invece, i redattori di BoingBoing: «It’s funny, sad, humble and inspiring»4. Critici gli editor di Scholarly Kitchen per i quali Searle e Weinberger somigliano a mistici invasati: «There is no magic to the Internet. It’s now so real and integral that it needs serious, grown-up, secular management and governante»5. Jeff Jarvis ha citato il nuovo Manifesto in apertura di un post molto interessante pubblicato il 23 gennaio: «We can’t see the internet for the wires. We talk about the internet as technology – computers and cables – but more and more I see it as people: people connected with each other, people speaking, people shopping, people learning»6.

La rete è in pericolo, c’è poco da essere ottimisti: un ottimo articolo di Steven Rosenbaum su Forbes commenta il Cluetrain7 e dà una panoramica simile a quella di Eugeny Morozov che ha recentemente scritto sul Guardian puntando il dito sulla politica “imperialista” degli Stati Uniti, forse più invadente di quella di Russia, Cina e Corea del Nord8. La rete non è fatta da cavi ma da gente. La rete siamo noi: è una buona notizia, ma chiama a una diversa assunzione di responsabilità.

Bibliografia

1. Cluetrain manifesto. Roma: Fazi Editore, 2001.

2. http://cluetrain.com/newclues/

3. http://tinyurl.com/wired-cluetrain

4. http://boingboing.net/2015/01/09/rebooted-cluetrain-manifesto.html

5. http://tinyurl.com/sk-cluetrain

6. http://buzzmachine.com/2015/01/23/mode/

7. http://tinyurl.com/forbes-cluetrain

8. http://tinyurl.com/guardian-morozov

Inquinamento, cuore e salute

In un recente articolo pubblicato sullo European Heart Journal, un gruppo di esperti esplora la relazione tra inquinamento dell’aria e malattie cardiovascolari sintetizzando i risultati della ricerca su questo tema e sui meccanismi d’azione, e fornendo raccomandazioni utili ai decisori per mitigare l’impatto sulla salute della popolazione (Expert position paper on air pollution and cardiovascular disease)1. «Ci sono ormai evidenze in abbondanza che confermano che l’inquinamento atmosferico contribuisce al rischio di malattie cardiovascolari e alla mortalità associata», concludono gli autori dello studio. E ci sono anche evidenze affidabili «sui molteplici meccanismi che possono determinare tale associazione. Alla luce di tali evidenze, si dovrebbero intensificare gli sforzi per ridurre l’esposizione all’inquinamento atmosferico, con il sostegno di una legislazione appropriata ed efficace». L’inquinamento atmosferico va dunque considerato come uno dei più importanti fattori di rischio modificabili nella prevenzione e nella gestione delle malattie cardiovascolari.

Quale è l’entità dell’impatto dell’inquinamento sulla salute? Lo studio “Global Burden of Disease” sui fattori di rischio pubblicato nel 2012 su The Lancet2 stima un numero di decessi pari a circa 3,1 milioni a livello mondiale su un totale di 52,8 milioni di decessi per tutte le cause e per tutte le fasce di età attribuibile all’inquinamento atmosferico.

La International Agency for Research on Cancer ha pubblicato nel 2013 una monografia (volume 109 IARC Monographs) dedicata alla outdoor air pollution3. Ricordiamo infine che l’inquinamento atmosferico esterno (tra gli agenti inquinanti: cloruro di vinile, formaldeide, amianto, benzene, radiazioni ionizzanti) è stato classificato, sempre dalla IARC, nel Gruppo 1, cioè cancerogeno per l’uomo sulla base dei risultati di più di 1000 studi condotti in diverse parti del mondo.

Gli effetti sulla salute derivanti dall’esposizione cronica all’inquinamento dell’aria sono stati studiati in diversi paesi europei nell’ambito del progetto multicentrico ESCAPE (European Study of Cohorts for Air Pollution Effects, www.escapeproject.eu), un network di oltre 30 studi di coorte in tutta Europa con informazioni individuali per circa 900.000 soggetti4,5.

Bibliografia

1. Newby DE, Mannucci PM, Tell GS, et al. Expert position paper on air pollution and cardiovascular disease. Eur Heart J 2015; 36: 83-93.

2. Lim SS, Vos T, Flaxman AD, et al. A comparative risk assessment of burden of disease and injury attributable to 67 risk factors and risk factor clusters in 21 regions, 1990-2010: a systematic analysis for the Global Burden of Disease Study 2010. Lancet 2012; 380: 2224-60.

3. Loomis D, Grosse Y, Lauby-Secretan B, et al. The carcinogenicity of outdoor air pollution. Lancet Oncology 2013; 14: 1262-3.

4. Cesaroni G, Forastiere F, Stafoggia M, et al. Long term exposure to ambient air pollution and incidence of acute coronary events: prospective cohort study and meta-analysis in 11 European cohorts from the ESCAPE Project. BMJ 2014; 348: f7412. doi: 10.1136/bmj.f7412.

5. Stafoggia M, Cesaroni G, Galassi C, Badaloni C, Forastiere F. Gli effetti di lungo termine dell’inquinamento atmosferico sulla salute. Recenti Prog Med 2014; 105: 450-3.

Arabella Festa
Biblioteca Alessandro Liberati del SSR del Lazio