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Prima le cattive notizie: secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 2013 i nuovi casi di malaria sono stati circa 200 milioni e hanno causato quasi 600 mila decessi, per lo più tra i bambini africani: a causa della malattia, ne muore uno ogni minuto. Poi le buone notizie: dal 2000, la mortalità infantile da malaria nel continente africano si è ridotta del 58%. Merito delle campagne di sensibilizzazione e di prevenzione, ma anche dei nuovi farmaci a base di artemisinina.

Purtroppo, un ceppo di malaria resistente alle cure è stato diffusamente segnalato in Birmania (Tun KM, et al. Lancet Infectious Diseases 2015), e dall’area del Mekong potrebbe diffondersi in India e, successivamente, in Africa causando una crisi di sanità pubblica con conseguenze devastanti.

Dopo la lumaca, in copertina di Recenti Progressi c’è una zanzara: come è noto, l’anofele è l’animale più pericoloso del pianeta, dal momento che l’infezione di Plasmodium falciparum determina circa 2 milioni di morti ogni anno. «La presenza in aree non endemiche di patologie considerate appannaggio delle regioni tropicali – scrivono in questo fascicolo Rossati, Bargiacchi, Kroumova e Garavelli, p. 125 – è una realtà di cui è necessario tenere conto sia nel diagnosticare tempestivamente patologie trasmesse da virus, sia nel mettere in atto misure di controllo dei vettori e di bonifica dell’ambiente. Pur essendo circoscritte, le epidemie registrate negli ultimi anni hanno evidenziato l’utilità di sistemi di sorveglianza e di notifica, indispensabili per limitare l’ampiezza di eventi epidemici. In particolar modo, nell’affrontare malattie per cui non esistono ancora misure terapeutiche e preventive che possano proteggere la popolazione, l’unica arma disponibile è l’azione sul vettore e sull’ambiente; considerando anche le difficoltà che possono aggiungersi quando esistano reservoir animali ampiamente distribuiti sul territorio, devono essere integrati i sistemi di sorveglianza medico e veterinario».

Ma la responsabilità, in fin dei conti, non è della zanzara se già nel 2001 leggevamo così in un rapporto dei Centers for Disease Control and Prevention: «The natural history of mosquito-borne diseases is complex, and the interplay of climate, ecology, vector biology, and many other factors defies simplistic analysis. The recent resurgence of many of these diseases is a major cause for concern, but it is facile to attribute this resurgence to climate change. The principal determinants are pol­itics, economics, and human activities. A creative and organized application of resources is urgently required to control these diseases regardless of future climate change». A pensarci bene, forse in copertina avremmo dovuto metterci una foto di gruppo del forum delle principali potenze del pianeta.

Avremmo, però, urtato le suscettibilità di chi ritiene che una rivista di medicina non debba “fare politica”. Sembra strano – quasi una cosa d’altri tempi – ma la questione è tornata di attualità dopo la lettera pubblicata lo scorso anno dal Lancet in cui alcuni medici e ricercatori prendevano le difese della popolazione di Gaza (Manduca P, Chalmers I, Summerfield D, et al. An open letter for the people in Gaza. The Lancet. Available at: http://www.thelancet.com/gaza-letter-2014). Il direttore della rivista inglese, Richard Horton, ha rischiato grosso per le reazioni di chi ritiene che la clinica o la ricerca non abbiano mai implicazioni politiche o sociali (O’ Connor CM. Journals should be a neutral forum for reporting, discussion, debate, analysis, and opinion. JCHF 2015; 3: 192). Horton si è difeso così nel corso di una conferenza in Israele: «We are a journal that stands for life, for survival, for resistance, and for resilience. For human flourishing, for human fellowship, and for our responsibility to each other. We stand for hope and we stand for opportunity. We stand for the positive power of science and medicine to shape and change our futures».

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