Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
www.associali.it

Rimboccarsi le mani per Wikipedia

Tutti la usano e tutti la criticano. Wikipedia è il più riuscito esperimento di enciclopedia collaborativa, al punto di essere oggi tra i siti internet più consultati. Tra 5 e 7 medici su 10 la usano come fonte di informazione e il 94% degli studenti la consulta abitualmente. Studi recenti – sebbene di modeste dimensioni campionarie – hanno riportato per Wikipedia un livello di affidabilità simile a quello di più considerati (e ben più costosi) strumenti decisionali informatizzati, come UpToDate o eMedicine. La ricerca su metodi e risultati del progetto è stata fino a oggi comunque molto ricca e sta proseguendo con riscontri di notevole interesse.

Un articolo pubblicato sul Journal of Medical Internet Research1 fa il punto su una questione di centrale importanza: numerosità e competenze dei redattori che spontaneamente arricchiscono i contenuti della risorsa e ne controllano la qualità. Gli autori sono James Heilman, medico di emergenza di un piccolo ospedale canadese con un incarico presso la facoltà di Medicina della British Columbia e tra i principali animatori del WikiProject Medicine, e Andrew West, dei Verisign Labs.

Gli autori hanno esaminato quattro dimensioni: la quantità di contenuto sia in numero di articoli sia in dimensioni (byte), le citazioni a corredo dei contenuti (un elemento obbligatorio per chiunque voglia contribuire a Wikipedia), la readership e la numerosità e le caratteristiche dei redattori che scrivono per il sito, valutandone la tendenza e i dati demografici. Non sono stati considerati in questo studio i dati di traffico da smartphone o cellulari, che saranno oggetto di una ricerca successiva.

Alla fine del 2013, Wikipedia poteva contare su circa 155 mila articoli in 255 lingue per un totale di un miliardo di byte di testo: qualcosa come 127 volumi della Enciclopedia Britannica. I riferimenti bibliografici prevalenti sono quelli delle fonti più accreditate: dal New England al BMJ, da Nature a Science. In forte crescita la presenza in bibliografia delle revisioni sistematiche della Cochrane Library: dalle 2.717 del 2009 alle 7.290 del 2013. La comunità ristretta di principali collaboratori era formata da circa 300 persone: un dato in calo negli ultimi cinque anni. Per metà si trattava di professionisti sanitari e nell’85% dei casi di laureati. Ciò che maggiormente preoccupa gli autori è il calo dei redattori: «A number of explanations have been proposed for this poor retention and recruitment: 1) deterrents such as stricter reference requirements and more policy, 2) growing competition for participant attention in the open-source and user-generated content communities, 3) xenophobia and a community unwelcoming of new users, and 4) the perception that in some languages there remains little “low hanging fruit” to be authored».

Capire il perché di questa tendenza servirà a invertire la rotta e a confermare i progressi nella quantità e nella qualità dell’offerta informativa di Wikipedia.

Bibliografia

1. Heilman JM, West AG. Wikipedia and Medicine: Quantifying Readership, Editors, and the Significance of Natural Language. J Med Internet Res 2015;17(3):e62




Storia naturale dei noduli tiroidei

Un articolo tutto italiano pubblicato sul JAMA riferisce che la maggioranza dei noduli tiroidei benigni asintomatici osservati nel corso dello studio, dopo un follow-up di 5 anni, non manifestava nessun cambiamento significativo di dimensioni, in alcuni casi le dimensioni diminuivano, e le diagnosi di tumore della tiroide erano rare.

Negli ultimi anni è aumentata l’individuazione di noduli tiroidei asintomatici; nel 50% delle autopsie si rilevano noduli tiroidei. A fronte di questa situazione, ci sono incertezze su quale sia il follow-up ottimale. Le attuali linee guida raccomandano esami ecografici e rivalutazioni con esami citologici se si osservano aumenti significativi delle dimensioni dei noduli. L’obiettivo dello studio prospettico osservazionale, condotto da Cosimo Durante et al.1, è stato valutare la storia naturale di noduli tiroidei benigni in individui asintomatici e i fattori a essi associati in un periodo di 5 anni. Sono stati inclusi nello studio soggetti con almeno 1 nodulo tiroideo e senza disfunzioni tiroidee, con un risultato benigno all’agoaspirato o che non rispondevano ai criteri per essere sottoposti a tale esame. I 992 pazienti, provenienti da 8 centri italiani, sono stati sottoposti a indagini ecografiche per tutto il periodo in studio (fino al gennaio 2013). Se nel corso del follow-up si rilevavano aumenti significativi delle dimensioni dei noduli, o caratteristiche ecografiche preoccupanti, si eseguiva una valutazione con agoaspirato: l’agoaspirato è stato eseguito al 5° anno di follow-up anche nei pazienti che erano già stati sottoposti a tale esame.

Nel 69% dei pazienti arruolati le dimensioni dei noduli è rimasta stabile durante tutto il periodo di follow-up; è stato invece rilevato un aumento delle dimensioni dei noduli nel 15,4% (153 pazienti) dei casi e una loro diminuzione nel 18,5% (184 pazienti). Nella maggior parte dei pazienti (88,3%) non è stato registrato nessun aumento del numero di noduli. Il tumore tiroideo è stato diagnosticato in 5 (0,3%) dei 1567 noduli identificati inizialmente. Lo studio suggerisce, infine, che la presenza di noduli multipli, un volume del nodulo >0,2 mL e la nulliparità nelle donne possono contribuire alla crescita del nodulo nel tempo.

Secondo l’editoriale che commenta l’articolo, lo studio di Durante et al. ha alcune importanti implicazioni:

I dati sostengono la validità delle diagnosi citologiche di benignità che si ottengono con l’agoaspirato, con una percentuale molto bassa di falsi negativi (1,1%).

La pratica della sorveglianza ecografica con ripetizione dell’agoaspirato in caso di crescita delle dimensione dei noduli non è la strategia migliore per individuare i tumori tra i casi già sottoposti ad agoaspirato con diagnosi citologiche di benignità. «The one-size-fits-all approach simply does not work», scrivono Anne Cappola e Susan Mandel2. Le strategie di sorveglianza dovrebbero essere indirizzate sulla base dell’aspetto ecografico dei noduli.

Molti dei noduli rilevati con l’ecografia sono di solito piccoli, di dimensioni inferiori a 1 cm, e non hanno caratteristiche sospette: infatti, anche il 54% dei noduli individuati nello studio era stato classificato come benigno in base a tali caratteristiche (senza la valutazione dell’agoaspirato). L’affidabilità dell’assenza di tali caratteristiche nel predire una malattia benigna, secondo le autrici dell’editoriale, è dunque eccellente.

L’ultima implicazione è che anche i noduli benigni crescono di dimensioni.

«Tra i pazienti con noduli tiroidei asintomatici, di natura benigna all’esame ecografico o citologico, non si sono registrati aumenti significativi di dimensioni nella maggioranza dei noduli, durante i 5 anni di follow-up», concludono gli autori dello studio, «e i casi di carcinoma tiroideo sono stati rari. In base a tali risultati, sarebbe opportuno prendere in considerazione la revisione delle attuali linee guida sul follow-up dei noduli tiroidei asintomatici».

Bibliografia

1. Durante C, Costante G, Lucisano G, et al. The natural history of benign thyroid nodules. JAMA 2015; 313: 926-35.

2. Cappola AR, Mandel SJ. Improving the Long-term Management of Benign Thyroid Nodules. JAMA. 2015; 313: 903-94.

Arabella Festa
Biblioteca Alessandro Liberati
del SSR del Lazio




Budget per la ricerca: qual è la logica?

È necessario definire un sistema nuovo di finanziamento della ricerca che si basi sul peso economico e sociale delle diverse malattie. L’articolo di Katherine L. Baquerizo Nole1 – della University of Miami – prende in esame una serie di patologie dermatologiche considerando quanto ciascuna è stata oggetto di finanziamento governativo e da parte di industrie. La letteratura recente – osserva l’autrice – ha valutato il rapporto esistente tra risorse investite e Disability Adjusted Life Years (DALYs) ma sarebbe invece opportuno tenere in considerazione la prevalenza e l’incidenza delle malattie, come anche le risorse impegnate e i costi arrecati al sistema sanitario.

Nel 2012 solo il 18% delle richieste di fondi è stato approvato dai National Institutes of Health: un calo drastico rispetto al 31% di dieci anni prima. L’autrice prende ad esempio il caso delle lesioni e ferite cutanee croniche il cui costo per la sanità statunitense è valutabile in circa 25 miliardi di dollari, senza contare le complicanze chirurgiche del piede diabetico o le maggiori spese per prolungate degenze ospedaliere. Ciononostante, il National Institute of Arthritis and Musculoskeletal and Skin Disease (NIAMS) destina alla ricerca in questo ambito solo lo 0,21% del budget complessivo. Del tutto speculare, invece, il caso della psoriasi o della lebbra: per la seconda è disponibile il 3,12% delle risorse a fronte di circa 200 casi l’anno.

Insomma: non c’è una logica o – quantomeno – non sono espliciti i criteri che guidano la definizione dell’agenda della ricerca. Tutto il mondo è paese, in altre parole.

Bibliografia

1. Baquerizo Nole KL, Fox JD, Kirsner RS. In search of a proportionate funding in medicine. Jama Dermatol 2015; online February 25.




Ospedale e farmaci non somministrati

Secondo numerosi studi, in ambito ospedaliero una volta su dieci si omette la somministrazione di un farmaco: in alcuni casi si danneggia il paziente, spesso ci sono conseguenze che richiedono del tempo per risolversi; in tutti i casi tale omissione sarebbe prevenibile. Uno studio australiano, pubblicato sull’International Journal of Quality in Health Care1, ha condotto una ricerca su undici ospedali, coinvolgendo 321 pazienti e 17.631 dosi di farmaco. La percentuale di mancata somministrazione è stata del 4,3% (749 dosi): nella maggioranza dei casi (633) la causa è stata la poca chiarezza della documentazione, e negli altri casi (116) la mancata disponibilità del farmaco. La fase successiva dello studio è consistita nell’elaborazione e diffusione di un pacchetto formativo con una serie di diapositive con sei esempi delle conseguenze avverse legate a mancata somministrazione di farmaci. Tra i messaggi chiave veicolati dal pacchetto: l’importanza di sapere quali farmaci richiedono una somministrazione tempestiva; l’importanza della comunicazione tra chi prescrive, la farmacia e il personale infermieristico affinché i farmaci siano disponibili.

Parte integrante dell’iniziativa è stata anche l’elaborazione di un elenco di farmaci per i quali la tempestività e la regolarità della somministrazione sono importanti: anticoagulanti, anticonvulsivanti, antidoti, antimicrobici, corticosteroidi, farmaci citotossici, agenti ipoglicemici, immunosoppressori, antiparkinsoniani.

Bibliografia

1. Graudins LV, Ingram C, Smith BT, Ewing WJ, Vandevreede M. Multicentre study to develop a medication safety package for decreasing inpatient harm from omission of time-critical medications. Int J Qual Health Care 2015; 27: 67-74

Il medico e la conoscenza dell’inglese

Qualcuno a Bruxelles manteneva la questione in sospeso perché una maggiore severità da parte della Gran Bretagna si pensava potesse condizionare la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea. Ma, alla fine, a Londra si sono imposti: chi vorrà lavorare nel National Health Service (NHS) dovrà dimostrare di sapere l’inglese. La regola non avrà valore soltanto per i medici, ma anche per gli infermieri, i farmacisti, gli odontoiatri. Per avere un’idea di quanto dovranno lavorare gli insegnanti di inglese per il servizio sanitario nazionale si pensi che il NHS ha assunto nell’ultimo anno quasi 6 mila infermieri stranieri e si prevede che i posti disponibili in area nursing siano circa 20 mila; più di 300 i medici assunti nei grandi ospedali, provenienti da 27 paesi compresi Siria, Iraq, Sudan e Australia; quasi 3.000 i medici formati all’estero che si sono registrati nel 2014 al General Medical Council.

La preoccupazione per le competenze linguistiche è aumentata dopo il caso del medico tedesco, Daniel Ubani, che nel corso di una sostituzione in medicina generale prescrisse al signor David Gray una dose letale – perché dieci volte superiore alla dose massima – di diamorfina (nome con cui l’eroina è disponibile solo in Inghilterra come farmaco analgesico impiegato nel dolore grave). L’inchiesta che era seguita aveva dimostrato che l’errore del medico era stato dovuto alle scadenti capacità linguistiche che avevano portato a uno scambio di medicinali. Questo drammatico episodio ha innescato reazioni di tipo diverso, compreso un sentimento di ostilità nei confronti del personale sanitario straniero, espresso, talvolta, con toni quasi razzisti: «It cannot be acceptable for poorly trained, badly regulated doctors whose knowledge of English is about as good as my knowledge of Chinese, to be able to practise, virtually unchallenged, in the UK» dichiarò al Guardian1 Hamish Meldrum, presidente della British Medical Association. E più di recente anche il leader di destra Nigel Farage è tornato energicamente sull’argomento.




È stato giustamente fatto osservare come, in casi del genere, ricercare le responsabilità individuali condiziona la possibilità di giungere a soluzioni di sistema che riducano la probabilità del ripetersi degli errori2. In questa ottica è opportuno chiedersi se il percorso formativo del medico europeo garantisca in maniera omogenea una competenza linguistica sufficiente per comunicare senza rischi con il paziente di altra nazionalità. In poche parole e per restare in casa nostra, il medico italiano sa bene l’inglese?

Possiamo immaginare la risposta vedendo quale sia il programma dei corsi universitari: «L’insegnamento dell’inglese mantiene alcuni obiettivi comuni a tutte le facoltà scientifiche che si sintetizzano nei classici reading, listening, writing, speaking, anche se su livelli non ben definiti. In pratica lo studente deve essere capace di decifrare manuali; deve comprendere e scrivere articoli e testi scientifici; deve poter partecipare attivamente a seminari e dibattiti in lingua inglese; infine, ma non è l’obiettivo principale, se si trova all’estero per motivi di studio deve raggiungere l’autonomia nella vita quotidiana, come saper ordinare da mangiare, chiedere indicazioni, organizzare spostamenti, ecc.»3 Oltre al saper ordinare una Coca Cola, la conoscenza viene per lo più identificata nell’autonomia di lettura di documenti professionali e nella comunicazione tra pari e, solitamente, anche la formazione che punta a questo obiettivo segue dei percorsi molto tradizionali. Il primo passo, invece, sarebbe quello di provare in tutti i modi a non separare il miglioramento della conoscenza della lingua straniera dall’aggiornamento professionale nella propria disciplina. In apertura di un libro utile e originale4, Jacqueline Costa si rivolge così al suo lettore: «Ricorda sempre che il tuo vero obiettivo è essere un professionista della sanità migliore. Per essere utile, per essere d’aiuto e per contare. Per fare la differenza».

Il testo è costruito in maniera coinvolgente perché parte dalla presentazione di una selezione di articoli di riviste internazionali: uno per ogni tipologia di documento, così che oltre a fare esercizio di comprensione della lingua, chi legge possa anche chiudere il libro sapendo qualcosa di più su come sono costruite le riviste scientifiche. A voler sintetizzare, studiare l’inglese per conoscerlo presuppone una riflessione sui contenuti di ciò che si è studiato oltre che sulla forma: il medico – giovane o meno giovane – deve svolgere la propria attività di critical appraisal pensando in inglese e non in italiano.

Ma Jacqueline Costa va oltre e invita a considerare «l’inglese come un mezzo di trasporto: lo usi per andare da qualche parte». Lo sanno bene gli specializzandi e i giovani medici che si allontanano dal loro paese ma… «communication proficiency is a core clinical skill in medicine. A physician performs 160,000 to 300,000 interviews during a lifetime career making the medical interview the most commonly performed procedure in clinical medicine»5 e incomprensioni e incertezze possono costare care al paziente così come al medico. A pensarci bene, non c’è neanche bisogno di andare eccessivamente lontano per sentire l’esigenza di una diversa competenza linguistica: ospedali e ambulatori sono sempre più frequentati da utenti stranieri che spesso non sono in grado di esprimersi compiutamente, soprattutto in condizioni di malattia. Ancora una volta, si sente la mancanza di una risposta di sistema che non cerchi soluzioni individuali a problemi complessi.

Bibliografia

1. Boseley S. Overseas doctors must speak good English. The Guardian, 28 giugno 2010.

2. Simpson JM, Esmail A. The UK’s dysfunctional relationship with medical migrants: the Daniel Ubani case and reform of out-of-hours services. Br J Gen Practice 2011; 61: 208-11.

3. Aronia R. Il ruolo dell’inglese nelle facoltà di medicina. Medic 2013; 21: 101-4.

4. Costa J. The doctor is in. Capire l’inglese delle riviste scientifiche. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2010.

5. Malau-Aduli, Bunmi S. Exploring the experiences and coping strategies of international medical students. BMC medical education 11.1 (2011): 40.

La fretta (nel decidere) è una cattiva consigliera

Spiegando la realtà clinica ai pazienti in modo troppo semplice, i medici rischiano di nuocere al malato? Se lo chiede Peter Ubel in un interessante articolo uscito su Forbes1. Richiamandosi al famoso libro del premio Nobel Daniel Kahneman, Pensieri lenti e veloci2, l’editorialista del settimanale economico spiega che la risposta a una sollecitazione intellettuale può arrivare istantaneamente o richiedere al contrario un’attesa più lunga: «When it comes to important medical decisions, it would seem that slower is usually better» sostiene Ubel. «A man deciding whether to treat his early Multiple Sclerosis with expensive and potentially toxic new drugs versus less expensive but potentially less effective ones – he should take the time to sort things out. A rush to judgment in these circumstances could have a large impact on people’s lives». La risposta è: il medico deve tenere in considerazione il tipo di problema che il malato si troverà ad affrontare e guidarlo verso la maniera più corretta per rispondere al decisivo interrogativo che gli si presenterà. La fretta – in poche parole – è una cattiva consigliera. «Good medical communication requires giving patients healthcare information in comprehensible form, while giving them the time to process this information», sostiene Ubel, così che qualsiasi informazione – a voce o per iscritto – dovrà essere semplice e comprensibile ma… non così tanto da indurre a sottovalutare la complessità del problema e della scelta conseguente. Un equilibrio difficile che dovrà anche trattenere il paziente dal rifugiarsi nella domanda fatidica: “Lei cosa farebbe al mio posto?”.

Bibliografia

1. Ubel P. Are patients harmed when physicians explain things too simply? Forbes, 5 marzo 2015.

2. Kahneman D. Pensieri lenti e veloci. Milano: Mondadori, 2013.