I pazienti di fronte alla decisione di sottoporsi ad angioplastica

Marco Bobbio1

Patients facing with the decision to undergo percutaneous coronary intervention.

Summary. Percutaneous coronary intervention (PCI) is a common procedure to treat coronary artery stenoses. Several studies had demonstrated that PCI does not reduce the risk of death or myocardial infarction when performed to patients with stable angina. However it has been observed that most patients believe that PCI will reduce their risk for death and myocardial infarction. On the other hand, cardiologists generally acknowledge the limitation of PCI according to the current literature.

Cardiologists’ decision to refer a patient to PCI is based on factors other then perceived benefits such as fear of missing a needed procedure, defensive medicine, desire of demonstrating their professional competence, vested professional and economic interests, accomplish patient expectation, the so called oculo-stenotic reflex, when a lesion is dilated regardless the clinical indication. Patients’ misleading perception of harm and benefits of a procedure is mainly related to the cognitive dissonance, when individuals tend to reduce the conflict of an uncomfortable decision adopting information, which are likely to reduce their discomfort. Furthermore, patients believe that doing more means doing better, that technologic intervention are better than pharmacological treatment that in turn are better than doing nothing. Finally, they assume that a procedure is really effective since their physician suggested it.

It should be emphasized that physicians and patients do not communicate successfully about key decision and how little we know about patient understanding of the factors that influence important medical care decisions. Although considerable attention is given to facilitating informed consent, patients’ perceived benefits of elective PCI do not match existing evidence, as they overestimated both the benefits and urgency of their procedures. These findings suggest that an even greater effort at patient education is needed prior to elective PCI to facilitate fully informed decision-making.

Uno degli aspetti trascurati, seppur cruciali, della nostra professione riguarda la comunicazione con il paziente. Non sono previsti insegnamenti universitari, corsi di aggiornamento, linee-guida, dibattiti. Ognuno si fa guidare dal proprio carattere, dall’esempio dei più anziani, dalla disposizione d’animo di quel particolare momento, dal rapporto più o meno empatico che gli suscita quel paziente. Ognuno si crea qualche strategia comunicativa che spesso funziona, ma talvolta genera incomprensioni e difficoltà perché non tutti i pazienti, le situazioni, le condizioni emotive nostre e del paziente sono uguali. Siamo preparati ad affrontare situazioni particolari che il caso clinico ci prospetta (un dolore atipico, una finestra toracica mal esplorabile, una coronaria anomala, una lesione alla biforcazione, un versamento pericardico iatrogeno), ma non siamo preparati ad affrontare situazioni emotive e comunicative diverse, rischiando di compromettere un rapporto che deve essere basato sulla reciproca comprensione e fiducia.

Nelle condizioni acute, la decisione se e quando sottoporre il paziente a coronarografia ed eventuale angioplastica è determinata dalle condizioni cliniche, e l’informazione che viene preventivamente fornita al paziente è di solito indirizzata a convincerlo sull’utilità dell’esame, la cui indicazione è pressoché certa. Ma quando il paziente si presenta con un’angina stabile, con un’ischemia silente, con un dubbio movimento enzimatico, con un’ipocinesia all’ecocardiogramma, come dobbiamo affrontare il problema e quale spazio dobbiamo concedere alla sua decisione, affinché il consenso che ci dà sia correttamente informato?

Sappiamo dalla letteratura che nei casi di angina stabile l’angioplastica può ridurre i sintomi1-4, ma non il rischio di infarto e di morte5-9, come peraltro confermato dalle recenti linee-guida dell’ESC10.

Attese irrealistiche

Siamo sicuri che i pazienti in queste condizioni ricevano un’informazione adeguata alle conoscenze scientifiche correnti? Alcuni ricercatori si sono posti questo problema e, pur avendolo variamente analizzato, giungono tutti alla stessa conclusione: nonostante i dati della letteratura indichino in modo coerente che l’angioplastica nei pazienti stabili riduce i sintomi, ma non l’incidenza di eventi, e che i cardiologi conoscano questi dati, la stragrande maggioranza dei pazienti sovrastima la capacità dell’angioplastica nel modificare la storia naturale della malattia, ritiene sul lungo periodo l’angioplastica più efficace rispetto alla modificazione dei fattori di rischio e ha un’inadeguata percezione degli effetti indesiderati11-13 .

Vediamo nel dettaglio i risultati di alcune ricerche, nelle quali sono stati presi in considerazione pazienti con angina stabile, raggruppate tra quelle nelle quali i pazienti sono stati analizzati prima della coronarografia, dopo o prima e dopo.

Prima

Il 75% dei pazienti intervistati da Holmboe et al.14 riteneva che l’angioplastica avrebbe prevenuto un eventuale infarto e il 71% avrebbe prolungato la vita. Rothberg et al.15 avevano interrogato sull’efficacia dell’angioplastica 153 pazienti, 10 emodinamisti e 17 cardiologi non interventisti. I giudizi espressi dai medici erano in accordo con quanto riportato in letteratura, mentre tra i pazienti quasi il 75% era convinto che senza la procedura sarebbe incorso in un infarto entro 5 anni e l’88% riteneva che l’angioplastica avrebbe ridotto il rischio di infarto. Lee et al.16 avevano raccolto le opinioni di 350 pazienti: un terzo riteneva che l’angioplastica fosse un’emergenza (mentre in realtà era elettiva), il 71% che la procedura avrebbe evitato un futuro infarto, il 66% che avrebbe allungato la vita, il 42% che gli avrebbe salvato la vita, il 42% che si sarebbero normalizzati i segni di ischemia e infine il 31% che avrebbe ridotto i dolori anginosi.

Dopo

Dalle interviste di 150 pazienti già sottoposti ad angioplastica17 risultava che l’88% si attendesse una sostanziale riduzione del rischio di morte e un’aspettativa di vita superiore a quella ottenibile riducendo il colesterolo, smettendo di fumare e sottoponendosi a maggiore attività fisica. Whittle et al.18 avevano focalizzato la loro attenzione su oltre 600 pazienti ai quali era stata consigliata la rivascolarizzazione chirurgica o percutanea. Per verificare la corrispondenza tra le convinzioni dei medici e dei pazienti era stato anche intervistato il cardiologo curante di ogni paziente. Dei pazienti con indicazione ad angioplastica, l’83% riteneva che la procedura avrebbe migliorato sintomi e avrebbe ridotto il rischio di infarto. Secondo la metà dei pazienti il cardiologo stesso aveva loro detto che la procedura avrebbe ridotto il rischio di infarto.

Prima e dopo

Ozkan et al.19, intervistando i pazienti prima e dopo la procedura, avevano dimostrato che le aspettative espresse prima della procedura erano “drammaticamente” ridimensionate una settimana dopo la dimissione. I dati sono stati confermati nella ricerca più recente, multicentrica, che ha coinvolto quasi 1000 pazienti20: il beneficio atteso dall’angioplastica consiste nel prolungamento della vita (90%; variabilità tra gli ospedali 80-97%) e nella prevenzione di un infarto (88%; variabilità tra gli ospedali 79-97%).

Discrepanti opinioni

Quali fattori contribuiscono a indurre questa discrepante opinione tra cardiologi e pazienti?

Ci troviamo a discutere nell’ambito di uno scenario definito close call, ovvero una difficile decisione che deve essere assunta quando a priori il vantaggio se sottoporsi o meno a una procedura è incerto. Condizione per altro molto frequente dal momento che, secondo evidence based21, circa il 50% dei trattamenti non dispone di prove tali da far propendere con ragionevole evidenza una decisione da un parte o dall’altra.

Il cardiologo

In condizioni di incertezza sull’esito, l’opinione dei cardiologi è influenzata non solo dalla conoscenza, sembra accurata, dei dati della letteratura, ma da numerosi fattori che, caso per caso, determinano una certa decisione. Questo è dimostrato innanzitutto dall’ampia variabilità della percentuale di angioplastiche osservate in diversi centri: nonostante un’apparente uniformità di giudizio, il comportamento decisionale è molto opinabile22, anche quando si analizzano le procedure eseguite in caso di sindrome coronarica acuta, dove le linee-guida sono più stringenti. È stato più volte confermato che la variabilità dipende più dalla volontà dei medici e dalla loro competenza che da differenze epidemiologiche, dalla gravità della malattia o dalle preferenze dei pazienti23,24 e che il tasso di inappropriatezza aumenta nelle aree geografiche dove è più alto il tasso di procedure invasive25.

La decisione del cardiologo sul singolo caso deve anche fare i conti con la preoccupazione etica di non trascurare la prescrizione di una procedura che potrebbe essere necessaria, con il timore di vedersi contestata in sede civile o penale una diagnosi mancata (medicina difensiva), con il desiderio di voler dimostrare la propria competenza professionale e il proprio aggiornamento, con interessi diretti (economici) o indiretti (le aziende sanitarie premiano le produzioni rilevanti dal punto di vista numerico e non la qualità e l’appropriatezza)26 e infine con la preoccupazione che un’aperta discussione sui rischi di una procedura possa creare un’eccessiva ansia27,28, fino ad arrivare al rifiuto di una procedura, nei casi in cui l’angioplastica potrebbe essere realmente efficace (effetto nocebo)29.

Analizzando le registrazioni video di 44 colloqui tra un cardiologo e un paziente30, tratti da un ampio archivio di interviste non raccolte per questo scopo, è stato osservato che, a parte alcuni colloqui, durante i quali erano state fornite descrizioni accurate, nella maggior parte dei casi i cardiologi contribuivano a indurre, in modo implicito o esplicito, un’errata interpretazione delle informazioni, sovrastimando i benefici e sottostimando i rischi, utilizzando metodi comunicativi che possono ostacolare la comprensione e la partecipazione del paziente alla decisione. In particolare, nel 95% delle registrazioni non era stato detto al paziente che l’angioplastica non avrebbe ridotto il loro rischio di morte o infarto e che il beneficio, rispetto alla riduzione dei sintomi, si sarebbe annullato dopo 5 anni. Gli autori osservano che, senza un’esplicita affermazione che i benefici sono limitati alla riduzione dei sintomi, i pazienti si sentono autorizzati a concludere che l’apertura di una coronaria stenotica è in grado di evitare un infarto.

Il paziente

La maggior parte dei pazienti preferisce partecipare alle decisioni31,32, e non ci sono dubbi che sia eticamente corretto33, ma abbiamo visto quanto spesso l’informazione sia inadeguata per fornire i dati necessari ad assumere una decisone; quando non è errata, sottintende comunque l’idea che l’angioplastica serva a ridurre infarto e mortalità. La documentata disinformazione dei pazienti però non dipende solo da una comunicazione frettolosa o tendenziosa34, ma anche da una serie di condizioni psicologiche, ben descritte in letteratura35, in cui si trova l’ammalato nel momento in cui deve assumere una decisione delicata riguardante la sua salute e viene relegato in uno stato di passività36. L’opinione dei pazienti è condizionata infatti dalla cosiddetta “dissonanza cognitiva”, la condizione in cui qualunque individuo, avendo deciso per una soluzione tra quelle alternative, ne enfatizza inconsciamente i vantaggi, per evitare il disagio di vivere una dissonanza tra l’aver fatto una scelta e il considerarla svantaggiosa. Nel caso in questione, i pazienti che danno il consenso all’angioplastica scarteranno inconsciamente tutte le informazioni che la caratterizzano come inutile o rischiosa. Questo concetto è stato dimostrato anche dalla teoria della “convinzione culturale del rischio” che spiega come, su questioni prettamente scientifiche (il riscaldamento del pianeta, l’efficacia delle vaccinazioni, la sicurezza delle centrali nucleari, l’importanza delle colture OGM), l’opinione corrente rispecchi più l’attitudine psicologica di favorire selettivamente i concetti legati ai propri valori, piuttosto che i dati scientificamente dimostrati37,38.

In secondo luogo l’angioplastica, come peraltro un qualunque trattamento farmacologico, esplica un effetto placebo: il paziente ne enfatizzerà i vantaggi, anche prima di eseguirla, dal momento che la ritiene efficace anche solo per il fatto che un medico ritiene cruciale prescrivergliela. In terzo luogo, i pazienti si sentono in dovere di esprimere un parere ancora più positivo di quanto loro comunicato, per una sorta di compiacimento nei confronti del medico39 e temono che fare domande o esprimere un giudizio antagonista possa etichettarli come pazienti “difficili”40, possa indisporre il medico e possa sortire in un trattamento meno valido41,42.

Che fare?

Da questi dati si evince che la comunicazione delle informazioni e della raccolta del consenso è del tutto insoddisfacente, sia per il comportamento dei medici, sia per attitudini psicologiche dei pazienti. Negli ultimi decenni si è sviluppato un ampio dibattito sulla definizione di “giusta decisione” quando non si dispone di prove che indichino in modo inequivocabile la “migliore” strategia terapeutica; è proprio in questi casi che la scelta deve dipendere in larga misura da come i pazienti valutano i benefici e i rischi. A maggior ragione, nel caso della scelta terapeutica dell’angina stabile che deve essere guidata dalla valutazione soggettiva dei sintomi, è proprio il paziente che può dare il maggiore contributo43.

Da una revisione sistematica della letteratura, comparsa recentemente sulla Cochrane Library44, si ricava che se i pazienti vengono coinvolti nel processo decisionale con strumenti che li aiutano a decidere, riducendo la variabilità della comunicazione medico/paziente e la soggezione che ogni paziente prova quando si trova di fronte a un medico, si riduce il numero di procedure, senza apparenti effetti indesiderati sugli esiti o sulla soddisfazione. Dal momento che la percezione dei sintomi varia da paziente a paziente, la decisione se eseguire un’angioplastica dovrebbe dipendere dalle preferenze del paziente45-47. Una comunicazione efficace sui rischi e i benefici è una componente essenziale di ogni trattamento e richiede formazione e aggiornamento: spetta ai professionisti della salute essere in grado di coinvolgere i pazienti nella decisione sul percorso diagnostico terapeutico preferibile48. Non va infine dimenticato che sono sempre più numerose le segnalazioni in letteratura sul fatto che il coinvolgimento dei pazienti nel processo decisionale riduce i rischi di rivalse legali49-52.

Una volta documentate le carenze comunicative e constatata l’insoddisfacente informazione che i pazienti ricevono e capiscono, diventa chiaro che esistono importanti opportunità per migliorare il processo e la qualità del consenso informato. Nell’articolo già citato di O’Connor44 si documenta la validità di strumenti informativi che standardizzano l’informazione da fornire ai pazienti.

Il progetto americano Choosing Wisely, ripreso in Italia da Slow Medicine53 con il titolo “Fare di più non significa fare meglio”, ha proposto alle società scientifiche di individuare 5 pratiche a rischio di inappropriatezza e ha stilato un promemoria che dovrebbe essere fornito a tutti i pazienti, per renderli più consapevoli di ciò a cui si dovranno sottoporre (box 1).

Per una più appropriata decisione, per migliorare la consapevolezza e la soddisfazione dei pazienti, per ridurre il rischio di contenziosi legali e per rendere fruttuosa l’alleanza terapeutica, i 5 punti espressi nel box dovrebbero essere resi noti sempre più spesso ai pazienti che si affidano alle nostre cure.




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