Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

Still Alice

Il cinema e il video si pongono di per sé come efficacissimi, anche se in qualche modo effimeri, archivi della memoria. Eppure la storia del cinema tratta spesso del suo contrario, dell’incapacità di ricordare, della perdita della memoria. Persino della sua rimozione artificiale, come nei fantascientifici Total Recall (2012) e Paycheck (2003) o nel curioso Se mi lasci ti cancello (2004). O, viceversa, del suo potenziamento, sempre artificiale. Non stiamo parlando di rimozione, ma di perdita della memoria in quanto tale, tema che da sempre affascina ­Hollywood. Solo per ricordare alcuni titoli, Jason Bourne viene ripescato da un peschereccio al largo delle coste italiane, ferito e senza memoria, nell’adrenalinico The Bourne Identity (2002). La stessa condizione è propria del protagonista di L’uomo senza passato di Kaurismäki (2002), mentre in Novo (2002) una malattia impedisce ad Anna Mouglalis di ricordare cose avvenute soltanto dieci minuti prima. Come Leonard, il protagonista di Memento (2000), affetto da un disturbo della memoria degli avvenimenti recenti.
Di solito, al cinema la perdita della memoria è dovuta ad una scelta dettata da un programma fantascientifico, oppure – il più delle volte – ha un’eziologia traumatica, un incidente, come in Cercasi Susan disperatamente (1985) o in Mullholland Drive (2001). Meno rappresentata sullo schermo è invece la causa che al contrario, nella realtà, è la più frequente: le forme di decadimento cognitivo, con in testa l’Alzheimer. In qualche modo è dunque un avvenimento che quest’anno l’Oscar per la migliore attrice protagonista sia andato a Julianne Moore per la sua convincente interpretazione in Still Alice, di Richard Glazer, regista canadese malato di SLA, coadiuvato sul set da Walsh Westmoreland.

A dire il vero, precedenti non mancano (tabella 1), ed alcune pellicole nel recente passato sono certamente ragguardevoli, come nel caso di Iris, dedicato alla malattia di Iris Murdoch, filosofa e romanziera inglese. La particolarità di Alice consiste forse nell’essere affetta da una forma precoce di Alzheimer, tanto più indigesta in quanto su base genetica ed ereditaria.

Tratto dal bestseller di Lisa Genova, Perdersi (Piemme, 2007), laureatasi in neuropsichiatria ad Harvard e che da anni si dedica allo studio del cervello e delle sue malattie, il film narra la storia di Alice Howland, una cinquantenne estroversa e capace, del tutto realizzata nel lavoro e nella famiglia. Affermata linguista, insegna alla Columbia University, ha una famiglia solida con marito chimico (Alec Baldwin) e tre figli ormai grandi. Ma una serie di incidenti e di episodi via via più preoccupanti la inducono a sottoporsi a degli esami clinici, grazie ai quali scopre di soffrire appunto di una forma precoce di Alzheimer. Una sorta di nemesi: lei, da sempre abituata in quanto linguista ad articolare e giocare con le parole, adesso tende a dimenticarle.




Senza sentimentalismi e giri di parole, il film mostra gli effetti devastanti del morbo di Alzheimer nella vita di tutti i giorni. Le prime défaillances mnemoniche della protagonista sono rese evidenti anche in virtù di un effetto stilistico brillante, il fuori fuoco che appanna il mondo intorno a lei che diviene – anche visivamente – non riconoscibile. Torna utile in questo processo di focalizzazione sul male l’uso insistito degli specchi, in cui l’identità si duplica e a volte si triplica.

Alice tenta di porre argini al progressivo sfaldarsi della propria identità personale ricorrendo anche alla tecnologia, usando il proprio smartphone e il pc per lasciarsi dei messaggi che la aiutino a ricordare le parole. Le parole, vere protagoniste del film. Il loro ricordo così come il loro smarrirsi, nella liquida e inesorabile processualità della malattia.

Ma cosa disturba così tanto lo spettatore che osserva un attore interpretare un malato di Alzheimer? È naturale che la sintomatologia ingravescente – amnesia, afasia, apatia, disorientamento e altro – giochi di per sé un ruolo angosciante. Tuttavia, ciò che più ci tocca è lo spettacolo del frantumarsi dell’identità, la rappresentazione del degrado di ciò che più ci rende umani: noi siamo anche e soprattutto la nostra storia, i nostri ricordi, e la loro disgregazione interrompe la continuità vitale dell’organismo e, più ancora, della persona.




In un bel film di Ackerman ormai di qualche anno fa, uno dei primi dedicati a questo tema, Diana – la protagonista interpretata da Mia Farrow, alla quale era stato diagnosticato un Alzheimer – chiedeva al marito: «Chi diventerò?» La risposta data dal marito è la migliore, la più confortante che una persona innamorata possa dare: «Quando tu non mi riconoscerai più, io riconoscerò te».

Come diceva Sartre, siamo individuati essenzialmente dallo sguardo degli altri. La nostra stessa identità è frutto delle interazioni, della qualità dei nostri rapporti. Se malati, solo grazie all’amore di chi ci accudisce potranno risuonare sensati i versi di Elisabeth Bishop su “the art of losing”:
«L’arte di perdere non è difficile da imparare; così tante cose sembrano aspettare di essere perse, che perderle non è un disastro».