Barriere e facilitatori all’implementazione dei sistemi di supporto decisionale computerizzati in ospedale: uno studio “grounded theory”

Elisa Giulia Liberati1, Laura Galuppo1, Mara Gorli1, Marco Maraldi2, Francesca Ruggiero3, Matteo Capobussi4, Rita Banzi5, Koren Kwag6, Giuseppe Scaratti1, Oriana Nanni7, Pietro Ruggieri2, Hernan Polo Friz8, Claudio Cimminiello8, Marco Bosio9, Massimo Mangia10, Lorenzo Moja3,6

Riassunto. Introduzione. I sistemi di supporto decisionale computerizzati (SSDC) collegano le informazioni specifiche di ogni paziente alle evidenze scientifiche disponibili in selezionate banche dati, offrendo un immediato supporto ai clinici durante i processi decisionali. Diversi studi suggeriscono che i SSDC hanno la potenzialità di migliorare l’efficienza e la qualità delle cure. Tuttavia, la loro disponibilità nei contesti di cura non ne garantisce l’adozione in pratica. Il presente studio qualitativo è finalizzato a esplorare le barriere e i facilitatori all’adozione dei SSDC così come percepiti dal personale ospedaliero chiamato a farne uso. Metodi. I dati empirici sono stati raccolti attraverso interviste qualitative semi-strutturate, condotte e analizzate secondo il metodo grounded theory. La rilevazione ha coinvolto tre ospedali del Nord Italia, caratterizzati da diversi livelli di familiarità con i SSDC. Le interviste (n=24) sono state sottoposte a diverse figure professionali: medici, infermieri, membri dello staff IT (Information Technology) e membri delle direzioni ospedaliere. Risultati. L’adozione dei SSDC si configura come processo articolato in sei “posizionamenti”, che rappresentano sei possibili esperienze di utilizzo dei SSDC: a un estremo, il sistema è percepito come un oggetto minaccioso e incontrollabile e, all’estremo opposto, come uno strumento a servizio dei clinici. I primi posizionamenti sono connotati da ostacoli rappresentazionali mentre i posizionamenti più vicini all’utilizzo sono connotati da gli ostacoli tecnici . Discussione. Il modello consente a decisori e manager di collocare i propri contesti di riferimento in uno (o più) dei posizionamenti descritti, “diagnosticando” così il rispettivo livello di maturità nei confronti dei SSDC e identificando le leve su cui agire per avvicinarsi a un’integrazione soddisfacente dei SSDC. I risultati sono discussi anche alla luce degli attuali trend innovativi in sanità, consentendo alcune riflessioni riguardo allo status quo e al potenziale di sviluppo degli ospedali italiani.

Parole chiave. Evidence-based medicine, grounded theory, interviste, percezioni, professioni sanitarie, sistemi di supporto decisionale computerizzati.

Barriers and facilitators to the implementation of computerized decision support systems in Italian hospitals: a grounded theory study.

Summary. Introduction. Computerized Decision Support Systems (CDSSs) connect health care professionals with high-quality, evidence-based information at the point-of-care to guide clinical decision-making. Current research shows the potential of CDSSs to improve the efficiency and quality of patient care. The mere provision of the technology, however, does not guarantee its uptake. This qualitative study aims to explore the barriers and facilitators to the use of CDSSs as identified by health providers. Methods. The study was performed in three Italian hospitals, each characterized by a different level of familiarity with the CDSS technology. We interviewed frontline physicians, nurses, information technology staff, and members of the hospital board of directors (n=24). A grounded theory approach informed our sampling criteria as well as the data collection and analysis. Results. The adoption of CDSSs by health care professionals can be represented as a process that consists of six “positionings,” each corresponding to an individual’s use and perceived mastery of the technology. In conditions of low mastery, the CDSS is perceived as an object of threat, an unfamiliar tool that is difficult to control. On the other hand, individuals in conditions of high mastery view the CDSS as a helpful tool that can be locally adapted and integrated with clinicians’ competences to fulfil their needs. In the first positionings, the uptake of CDSSs is hindered by representational obstacles. The last positionings, alternatively, featured technical obstacles to CDSS uptake. Discussion. Our model of CDSS adoption can guide hospital administrators interested in the future integration of CDSSs to evaluate their organizational contexts, identify potential challenges to the implementation of the technology, and develop an effective strategy to address them. Our findings also allow reflections concerning the misalignment between most Italian hospitals and the current innovation trends toward the uptake of computerized decision support technologies.

Key words. Computerized decision support systems, evidence-based medicine, grounded theory, interviews, healthcare professions, perceptions.

Introduzione

La medicina basata sulle prove di efficacia, altrimenti nota come evidence-based medicine, presuppone un processo sistematico di ricerca, valutazione e uso dei risultati della ricerca scientifica come base per le decisioni cliniche1 ed è oggi considerata uno strumento chiave per migliorare la qualità dei servizi sanitari. Tuttavia, l’interazione tra clinici ed evidenze di letteratura è lontana dall’essere ottimale, e diversi studi rilevano una scarsa propensione dei clinici a utilizzare le evidenze scientifiche come guida nel processo decisionale2-7. A questo si aggiunge la scarsa capacità degli interventi formativi e di miglioramento (quali, per es., interventi di audit e feedback, l’uso di opinion leader o incentivi professionali) di modificare tali atteggiamenti8.

Negli ultimi dieci anni il Sistema Sanitario Nazionale ha investito ingenti risorse per sviluppare l’infrastruttura tecnologica degli ospedali, per es. attraverso la costituzione di “reti dati” secondo modelli hub and spoke, collegando i vari punti di cura. Tra i compiti di questa infrastruttura c’è quello di supportare l’attività clinica integrandola con le migliori evidenze scientifiche. I sistemi di supporto decisionale computerizzati (SSDC) si inseriscono in questo contesto. I SSDC sono una tecnologia informativa che collega le informazioni specifiche di ogni paziente – contenute nella cartella clinica elettronica – alle evidenze scientifiche disponibili in selezionate banche dati, offrendo così un immediato supporto ai clinici durante il processo decisionale, una seconda opinione istantanea e autorevole9 (maggiori informazioni sui SSDC sono riassunte in un’infografica consultabile al seguente link: https://codesproject.files.wordpress.com/2015/03/ssdc_semplice.pdf).

Gli ostacoli all’uso delle evidenze scientifiche più spesso menzionati dai professionisti sanitari consistono nei vincoli di tempo che impediscono ai clinici di consultare la letteratura scientifica durante le ore di attività, nelle difficoltà di utilizzo di sistemi informativi, percepiti come troppo complessi, e nell’interpretazione e applicazione dei risultati delle ricerche5,6,10. I SSDC di ultima generazione offrono una soluzione alla maggior parte di tali inconvenienti11. Le informazioni fornite dal sistema sono filtrate e accessibili in modo immediato al point-of-care e relative allo specifico paziente, così da poter essere facilmente integrate nelle routine di cura. Studi recenti, inoltre, rilevano che i SSDC, se utilizzati correttamente, possono favorire una maggiore sicurezza nella prescrizione, un maggiore uso di cure preventive nei pazienti ospedalizzati (recentemente definito “sanità di iniziativa”), l’accesso a un maggior numero di informazioni riguardanti la storia clinica dei pazienti e una maggiore aderenza alle linee-guida disponibili in letteratura, incidendo positivamente sulla qualità e l’appropriatezza delle cure12-14.

Nonostante queste importanti potenzialità, sia diversi studi sociologici afferenti al filone dei Science and Technology Studies15 sia ricerche interessate all’implementazione delle innovazioni in sanità16 evidenziano che la mera disponibilità di una nuova tecnologia, per quanto utile e migliorativa, non garantisce la sua adozione nella pratica clinica. Quanto ai SSDC, alcuni studi rilevano che, anche laddove il sistema è disponibile, i clinici non seguono frequentemente le loro raccomandazioni, ignorando fino al 96% degli avvisi17. Per conoscere il motivo di tale limitato utilizzo, è dunque necessario indagare come i clinici e le comunità professionali si rapportino a tali sistemi, e quali opinioni e rappresentazioni li guidino nei loro comportamenti. Il presente studio qualitativo è finalizzato a esplorare le barriere e i facilitatori all’uso dei SSDC così come percepiti dal personale ospedaliero direttamente chiamato a farne uso.

I pochi studi qualitativi che hanno indagato gli atteggiamenti e le percezioni dei clinici verso i SSDC hanno coinvolto professionisti già impegnati nel loro utilizzo, afferenti a contesti sanitari tecnologicamente avanzati e abituati a continue pressioni verso l’innovazione. Questi studi dunque non descrivono barriere e facilitatori percepiti dai clinici prima della loro integrazione effettiva e non tengono conto della grande eterogeneità di “maturità tecnologica” che caratterizza i servizi sanitari e le comunità professionali dei Paesi, come l’Italia, ancora lontani da una diffusa adozione delle tecnologie informative18. Ipotizzando che l’uso di una nuova tecnologia informativa non consista in un unico, generalizzabile passaggio off-on, ma in un complesso percorso di adattamento e integrazione con la pratica, il presente studio analizza l’introduzione dei SSDC in chiave processuale, indagando i passaggi che li caratterizzano, includendo nell’indagine strutture diversificate per il rispettivo livello di maturità tecnologica. Lo studio fornisce anche indicazioni sulle leve da attivare, nella pratica, per accompagnare l’implementazione e favorire una maggiore sostenibilità dell’innovazione19. In questo modo, lo studio offre un alto valore informativo per manager e decisori impegnati nell’adozione e nell’integrazione di nuove tecnologie informative evidence-based.

Metodi

Il presente studio qualitativo fa parte del programma di ricerca finalizzata CODES (https://codesproject.wordpress.com/). Tra i vari approcci di ricerca qualitativa, si è scelto di adottare quello della grounded theory (GT), le cui principali caratteristiche sono descritte nel box 1. La tecnica di ricerca adottata è stata quella dell’intervista qualitativa semi-strutturata, anch’essa progettata coerentemente con la logica GT, che prevede la progressiva ridefinizione della traccia in funzione dei temi emergenti dalle prime interviste svolte.

Contesti e soggetti

In una fase iniziale, il campionamento ha previsto una nostra selezione di tre differenti contesti sanitari (ospedali del Nord Italia) caratterizzati da diversi livelli di familiarità con i SSDC. I tre contesti sono stati selezionati sulla base dei seguenti criteri: il livello di adozione e uso di evidenze scientifiche riportato dalle direzioni ospedaliere, la presenza o meno di una cartella clinica elettronica, la presenza o meno di SSDC integrati a tale cartella.

Il setting A è un ospedale multispecialistico che ha introdotto la cartella clinica elettronica nel 2010, a cui sono stati recentemente connessi diversi SSDC, i quali forniscono informazioni evidence based su prescrizioni e trattamenti (livello 6 HIMSS - EMRAM [Europe’s Electronic Medical Record Adoption Model])23. Il setting B è un ospedale ortopedico che ha introdotto la cartella clinica elettronica nel 2011, ma che non ha ancora introdotto alcun SSDC, poiché il sistema informativo non è ancora in grado di sostenere la loro integrazione (livello 3 HIMSS - EMRAM)23. Il setting C è un ospedale ortopedico che non ha introdotto né i SSDC né la cartella clinica elettronica (livello 1 HIMSS - EMRAM)23.

In ogni contesto, abbiamo sottoposto l’intervista a diverse figure professionali: medici, infermieri, membri dello staff Information Technology (IT) e membri delle direzioni ospedaliere (tabella 1). Le interviste rivolte ai clinici hanno avuto l’obiettivo di incoraggiare una narrazione quanto più libera del loro rapporto con le evidenze scientifiche e con i SSDC. Sono state, inoltre, indagate le modalità di uso di tali strumenti in pratica e l’eventuale impatto dei SSDC sui ruoli professionali e sulle relazioni inter- e intra-professionali. Alle figure dirigenziali è stato, invece, chiesto di descrivere il livello di maturità tecnologica e di adozione delle evidenze scientifiche del proprio contesto organizzativo e di riflettere su ostacoli e facilitatori strategici all’introduzione dei SSDC. È stato così possibile cogliere in modo comprensivo e approfondito anche aspetti non prettamente clinici, come quelli sociali e organizzativi, che potrebbero impattare sull’effettiva integrazione dei SSDC nella pratica clinica.

A fronte di questo campionamento iniziale, la raccolta dei dati ha seguito poi la logica del “campionamento teorico”21, che ci ha consentito di reclutare progressivamente i partecipanti della ricerca in funzione dei primi risultati emergenti (box 1). In seguito ai dati emergenti dalle prime interviste, è parso necessario, per esempio, intervistare almeno quattro medici per ogni contesto selezionato, mentre il numero dei rappresentanti delle direzioni è stato più limitato, in quanto le loro testimonianze sono parse maggiormente coerenti e simili tra loro. In totale sono stati intervistati 24 professionisti ospedalieri: 10 medici, 7 infermieri, 4 rappresentanti delle direzioni ospedaliere (3 direttori sanitari, 1 direttore scientifico) e 3 direttori dell’IT.







Raccolta dati ed etica della ricerca

Le interviste sono state condotte nel luogo di lavoro degli intervistati tra febbraio e novembre 2014. Le interviste sono state audioregistrate dopo aver ottenuto il consenso dei partecipanti e hanno avuto una durata media di circa 45 minuti. Nessuno dei partecipanti reclutati ha rifiutato di partecipare allo studio. Le interviste sono state condotte da tre psicologhe esperte in metodi di ricerca qualitativi, in un rapporto di totale indipendenza rispetto agli ospedali e alle persone intervistate. La ricerca è stata notificata ai Comitati Etici degli ospedali coinvolti: Istituto Ortopedico Rizzoli, IRCCS Ospedale San Raffaele, AO di Desio e Vimercate (Comitato Etico della Provincia Monza Brianza, AO San Gerardo, Monza). Questo studio è finanziato dal Ministero Italiano della Sanità (GR-2009-1606736) e dalla Regione Lombardia (D.R.G. IX/4340 26/10/2012). Gli enti responsabili dei finanziamenti non hanno avuto alcun ruolo nella scrittura del presente articolo.

Analisi dei dati

Ogni intervista è stata trascritta, letta e analizzata, in modo indipendente da almeno due ricercatrici coinvolte nella rilevazione. Le trascrizioni delle interviste sono state analizzate in accordo con la metodologia GT. Nella prima fase (codifica aperta) è stata eseguita una codifica riga-per-riga, abbinando ogni tema emergente a uno specifico codice, quanto più fedele e descrittivo dell’esperienza dei soggetti (spesso utilizzando i termini adottati dai partecipanti stessi). Sono state esplorate tanto le regolarità quanto le irregolarità tra le diverse testimonianze, cercando così di fare luce su specifici collegamenti tra rappresentazioni dei SSDC, caratteristiche dei contesti organizzativi ed esiti descritti. Nella successiva fase di analisi (codifica assiale) sono state progressivamente costruite categorie più ampie, in grado di comprendere una maggiore variabilità delle esperienze emergenti rispetto al tema dei SSDC. La terza e ultima fase di analisi (codifica selettiva) ha visto l’identificazione di connessioni tra categorie concettuali, portando così a una maggiore astrazione dai dati empirici e all’individuazione della core category, cioè il tema nodale attorno a cui si articola ogni altra categoria, perno dell’intero processo di analisi20. Le tre ricercatrici che hanno condotto l’analisi hanno condiviso e discusso le loro interpretazioni durante diversi incontri, nel corso dei quali è stato raggiunto un sostanziale accordo su categorie e modello finale.

Risultati

Il modello teorico costruito a partire dall’analisi dei dati descrive il processo di adozione dei SSDC come un percorso che si organizza in sei “posizionamenti”, non necessariamente progressivi, ma corrispondenti a sei possibili esperienze di utilizzo dei SSDC. Tali esperienze di utilizzo si distinguono in base a una differente percezione di padronanza dei SSDC: a un estremo, il sistema è percepito come un oggetto minaccioso, ignoto e incontrollabile e, all’estremo opposto, come uno strumento a servizio dei clinici, integrabile con le proprie competenze, adattabile alle specificità organizzative locali. I sei posizionamenti risultano dall’aggregazione dei dati raccolti con tutte le figure professionali coinvolte, e ne riflettono le diverse esperienze e i diversi ruoli organizzativi.

La categoria concettuale della “padronanza del sistema” costituisce la core category della presente analisi GT. La padronanza del sistema è il prodotto di due principali fattori psicosociali: il primo riguarda la percezione del valore e del ruolo delle evidenze scientifiche nel processo decisionale; il secondo riguarda la familiarità con la componente tecnologica e la percezione del suo impatto sulla pratica clinica. Ognuno dei sei posizionamenti nei confronti dei SSDC rappresenta una diversa esperienza di uso, da un lato, delle evidenze scientifiche nel processo decisionale e, dall’altro, della componente tecnologica del sistema (figura 1). A loro volta, i sei posizionamenti sono connotati da diversi tipi di ostacoli all’adozione dei SSDC: da un lato, ostacoli rappresentazionali (cioè legati a percezioni negative che i clinici e le comunità professionali costruiscono rispetto alle evidenze e/o alla tecnologia) e dall’altro ostacoli tecnici (cioè legati alle concrete difficoltà di interazione con la tecnologia SSDC).

Nella figura 1, ogni cerchio rappresenta uno specifico posizionamento. La graduale evoluzione da un bassissimo livello di padronanza dei SSDC (posizionamento 1) a una loro ottimale integrazione nella pratica (posizionamento 6) è espressa dalla progressione cromatica dal rosso al verde, per richiamare i colori del semaforo (visibile solo nella versione online [ndr]).

Nei paragrafi successivi, i diversi posizionamenti verranno illustrati a partire dai dati16: la descrizione di ogni posizionamento sarà introdotta da stralci di interviste particolarmente significativi e adatti a spiegarne le caratteristiche distintive.




Posizionamento 1

“Noi medici, artigiani della cura”: il SSDC è ancora lontano

«Nella chirurgia il concetto di evidenza ogni tanto si scontra con il concetto dell’arte, soprattutto in ortopedia che si lavora con strumenti che ricordano quelli dell’artigiano. […] Apprendiamo e ci costruiamo una cultura leggendo libri e articoli, ma anche guardando, osservando i maestri, guardando come fanno loro… Anche perché di evidenze nel nostro campo ce ne sono poche e quindi un sistema del genere a noi servirebbe a poco…». (Chirurgo ortopedico, setting C)

«È una cosa esaltante! Io con questo sistema (SSDC) potrei avere la speranza di trovare subito le evidenze che mi servono, senza andare a cercare su internet, dove trovo anche le padelle antiaderenti… Però questa storia della cartella clinica elettronica a me non piace… Una cartella elettronica nella degenza, dove potrebbero accedere tutti… internisti, diabetologo, cardiologo, ortopedico, la sala operatoria… Io sono di un’epoca diversa, il fatto che sia così accessibile mi scombussola un po’. E poi adesso la cartella viene scritta nella stanza del paziente. Noi internisti non è che ci mettiamo a tavolino, al computer, a scrivere. Visitiamo il paziente, vediamo come sta, e scriviamo. [...] Mi sembra che non faccia per me, non vorrei mai che me la imponessero». (Medico internista, setting C)

Questo primo posizionamento appare caratterizzato da un netto distacco esperienziale dai SSDC: i clinici non sembrano disposti a prefigurare la possibilità di un effettivo inserimento del sistema nel proprio contesto lavorativo. Le ragioni alla base di questo distacco possono essere ricondotte a due principali fattori: da un lato, una rappresentazione delle evidenze scientifiche come poco utili e poco pertinenti alla propria attività clinica (primo virgolettato) e, dall’altro, una rappresentazione dell’informatizzazione e delle tecnologie informative come potenziali minacce per lo status professionale del medico (secondo virgolettato).

Nel primo caso, i clinici propongono un dualismo tra la “componente artigianale” del mestiere del medico e le evidenze scientifiche, ipotizzando una polarizzazione e contrapposizione tra i due approcci. Le evidenze non costituiscono una guida nella pratica: le esperienze dei colleghi o le “eminenze” del settore sono considerate una fonte di informazione e supporto più rilevante. I SSDC, dunque, sono accolti con distacco e indifferenza: uno strumento poco utile nella concretezza dell’attività clinica. È importante notare come nessuno dei nostri intervistati si identifichi direttamente con queste opinioni, attribuendole ai colleghi. Questo suggerisce una volontà di marcare una certa distanza personale rispetto alle posizioni espresse.

Nel secondo caso, più frequentemente incontrato nel nostro campione, il rifiuto dei SSDC sembra derivare invece da una rappresentazione della tecnologia come uno strumento minacciante, che impone di riconfigurare routine lavorative, flussi di comunicazione, norme per la gestione interprofessionale delle informazioni. Inoltre, la cartella clinica elettronica è percepita come uno strumento colpevole di allontanare il medico dal rapporto diretto con il paziente. La resistenza di questi clinici nei confronti dell’adozione di nuove tecnologie è confermata da alcuni direttori IT, afferenti agli stessi contesti organizzativi:

«I medici hanno paura di essere trasformati in impiegati, questo è il punto chiave. Gran parte dell’energia e della professionalità del medico è dedicata al processo diagnostico-terapeutico: il medico non vuole staccare le mani dal paziente per sedersi alla scrivania a scrivere al computer. Al medico non piace sentirsi un impiegato che inserisce dati». (Direttore IT, setting C)

In sintesi, questo posizionamento esclude ogni prospettiva di uso dei SSDC, prima ancora di averlo sperimentato nella pratica. Secondo l’opinione dei direttori sanitari, tale posizionamento è connotato, da un lato, dall’assenza di una cultura organizzativa che supporti le evidenze scientifiche e, dall’altro, dal predominio di diverse e contrastanti sottoculture professionali, ciascuna impegnata a difendere il proprio approccio clinico. Il processo di introduzione dei SSDC deve quindi essere preceduto da alcuni passaggi preliminari, quali per esempio una maggiore circolazione di linee-guida ed evidenze scientifiche all’interno dell’ospedale. Le direzioni sembrano consapevoli che il superamento della posizione di totale rifiuto dei SSDC richiederà un consistente impegno e una lunga negoziazione con i clinici in prima linea con i pazienti, finalizzati a introdurre un radicale cambiamento culturale nelle organizzazioni coinvolte.

Posizionamento 2

“O io o lui”: i SSDC e lo spettro del controllo

«Io non sono d’accordo sul fatto che la medicina debba basarsi ed essere condotta guidata semplicemente da un sistema… Io credo che a guidare le decisioni debbano essere in primis la preparazione di un medico, la sua coscienza ed esperienza. È svilente pensare che qualsiasi attività del medico possa essere guidata da un computer! Perché io ho una mia professionalità a una mia deontologia. Nella sicurezza del paziente, devo agire di testa mia e avere il coraggio di scrivere o fare quello che ritengo utile, non mi devo adagiare su delle linee-guida dettate da un programma. Quello che mi può dare vedere 150 pazienti è sicuramente un bagaglio mio che non me lo dà un sistema di questo tipo (SSDC)». (Chirurgo ortopedico, setting B)

I clinici che si immedesimano in questo posizionamento vedono i SSDC come un “usurpatore” della propria competenza e delle propria expertise: nella loro rappresentazione, il sistema non può essere controllato o governato, ma anzi la sua sola presenza obbliga il clinico ad abdicare all’esercizio della propria professione. I SSDC, in altre parole, vengono raffigurati come uno strumento “onnipotente”, lasciando al medico due sole opzioni: il rifiuto o la totale adesione ai suggerimenti proposti. In questo posizionamento, i clinici ipotizzano una reale possibilità d’uso dei SSDC, che è tuttavia vissuta in modo conflittuale. Se i SSDC vengono attivati, il medico è costretto a rinegoziare il controllo e la padronanza delle sue attività rispetto al nuovo sistema.

In questo posizionamento, il tema del controllo si estende poi ad altre figure professionali: i SSDC sembrano, per esempio, in grado di aumentare le possibilità di intrusione e controllo degli infermieri sull’operato dei clinici, prospettando una modificazione dei ruoli, confini professionali e dinamiche di potere.

«Se parliamo di terapia e aspetti terapeutici, io credo che ognuno abbia i propri compiti. Allora se non ho visto io la lampadina ma l’ha vista una caposala, che poi scrive “il dott. XX ha sbagliato a fare la terapia”. Qui secondo me andiamo su una cosina che non è proprio tranquilla subito! […] Ci manca solo che gli infermieri sappiano se il farmaco va dato o non va dato! […] Quindi è fondamentale: a ognuno i propri accessi». (Chirurgo ortopedico, setting B)

Timori nell’uso dei SSDC sono anche legati alla possibilità che essi siano usati “contro” i clinici in occasioni di conflitto medico-legale. Legando le decisioni cliniche ai dati pubblicati in letteratura, il sistema farebbe emergere eventuali differenze tra operato ed evidenze, ponendo i clinici in una condizione di aumentata vulnerabilità. Magistrati, avvocati o altri professionisti, taluni privi di una specifica expertise medica, giudicherebbero l’operato del medico sulla base della discrepanza rispetto alle indicazioni erogate dal sistema, senza considerare gli altri aspetti che guidano il processo clinico-decisionale.

«Questo tipo di supporto è anche un’arma a doppio taglio, ve lo dico! Esempio: se non lo accendo e succede qualcosa il magistrato mi viene a dire: “Scusi lei com’è che pur avendo a disposizione questo sistema non lo ha aperto?” Capito? Può essere usato contro di noi». (Chirurgo ortopedico, setting C)

In sintesi, questo posizionamento si connota per una rappresentazione dei SSDC rigida, persecutoria e non integrabile nella complessità del lavoro clinico. È interessante come, in questo caso, i clinici non siano necessariamente refrattari né all’uso delle evidenze scientifiche, né all’adozione di nuove tecnologie informative. Ciò che sembra inaccettabile è proprio l’esito dell’integrazione tra i due elementi: i SSDC rendono le evidenze incombenti e non negoziabili, sminuendo la competenza del clinico, riducendo la sua autonomia e amplificando i livelli di controllo sul suo operato.

Dal punto di vista organizzativo, questo posizionamento sembra coinvolgere contesti connotati da un discreto livello di informatizzazione: i clinici percepiscono l’implementazione dei SSDC come plausibile. Questi contesti sembrano anche caratterizzati da una grande eterogeneità di approcci nei confronti delle evidenze, dove gruppi che promuovono l’integrazione delle evidenze scientifiche nella pratica clinica convivono con gruppi molto resistenti all’introduzione di linee-guida e protocolli. Secondo un direttore sanitario (che identifica in questo posizionamento parte del proprio staff clinico), facilitare l’integrazione dei SSDC richiede una sua “smitizzazione”, cioè la costruzione di un’immagine più realistica del sistema informativo, più vicina a quella di uno strumento di lavoro a uso dei professionisti. Tale smitizzazione, a sua volta, necessita di un consistente impegno dei vertici delle organizzazioni sanitarie, su due fronti: 1) sensibilizzare e informare circa le effettive funzioni del sistema, le sua modalità di funzionamento e i motivi alla base della sua implementazione; 2) negoziare regole e condizioni di uso trasparenti ed esplicite per il suo concreto utilizzo. Diversi intervistati – sia clinici sia direttori – suggeriscono che proprio le esperienze d’uso del sistema, dirette o mediate, contribuirebbero alla costruzione di una sua immagine più realistica e alla percezione di controllo del clinico sullo stesso (piuttosto che viceversa).

Posizionamento 3

“Chi controlla il sistema?”: evidenze e tecnologia come prodotto di una comunità

«… di solito quando si prepara una linea-guida ci sono pareri contrastanti, il che vuol dire che anche esperti hanno pareri contrastanti su una linea-guida, poi di solito si arriva a un compromesso. […] È importante capire quali pubblicazioni hanno un peso scientifico reale e quali no, con quali criteri è nata quella pubblicazione e con quali criteri è nata un’altra… ci sono criteri diversi. […] Magari cercherei di rendere il sistema più interattivo, per poter aggiungere delle informazioni al sistema, anche se non so se in questo modo diventi un pochettino pericoloso perché si perde il controllo da chi lo ha generato. Probabilmente bisognerebbe tornare da chi lo ha generato per inserire delle modifiche». (Chirurgo ortopedico, setting B)

«Chi controlla il controllore? Io vorrei fidarmi di chi ha messo le evidenze nel sistema, vorrei poter capire come ha fatto e a partire da quali criteri. A oggi non c’è nessuna organizzazione che abbia così tanta autorità da poterlo fare in modo indiscutibile. […] Un tempo eravamo fiduciosi della medicina centrata sulle evidenze, contro quella basata sulle eminenze. Oggi dico che avremmo bisogno di buone eminenze che ci aiutino a usare e selezionare le buone evidenze». (Chirurgo ortopedico, setting C)

«La cartella clinica eletttronica non è buona in assoluto. Dipende da chi la fa e come la fa. Oggi se gli ingegneri non parlano con i clinici, non conoscono quello di cui i clinici hanno bisogno, perché non sanno come noi lavoriamo. Non possono imporci di lavorare in modo diverso da come lavoriamo». (Chirurgo ortopedico, setting C)

Questo posizionamento appare caratterizzato da un depotenziamento del carattere minaccioso dei SSDC, pur a fronte di una parziale diffidenza rispetto al suo effettivo valore di uso.

Due aspetti ci paiono cruciali da questo punto di vista: da un lato, una rappresentazione delle evidenze scientifiche come informazioni solide, ma parziali e contestabili, potenzialmente modificabili e in continua evoluzione (primo virgolettato); dall’altro, una idea della tecnologia come anch’essa prodotto “costruito” a partire da conoscenze e competenze professionali specifiche, frutto del lavoro di una comunità la cui autorevolezza non è né assoluta né indiscutibile.

Nel primo caso, i clinici riconoscono il valore delle evidenze come aiuto e supporto alla pratica, e non le percepiscono in contraddizione con la “componente artigianale” del mestiere del medico. Esse appaiono piuttosto come il prodotto sedimentato di una comunità scientifica, che ha il compito di valutarle, selezionarle e legittimarle. La fiducia nei confronti di tale comunità scientifica appare il tema cruciale per questi clinici, che percepiscono infatti anche i SSDC come il prodotto, più o meno legittimo e degno di fiducia, di una comunità che fa da “fonte” e da “filtro” delle evidenze messe a disposizione. I SSDC non sono più visti come uno strumento onnipotente, ma anzi come un prodotto umano, per fidarsi del quale è necessario conoscerne progettisti e “controllori” (vedi virgolettato), al cui operato attribuire legittimità.

In questo posizionamento, il tema della fiducia può anche investire la componente tecnologica del sistema. Anch’essa è vista come un artefatto prodotto dall’expertise di una comunità le cui competenze non paiono naturalmente compatibili con quelle della comunità dei clinici. Per superare la distanza sembra necessario essere rassicurati circa l’affidabilità dei progettisti dei sistemi e circa la loro competenza e vicinanza alla pratica clinica.

In sintesi, i SSDC appaiono uno strumento di cui diffidare, fino a che non vengano sciolte le riserve di fiducia relative tanto alla comunità scientifica quanto a quella tecnologica. Facilitare l’integrazione dei SSDC sembra richiedere un processo di legittimazione delle sue fonti e dello strumento. Secondo un direttore sanitario coinvolto, questo obiettivo potrebbe essere ottenuto attraverso: 1) la presentazione delle fonti, della loro autorevolezza scientifica e rigore metodologico, nonché dell’assenza di conflitti di interesse; 2) un ampliamento delle possibilità di partecipazione a comitati scientifici incaricati di selezionare e filtrare le fonti delle evidenze; 3) un’attenzione alla “trasferibilità” dell’evidenza internazionale al contesto locale. Alcuni direttori IT sottolineano infine l’importanza di mantenere un dialogo aperto e costante tra specialisti IT e comunità clinica, al fine di favorire regolazioni reciproche tra tecnologia e pratica clinica.

Posizionamento 4

“Bello e utile, ma non per me”: il SSDC come lo strumento degli altri

«Io questo sistema lo trovo molto molto utile, ma per i medici, non per noi. Nella mia branca (chirurgica) sarebbe più difficile da applicare. Noi ci proviamo a guardare le evidenze, dal punto di vista diagnostico forse ci riusciamo anche un po’ di più, ma dal punto di vista terapeutico è proprio complicato. Faccio un esempio dal mio campo: rottura del femore, chiodo o placca? Trovate 5000 lavori ma difficilmente una sintesi. Invece per i medici, nella prescrizione, nella terapia farmacologica, sarebbe una gran cosa avere questo sistema». (Chirurgo ortopedico, setting B)

«Forse io lo potrei usare… Ma in fin dei conti penso sarebbe più utile ai medici giovani, a chi si è appena laureato, agli specializzandi, chi non ha tanta esperienza… Per evitare gli errori più grossolani…». (Medico internista, setting C)

«Ecco forse più che in reparto da noi potrebbe essere utile in ambulatorio». (Medico internista, setting B)

In questo posizionamento, i clinici si mostrano fiduciosi nei confronti del sistema e delle sue potenzialità, ma non ancora disposti a ipotizzarne un utilizzo. Da un lato confermano un interesse nei confronti dei SSDC, dall’altro suggeriscono che questi siano sempre più utili per qualcun altro. In questo posizionamento, i clinici percepiscono i SSDC come un aiuto e un supporto solo per aspetti periferici della propria attività: non partecipando o contribuendo al cuore della loro attività professionale, essi ne farebbero dunque un uso parziale e limitato.

Alcuni clinici suggeriscono che l’integrazione evidenza-tecnologia dia luogo a un sistema meno sofisticato di quanto auspicato, e dunque non adeguato nell’offrire un supporto “al mio contesto di cura” e “per i miei pazienti”. Chi si colloca in questo posizionamento implicitamente suggerisce che la sua pratica clinica ha standard di cura elevati, e che i SSDC non replicano questi standard.

Pur essendo presenti resistenze all’uso dei SSDC, queste resistenze non paiono rigide né insormontabili: un direttore sanitario e un direttore IT suggeriscono anzi che queste possano essere superate stimolando l’interesse dei clinici nei confronti dei SSDC, creando occasioni per testare in prima persona il sistema e favorendo il riconoscimento dei benefici che il sistema può portare alla propria personale attività. In questo posizionamento, le leve top-down dovrebbero essere sostituite da strategie partecipative e bottom-up; potrebbe per esempio essere utile stimolare e sostenere un confronto tra pari, finalizzato a diffondere gli esiti di esperienze positive di utilizzo e a favorire uno scambio di conoscenze tra utenti potenziali e attuali, o tra gli scettici e i clinici più innovatori:

«L’innovazione, specie nel caso in cui va a incidere sui processi decisionali e sull’autonomia professionale dei medici, deve essere vissuta in maniera propositiva, non impositiva. La logica top-down non funzionerebbe. I progetti vanno concordati con i medici, anche se l’avallo forte della direzione è indispensabile». (Direttore IT, setting A)

Inoltre, il personale IT potrebbe cogliere direttamente alcuni spunti offerti dai professionisti al fine di giungere a una maggiore sofisticatezza e personalizzazione del sistema, rispondente alle peculiarità dei variegati suoi utenti (diverse discipline, diversi contesti sanitari, ecc.).

Posizionamento 5

“Una macchina che ci potrebbe aiutare”: verso un adattamento reciproco

«I pazienti sono tanti e pluri-patologici e l’attenzione alla fine della giornata è quella che è. Noi medici abbiamo dei limiti di memoria, di attenzione, stanchezza […]. Un supporto che ci accompagni ad applicare le evidenze ci può essere più che utile». (Medico internista, setting A)

«Se io conosco le evidenze posso anche dire: siccome il paziente è così e così, e siccome io ho questa esperienza, allora decido che posso anche non usare le linea-guida in questo caso. Perché nella decisione del medico, il medico deve mettere anche la sua esperienza e l’esperienza dell’ospedale». (Medico internista, setting A)

Come mostrano i virgolettati, questo posizionamento caratterizza clinici e contesti vicini alla prospettiva dell’adozione del sistema oppure effettivamente impegnati nel suo utilizzo. Ciò che connota e contraddistingue questo posizionamento sembra essere una rappresentazione completamente “smitizzata”, realistica e matura dei SSDC. Questi vengono visti come uno strumento di lavoro al servizio del clinico, a supporto e integrato alle proprie competenze. L’uso dei SSDC è possibile e fruttuoso, e correlato a una maggiore padronanza sia delle evidenze sia della tecnologia. Per esempio le evidenze sono descritte come una guida utile alla decisione clinica, da cui a volte ci si può discostare in funzione del proprio senso critico, della propria esperienza individuale e del proprio setting di cura.

«Certo, di sicuro ci sarà qualcuno che dirà “Ma come? Una stupida macchina mi dice quello che devo fare?” Il problema è capire che la stupida macchina ti può semplicemente aiutare, dare degli elementi in più di cui puoi tenere conto, oppure in quel momento la stupida macchina non ha tutti gli elementi per capire la situazione, e allora decidi tu. Nessun sistema ci può sostituire sennò saremmo tutti senza lavoro. Detto questo, la macchina deve funzionare bene, se no è solo una cosa in più da gestire. Esempio, se mi dà troppe informazioni si perde l’effetto benefico e mi fa perdere solo tempo. E poi il sistema si attiva senza che io glielo chieda? E il dato che mi fornisce, è un dato di massima oppure molto preciso? Quali errori ci segnala, solo quelli enormi o anche quelli più fini? Se non inserisco dei dati importanti, me li chiede?». (Medico internista, setting A)

La tecnologia informatica viene percepita come uno strumento che è possibile interrogare e, auspicabilmente, adattare alle proprie esigenze. È interessante che, in questo posizionamento, anche la rappresentazione dei clinici stessi appare più realistica: a fronte delle pressanti richieste poste dal lavoro e dei limiti individuali di attenzione e di stanchezza, evidenze e tecnologie sono viste come un potenziale supporto al clinico per evitare errori e svolgere al meglio il proprio ruolo. Ecco dunque che appaiono superati i maggiori ostacoli rappresentazionali, e l’adozione dei SSDC nella pratica diventa maggiormente dipendente dal superamento di una serie di ostacoli tecnici e dal raggiungimento di un soddisfacente livello di usabilità. I clinici in questa fase sembrano impegnati in una interrogazione “fine” della tecnologia, volta a comprendere le precise condizioni d’uso del sistema e le possibilità di adattamento del sistema alle routine e alle pratiche di lavoro quotidiane. In altre parole, questo posizionamento si connota per chiarificazione del limite del sistema (“quanto mi aiuta?”) e per la percezione di possibile adattamento reciproco tra pratica clinica, evidenze scientifiche e tecnologia informatica.

Per giungere a questa fase d’implementazione dei SSDC, suggerisce il direttore sanitario che si identifica in questo posizionamento, occorrono tanto operazioni top-down, messe in atto nel momento di avvio del cambiamento dai vertici delle organizzazioni, quanto leve bottom-up, in grado di aumentare il controllo e la padronanza percepiti dai clinici su tecnologie ed evidenze. Grande rilevanza è attribuita in particolare al fatto di aver promosso esperienze di informatizzazione “graduali ma intensive e omogenee”: laddove le tecnologie informative hanno raggiunto un buon livello di integrazione con la pratica, e la cartella clinica elettronica è uno strumento di lavoro accettato, l’inserimento dei SSDC appare un passaggio naturale e poco oneroso, come a sottendere che il grosso del lavoro sia stato già fatto.

Gli ostacoli all’adozione dei SSDC paiono in questo caso concentrarsi sulla scelta degli avvisi e sugli aspetti tecnici dell’interfaccia. Alcuni esempi frequentemente menzionati sono: il problema della sovrabbondanza di dati erogati, che farebbero perdere la potenzialità benefiche dei SSDC sottoponendo al clinico un numero eccessivo di informazioni da processare; i problemi ergonomici (il sistema deve essere ben integrato nella cartella clinica informatica consentendo un’agevole interazione); la mancata integrazione dei sistemi informativi tra loro (cartella elettronica e SSDC devono essere compatibili e non funzionare attraverso supporti differenti); la discrepanza tra i flussi di azione e pensiero dei clinici e le modalità di funzionamento del sistema.

«All’inizio la tecnologia non mi fa guadagnare tempo, me lo fa perdere! Se ho un alert e una serie di input legati alla mia pratica mi aspetto che avrò bisogno di tempo per elaborarlo. Se accetto di seguirlo, lo seguo, se non lo seguo dovrò segnalarlo. Il lavoro diventa quindi più complesso. Può diventare interessante per chi lo usa e più sicuro per il paziente, ma diventa più complesso e richiede più tempo». (Medico internista, setting A)

In una parola, l’eccessiva rigidità del sistema informativo e una scarsa usabilità sembrano costituire i principali ostacoli in questa fase. L’evoluzione tecnologica e informativa dei SSDC, un costruttivo dialogo tra clinici e personale IT e una maggiore abitudine all’uso del sistema nella pratica possono favorire una corretta e completa adozione dei SSDC.

Posizionamento 6

“Posso insegnare al – e imparare dal – sistema?”: integrazione competente e traduzione locale

«Questo sistema potrebbe avere una ricaduta culturale e didattica importante. Potrebbe aiutare a sviluppare una cultura delle evidenze in un gruppo di lavoro. Si potrebbe usare non individualmente, ma come strumento per ragionare insieme sulle diagnosi e per monitorare alcuni letti in particolare in un reparto». (Chirurgo ortopedico, setting A)

«Io vorrei che il medico diventasse un po’ più ingegnere informatico, e l’ingegnere informatico diventasse un po’ più medico». (Chirurgo ortopedico, setting A)

«Dopo aver integrato la cartella clinica elettronica ci siamo posti il problema di come questa tecnologia potesse aiutarci nella nostra pratica. Esempio: se prescrivo l’antibiotico per la polmonite, non sarà mai per un giorno solo, ovviamente. Possiamo insegnare alla cartella elettronica che non deve richiedermelo ogni giorno? Possiamo codificare il tempo X in modo che il sistema mi dia un alert solo quando questo tempo scade?» (Medico internista, setting A)

Questo posizionamento caratterizza il traguardo auspicato nel percorso di integrazione dei SSDC nei contesti organizzativi sanitari. In questa situazione di maturazione ottimale sono stati superati tanto gli ostacoli rappresentazionali quanto quelli tecnici. Il sistema è vissuto come uno strumento di lavoro a supporto dei clinici e come una risposta alle esigenze di contesto (per es., tenendo traccia dell’operato svolto). Inoltre, i SSDC sono facilmente usabili e il loro uso è volto a migliorare ulteriormente lo strumento. Le parole chiave che descrivono una completa adozione dei SSDC nella pratica sono “integrazione competente” e “traduzione locale”. L’integrazione competente è il risultato di un soddisfacente adattamento reciproco tra i clinici (con le loro esperienze, senso critico e autonomia nella decisione) e l’azione di supporto del sistema informativo, che supera alcuni limiti del clinico (memoria, attenzione). L’integrazione competente si raggiunge quando viene riconosciuto al sistema un sufficiente grado di sofisticatezza: i SSDC rispondono flessibilmente alle esigenze dei clinici, restando aderenti al loro flusso di pensiero e azione, arricchendo le conoscenze del clinico. La traduzione locale risulta, invece, da un raggiunto fit tra le evidenze internazionali e le specificità del contesto locale. Tale fit si sviluppa a due livelli: quello organizzativo strutturale (dato per es. dall’integrazione tra diverse tecnologie e sistemi informativi) e quello sociale (dato per es. dall’uso dei SSCD come strumento di dialogo, confronto e discussione tra le comunità professionali volto a miglioramento della pratica clinica). Un direttore sanitario suggerisce, infatti, che una completa implementazione dei SSDC vada oltre una soddisfacente adozione a opera dei singoli clinici: in una situazione ottimale, i SSDC diventano strumento condiviso delle comunità di pratica24 professionali, che lavorano collaborativamente alla cura dei pazienti (“Possiamo insegnare al sistema?”). Il coronamento dell’adozione dei SSDC nella pratica si ottiene quando quest’ultimo diventa parte dei “repertori condivisi”, facendosi strumento di collaborazione, di contaminazione positiva nell’uso delle evidenze scientifiche e di continuo e fertile scambio tra professionisti sanitari, e tra professionisti e SSDC.

Discussione

I risultati dello studio suggeriscono che il percorso di adozione dei SSDC è scandito da una progressiva evoluzione delle percezioni dei clinici nei confronti del sistema. Emerge un trend che muove da posizioni avverse all’adozione dei SSDC – connotate da forti resistenze e una scarsissima “padronanza percepita” – a una, auspicata, situazione ottimale, in cui i SSDC sono visti come uno strumento di lavoro a servizio dei clinici, integrabile (e non intercambiabile) con le proprie competenze, adattabile alle proprie esigenze e alle specificità organizzative locali. Ogni posizionamento è caratterizzato da una particolare combinazione di due fattori: il rapporto tra clinici e tecnologia e le loro percezioni delle evidenze scientifiche. Nei primi posizionamenti, prevalgono ostacoli di natura rappresentazionale, cioè legati a credenze e percezioni negative che investono tanto le evidenze scientifiche quanto la presenza di una nuova tecnologia. Gli ultimi posizionamenti sono invece connotati da resistenze meno rigide nei confronti dei SSDC, dove gli ostacoli al loro utilizzo sono prevalentemente legati alle concrete difficoltà di interazione con l’interfaccia dei SSDC. I clinici intervistati si sono identificati con uno (o più) dei sei posizionamenti in modo non strettamente dipendente dalla maturità tecnologica e scientifica del loro contesto di appartenenza. Infatti, sebbene i primi due posizionamenti siano stati registrati prevalentemente nel setting C, e gli ultimi due posizionamenti siano tipici del setting A, anche alcuni clinici già esposti alla cartella clinica elettronica hanno mostrato resistenze tipiche del secondo posizionamento.

Se riletti alla luce degli attuali trend innovativi in Sanità, questi risultati consentono alcune riflessioni riguardo allo stato status quo e al potenziale di sviluppo degli ospedali italiani. I primi due posizionamenti riflettono una visione anacronistica rispetto alle tendenze evolutive della professione medica e dei servizi sanitari. Infatti, le recenti pressioni al risparmio di risorse, insieme al più autorevole ruolo riconosciuto ai cittadini nella valutazione dei servizi, impongono agli ospedali e ai professionisti una maggiore trasparenza, visibilità e accountability rispetto a competenze e performance. I SSDC si inseriscono in questo trend, e un loro rifiuto in virtù di timori di controllo e intrusione è incoerente con le comprensibili esigenze di innovazione e trasparenza.

Il terzo e quarto posizionamento riflettono invece un quadro professionale e organizzativo in evoluzione, che mostra una maggiore disponibilità al cambiamento a patto di essere supportato e accompagnato. Accanto a elementi di scetticismo (sia verso le fonti delle evidenze sia verso le tecnologie SSDC) coesistono infatti segnali di apertura. Questi posizionamenti ben riflettono un contesto nazionale molto eterogeneo quanto a maturità tecnologica e scientifica dei servizi sanitari. Lo scetticismo mostrato dai clinici può essere in parte giustificato dallo scarso valore aggiunto di un’ampia quota dell’innovazione imposta ai contesti sanitari, un dato tristemente noto sia nello scenario nazionale sia in quello internazionale.

Il quinto e sesto posizionamento riflettono una visione matura delle evidenze e delle tecnologia. I clinici si sentono in grado di padroneggiare il sistema e usarlo a beneficio della loro pratica clinica e della loro crescita professionale (in senso, quindi, positivamente opportunistico). Le direzioni di miglioramento, in questi casi, riguardano una maggiore integrazione del sistema nelle diverse comunità professionali che popolano l’ospedale: in una situazione ottimale, i SSDC diventano uno strumento collettivo, un “attraversatore di confini” (boundary spanner)25 in grado di favorire lo scambio e la collaborazione inter- e intra-professionale.

Il modello, costruito a partire dai dati empirici, consente a decisori e manager di collocare i propri contesti di riferimento in uno (o più) dei posizionamenti descritti, “diagnosticando” così il rispettivo livello di maturità nei confronti dei SSDC. Pur considerando che anche all’interno dello stesso contesto organizzativo possano coesistere posizionamenti diversi, tale diagnosi consente di identificare le principali leve su cui agire per avvicinarsi a un’integrazione soddisfacente dei SSDC. Sulla base dei risultati riassunti nel modello, suggeriamo quindi alcune direzioni di miglioramento (figura 2), pur sottolineando come queste non vadano applicate in modo lineare o generalizzato e non possano prescindere da un’attenta riflessione sulle specificità professionali e culturali dei contesti organizzativi.




I primi due posizionamenti caratterizzano contesti di cura connotati da grande variabilità di atteggiamenti verso le evidenze scientifiche e ancora lontani dal raggiungimento di un alto livello di informatizzazione. Il superamento degli ostacoli all’adozione dei SSDC sembra richiedere, dunque, un consistente impegno dai vertici delle organizzazioni sanitarie nel supportare un passaggio culturale e professionale. La negoziazione con i professionisti o altre soluzioni bottom-up sono vie possibili ma verosimilmente lunghe e complesse; una iniziale direttività da parte del management potrebbe quindi essere inevitabile. In queste fasi, facilitare l’integrazione dei SSDC richiede inoltre una sua “smitizzazione”, cioè la costruzione di un’immagine realistica del sistema, dove sia il clinico a controllare e padroneggiare i SSDC e non viceversa (come suggerito nel secondo posizionamento). A tal fine, potrebbero essere implementati corsi di aggiornamento e formazione volti a esplicitare le effettive funzioni del sistema, le sua modalità di funzionamento, le regole e condizioni di uso e i motivi alla base della sua implementazione.

Nel terzo e quarto posizionamento, il management si trova di fronte a una grande responsabilità, ossia quella di fare leva sui segnali di apertura offerti dai clinici e di ridurre lo scetticismo nei confronti dei SSDC. La costruzione di un diffuso sentimento di fiducia verso tale strumento richiede un lavoro tanto sul fronte tecnologico (favorendo la flessibilità e la facilità d’uso dell’interfaccia) quanto su quello scientifico (chiarendo l’autorevolezza e l’indipendenza delle fonti delle evidenze). Inoltre, la circolazione di best practice e di esperienze di successo nell’integrazione del sistema può favorire un superamento delle residuali resistenze riguardanti l’effettiva utilità del SSDC.

Infine, i manager che si confrontano con situazioni quali quelle descritte nel quinto e sesto posizionamento dovrebbero concentrarsi sul miglioramento dell’usabilità e della facilità di interazione della tecnologia SSDC. A fronte di un generale superamento degli ostacoli rappresentazionali, restano infatti da affrontare problemi tecnici ed ergonomici, problemi di integrazione e compatibilità tra diverse tecnologie informative (per es., cartella clinica elettronica e diversi SSDC) e problemi di modulazione “fine” dei SSDC (per es., regolare la frequenza degli avvisi). Inoltre, in queste fasi dovrebbe essere favorito un costante feedback tra i SSDC e i clinici che ne fanno uso, i quali potrebbero partecipare alla creazione di nuovi reminder/indicazioni e a una loro precisazione in funzione delle specialità cliniche.

Il presente studio presenta alcuni limiti, legati in particolare alla generalizzabilità dei risultati. Pur avendo fatto affidamento su un criterio di campionamento teorico21, la nostra analisi è stata svolta in un solo contesto nazionale e prevalentemente in setting di cura ortopedici. Per determinare la trasferibilità del modello proposto, sarà quindi necessario un confronto con studi condotti in differenti contesti sanitari e nazionali. Pur considerando l’importanza di questo limite, riteniamo che la robustezza dei risultati sia garantita dall’approfondito lavoro di codifica e dalla costante comparazione tra dati emergenti da diversi ruoli professionali e diverse esperienze d’uso della tecnologia. Questo ha consentito di esplorare la complessità del fenomeno pur all’interno di un campione limitato. Oltre ad ampliare numero e tipo di professionisti coinvolti, future ricerche potrebbero esplorare longitudinalmente il processo di adozione dei SSDC per delinearne gli effetti a lungo termine, oppure analizzare le concrete pratiche d’uso dei SSDC utilizzando metodologie etnografiche, osservando cioè le persone al lavoro, dove le loro azioni e dichiarazioni hanno conseguenze sul mondo reale26-29.

Considerati i particolari obiettivi conoscitivi e le scelte di campionamento, lo studio non ha approfondito alcuni aspetti della reale implementazione dei SSDC, come per esempio le modalità di sviluppo dell’infrastruttura tecnologica in grado di supportarli. Tuttavia, in chiusura, riportiamo poche indicazioni di massima per decisori e manager interessati ad avviare un percorso di adozione dei SSDC. Come ogni innovazione tecnologica implementata in organizzazioni complesse, lo sviluppo dei software e dell’interfaccia tecnologica andrebbe affidata a enti di fiducia e autorevoli nel proprio campo. Sul piano delle evidenze, è consigliabile fare affidamento a editori di rilievo, che garantiscano un continuo aggiornamento degli studi scientifici e dei dati messi a disposizione. Sul piano dell’interfaccia tecnologica, analogamente, è indispensabile adottare sistemi flessibili e continuamente modificabili anche dopo l’implementazione iniziale in funzione delle necessità degli utilizzatori diretti. Infatti, anche a fronte della disponibilità all’uso dei SSDC da parte dei clinici, la letteratura internazionale indica che una delle principali cause del fallimento dell’integrazione dei SSDC consista nella presenza di una interfaccia grafica complicata e poco intuitiva30,31. Ecco perché si rende indispensabile un processo di affinamento e di personalizzazione del sistema in ogni specifico contesto di utilizzo, possibile solo attraverso una collaborazione prolungata tra clinici e staff IT.

Conclusioni

Nel momento in cui scriviamo, pochissimi ospedali italiani hanno avviato la sperimentazione di un sistema di supporto decisionale (sono a noi note soltanto le esperienze dell’Azienda Ospedaliera di Desio e Vimercate e dell’IRST di Meldola). Per quanto questa tendenza non sarà sovvertita nel corso di pochi anni, il passaggio all’informatizzazione sarà una tappa obbligata per tutti gli ospedali moderni. In Italia, sul totale dei finanziamenti annualmente destinati all’innovazione IT negli ospedali (pari a circa un miliardo di euro), stimiamo che la maggior parte verrà devoluta allo sviluppo della cartella clinica elettronica e, in secondo luogo, ai SSDC. Alla luce di questo notevole investimento, sembra fondamentale preparare i contesti organizzativi e le comunità professionali all’integrazione dei SSDC. La potenzialità di questi sistemi per migliorare la qualità delle cure e sviluppare la professionalità medica è nota, e richiama manager e decisori a impegnarsi per accompagnare i clinici a ripensare il proprio modo di lavorare.




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